Ragione e potere di un medico a metà

Una lettura del romanzo di Gaja Cenciarelli, “La nuda verità”.

La nuda verità Cenciarelli

Spesso ciò che si crede di vedere non è ciò che si vede. Al pari di concetti come vita, salute, amore, tutti più o meno sanno cos’è la malattia ma nessuno è in grado di descriverla. Nel suo celebre saggio On Being Ill Virginia Woolf suggerisce che la malattia non sta in una definizione, ma in una storia. Un termine come cancro, per esempio, non riesce a descrivere la realtà vissuta dalla persona malata. La letteratura, invece, è in grado di rappresentare il male fisico attraverso un linguaggio familiare, conosciuto, diventando un’espressione concreta della vita.

Di tutt’altro avviso è Donatella Mugghiani, autorevole primario medico oncologo in un ospedale pubblico e protagonista del romanzo di Gaja Cenciarelli, La nuda verità (Marsilio, 2018). Certa che un libro non possa cambiare la vita quanto e più dei fatti, Donatella odia le sue pazienti. Trincerata nel suo passo marziale, quando le incontra al giro visite o le riceve nel suo studio privato sopporta malvolentieri le loro domande e gode nel metterle a tacere. Brusca, irritata, sgradevole, disdegna le lacrime e non ha interesse a essere accogliente. Evita di stringere mani e sfiorare corpi, tutti intercambiabili come i nomi delle pazienti decedute che ha scordato perché «hanno la stessa acqua avvelenata negli occhi» trasmessa «quasi per osmosi ambientale». Fredda, anaffettiva, «una stronza» a dire dei colleghi, che invece la stimano dal punto di vista professionale, esercita il pieno controllo di chi si sente onnipotente, tanto da asserire: «Sono molto brava, ma non faccio miracoli».

Donatella Mugghiani è sicura di poter essere libera. Quarantacinquenne non bella, ingorda di sigarette e disabituata a bere, vive sola nel suo appartamento pulito dalla donna di servizio, dove la sera si corica supina con braccia e gambe divaricate «stando ben attenta a non toccarsi». La madre è deceduta anni prima e del padre, ex giocatore d’azzardo che vive a Lugano con una nuova famiglia, conserva solo un posacenere di bronzo, dono del loro ultimo incontro. L’unica cosa vivente che ama è il glicine in balcone, almeno fin quando non si imbatte in Stefano Barbero, tronfio commerciante di vini appassionato di cinema e mitologia greca che sembra fuggire da ogni obbligo. Prima di lui, Donatella ha sempre avuto casti rapporti di rispetto – l’orgasmo «che non sporcava, che non colava» – con uomini più grandi. L’amore è disordine, e Donatella lo addomestica ricorrendo alla ragione. Per lei conoscere è prima di tutto riconoscere. Il dubbio non è concesso. Attraverso classificazioni e dicotomie – corpo/mente, sano/malato, maschile/femminile – imprigiona se stessa nella salda rappresentazione che ha costruito. Non a caso Stefano inizia a chiamarla Atena, come la vergine dea della caccia partorita dalla testa di Zeus, regalandole una stampa del dipinto di Gustav Klimt.

Consapevole del potere che esercita sulle donne e determinato a non perdere quel che ha, Stefano Barbero è un uomo curioso che si annoia in fretta e, da abile seduttore, comincia a scherzare con Francesca Balestrieri, segretaria in prova presso lo studio di Donatella. Giovane, bella e incapace di comprendere la realtà, Francesca è l’opposto di Donatella che, sