Fantasmi e occupazioni

Una lotta per la casa a Messina. I movimenti per la casa non sono animati soltanto da persone vive, che lottano tra mille contraddizioni, ma anche dai morti, che con la loro presenza pongono continuamente questioni e aprono spazi di autonomia.

La storia è quella di un sindacato autonomo per il diritto alla casa, comunista e indirizzato ai bisogni del sottoproletariato. Voi già sospettate: «È il resoconto di un fallimento. Seppur romantica e ostinata quella del leninismo nei tuguri sarà pur sempre una sconfitta!» Penserete alla lunga onda depressiva del 1989, all’architettura neoliberale delle politiche abitative, a un mondo di réclame e individualismo che abortisce qualsiasi vagito di coscienza di classe, alla fascistizzazione dei ceti poveri italiani. Tutte spiegazioni un poco ingenue poiché non sapete ancora che si tratta, anche, di un racconto di fantasmi. Spiriti di morti folgorati, di bambini disabili. Presenze tangibili che osservano e parlano, che mettono le mani alla gola e sono in grado di destrutturare e ristrutturare lo stato delle cose presenti, per piegare infine la lotta al proprio volere. A fronteggiarli non ci saranno i coniugi Warren di Amityville ma Cucinotta, Robertina, Fedele, Trovatella e tutti gli altri, con i loro desideri e le loro stanchezze.
Pietro Saitta, sociologo, continua la sua ricerca ormai più che decennale nel margine e nell’informale della nostra società. Di nuovo è a Messina, la sua città, centodieci anni dopo l’evento che più di tutti ne ha segnato la storia contemporanea, lasciandola indocile e baraccata, venata da una stratificazione sociale complessa e percorsa dai fremiti di conflitti e di emancipazioni. Appena uscito per Ombre corte, Prendere le case. Fantasmi del sindacalismo in una città ribelle, segna una novità nel percorso dell’autore. Uno spostamento che attiene alla scrittura e alla forma del testo. Il resoconto etnografico è immediato, cronologico, denso. Piacerà a chi ama l’antropologia di Crapanzano, Clifford o Marcus ed è leggibile da un pubblico ampio.
Nelle periferie di Messina incontriamo una panoplia di situazioni familiari disastrate, la cui casa è precaria nelle carte e nella muratura. Gli abitanti, sospesi tra l’indigenza e l’illegalità, all’inizio del 2017 sono raggiunti da una giovane donna, militante comunista, con qualche compagno intorno a sé. È più che determinata a trasformare la muffa sui muri nell’humus di una lotta condotta da soggetti autonomi e coscienti. Il ricercatore li raggiunge e, a metà della prima discesa nel campo etnografico, già scrive comunicati per il neonato sindacato. Non oppone la benché minima resistenza all’essere assorbito dal suo oggetto di studio, garantendone forse la sopravvivenza, data l’esiguità del numero dei convenuti alla prima riunione.

Nel testo troveremo così il sociologo narrato da se stesso, a volte come paziente paciere, altrove esaurito e sbracante nella bestemmia. Ci caleremo al suo fianco e sorrideremo nel vederlo prorompere, parlando di etnicizzazione del conflitto e di teorie dell’etichettamento a compagni di lotta non proprio avvezzi ai sociologismi e vagamente xenofobi. Leggeremo, cioè, il suo essere una persona all’interno di relazioni inevitabilmente anche affettive, la quale, in sede di scrittura, si ritrova sparsa nei lasciti di un metodo di ricerca che affolla il tavolo con mille appunti e annotazioni.
Non si tratta di un mero sdoppiamento della voce dell’io narrante. L’autore è, contemporaneamente e senza mediazioni, militante ed etnografo. Così che ogni osservazione e ogni evento sono, per lui e per il lettore, sia informazione tattica per la costruzione dello spazio politico, sia dato sociologico per l’analisi delle azioni e strutture sociali incontrate. Scelta importante quella di azzerare le distanze tra soggetto e oggetto e tra ricerca e militanza. Soprattutto in un momento in cui il lascito di un paradigma che è stato a lungo dominante nelle scienze sociali – in sociologia ancor più che in antropologia – continua comunque a favorire la sterilizzazione del punto di vista soggettivo, per mezzo di procedure sovente null’altro che mistificatorie.
Lo sfondo in cui ci si muove è piuttosto sconfortante. Se le case sprofondano nell’acqua, i loro abitanti affogano nelle relazioni clientelari e sono spinti alla guerra tra poveri. Il lavoro è poco e mal pagato. In condizioni di degrado e insalubrità si riproducono dolori commoventi e tortuosi circuiti debitori. Passeggia qualche pregiudicato, in odore di mafia. Qua e là i segni dei modelli di consumo e di spreco dominanti. Uno si taglia apposta la pelle e un altro strepita sventolando certificazioni di disgrazie vere o presunte. Lo fanno per raccattare un sussidio o per affermare un diritto, per impietosire un’autorità che, potente e distante che sia, a giocarsela bene si può gabbare.
Le istituzioni, inevitabili interlocutori, sono quelle della Messina movimentista, vincitrice alle penultime elezioni locali. Arrivata in municipio, tuttavia, questa compagine sembra essersi impantanata nelle trappole della contabilità e della austerity, sempre comode per tradurre il bisogno sociale in voci di spesa non contemplabili. D’altronde, a onor del vero, in città il disagio abitativo è esteso e secolare. Le politiche per la casa nazionali, peraltro, non possono aiutare. In Italia non abbiamo dovuto aspettare la prima ondata neoliberale proveniente da oltre oceano, quella di inizio Anni Ottanta, dei tagli generalizzati alla spesa pubblica, già così accanita contro l’edilizia popolare, oltre che i sussidi e i servizi alla persona. Per gran parte della storia repubblicana il diritto all’abitazione è, infatti, rimasto sospeso tra la speculazione privata agevolata fiscalmente e la deturpazione del territorio, per frantumarsi infine nelle privatizzazioni.
Abusivi e sofferenti, vediamo i personaggi dibattersi nell’idiosincratico rapporto tra legalismo formale e giustizia sostanziale. Verrebbe così da dire che la forza della presa “biopolitica” – quella che, nei termini di Foucault, consiste “nel potere di fare vivere o respingere nella morte” – su questi gruppi marginali di cittadini è pressoché perfetta. Le norme, se non riescono a codificarne le situazioni disastrate, li lasciano marcire piano nell’ombra. Viceversa, se il potere deve trattarli, permette loro di vivere solo individualizzandone con cura i membri. Il trattamento giuridico sfracella, infatti, il dato collettivo, concependo ogni situazione abitativa come un caso particolare da trattare a parte. Ogni famiglia è incamminata, dentro e fuori i regolamenti, nel proprio percorso di disagi e burocrati di strada. La loro lotta, evidentemente, non può che passare attraverso l’unione degli intenti. Questo è il punto di incontro tra un ceto urbano povero e un’avanguardia rivoluzionaria che non lo chiama, però, soltanto alla lotta per un diritto. Aspira a molto di più. Lo scopo ultimo è la creazione di una coscienza individuale e collettiva in grado di rendersi autonoma nel proprio agire politico perché consapevole delle cause della propria marginalità. Il percorso verso tale autonomia è tuttavia frastagliato di ostacoli esterni e interni.

In questo panorama, il libro si fa reportage. Non è il resoconto dei dieci giorni che sconvolsero il mondo ma, comunque, di cinque mesi tosti davvero. Mesi la cui etnografia pone a posteriori il problema del che fare, cioè della pragmatica delle lotte per i diritti e della creazione di soggetti militanti. E lo fa nei dettagli: le forme assembleari, le strategie nelle relazioni con le autorità, le tattiche di occupazione degli edifici. La leader del movimento, Crepax, è la protagonista assoluta, in grado di mobilitare l’immobile e di perdere il senno per una parola detta male. Instancabile, lei ricopre di riunioni il mondo intorno a sé e cancella le feste comandate. Marcia da un ufficio all’altro, assediando politici e funzionari nascosti dietro alle porte. Come un Leviatano fragile erige e tenta di controllare gli effimeri organismi sociali che occupano stabili vuoti. Gruppi composti da soggetti perlopiù estranei, per esigenze di sopravvivenza, ai sentimenti del comune e del collettivo. Quando queste persone le sfuggono, Crepax brucia in un carnevale nichilistico le relazioni che dal nulla aveva creato, forse per cancellare qualche brutto ricordo del suo recente passato.
Il ritratto psicologico e politico della protagonista consente al libro di aprire un fronte di interrogazioni rivolte alla prassi politica rivoluzionaria. Come cortocircuitare il desiderio di potenza che innerva chi parla in nome degli altri? Quali meccanismi di controllo interni a un gruppo sono prodotti dal lavorio di organizzazione? In quali modi le strutture delle lotte dal basso a loro volta assoggettano i militanti meno scaltri? Qual è la giusta miscela tra pedagogia ed emancipazione per indirizzare un essere umano all’autonomia politica? Come può un qualsiasi movimento sfuggire alle oligarchie e alle monocrazie? Quali sono i rapporti tra i processi dell’animo – la rabbia, l’egotismo, la gelosia – e la politica di base?
Qui, tra le case di Zafferia e la Villa Occupata, il rapporto tra avanguardia e proletariato è ironico. Cioè mobile, dissimulato, a volte biunivocamente derisorio. C’è un brogliaccio di cose da fare e da non fare ma, in ultima analisi, l’evolversi della lotta è deciso sul piano psicosociale: in interminabili e deliranti conversazioni di messaggistica, nei bastoni e nelle carote, nei non detti e nelle antipatie personali, nei pettegolezzi del quartiere e nel gossip sinistrorso cittadino. Si addensano grossi problemi di economia morale. I militanti di vecchia data si trovano fianco a fianco con personaggi usciti da un romanzo di Caldwell, che non mettono insieme il pranzo con la cena. Free riders di una lotta comunista nella postmodernità, sono privi di qualsiasi formazione alla politica. Vogliono un pochino di più per sé e sono del tutto menefreghisti di fronte a incomprensibili prospettive di rivoluzione dei rapporti tra le classi. Talora l’ironia diventa voluta parodia e regala una risata: da ben poco frequentate assemblee, in mezzo a case fatiscenti dove regna un retrivo disincanto, escono comunicati roboanti, in cui il popolo unito è definitivamente insorto e ha appena cominciato la lotta.

Gli interrogativi sollevati sono lasciati senza risposta benché sia lasciato intendere che le questioni andrebbero ripresentate sposando all’analisi dei modi di assoggettamento contemporaneo la lettura materialista dei rapporti socio-economici. Saitta sembra suggerire di voler dire qualcosa in futuro sul matrimonio tra Foucault e Marx in seno alla teoria della prassi dei movimenti. C’è urgenza di lavori del genere, bussole che aiutino a ricostruire un paradigma forte d’azione da impiegare nelle lotte dal basso. Ora come ora questo multiforme campo non è messo bene. La questione ci riguarda in tanti. Più o meno tutti quelli che si sono trovati a raccogliere spazzatura da un lotto demaniale o a organizzare una salsicciata di autofinanziamento. Strumenti colorati ma deboli quando in gioco ci sono i diritti elementari e il rifiuto di essere sfruttati. I gattili e gli orti urbani, che spuntano qua e là nel testo, sono bellissimi. Ma i tetti rimangono tetti.
Bisogna costruire strumenti, teorici e pratici, adeguati a prefigurare le resistenze nel campo dei poteri biopolitici contemporanei. Prendere le case va in questa direzione. A ben guardare, occorrerebbe andare oltre il potere sulle vite. Perché, come detto, sono i morti a prendersi la scena finale. Disturbati, improvvisamente riempiono le giornate di lotta, vagliando il peso dell’anima dei militanti. Si incanalano in un sapere popolano che asserisce di poter interpretarne le voci. Da esso, improvvisamente i protagonisti dell’occupazione elaborano un codice in grado di sostituirsi al giuridico – in quanto più che legittimi proprietari del luogo che infestano – e a quello proprio dell’organizzazione politica. Qui ribaltano i rapporti gerarchici e creano spazi di autonomia. Autonomia che però non ci appare soltanto come il rifiuto del potere pastorale della leader quanto, piuttosto, il frutto di una confusione morale che scambia una stanzetta in più per una famiglia con la liberazione dai bisogni materiali. Quella confusione morale su cui s’infrange una lotta che però non è certo finita: fallite ancora compagni, fallite meglio.

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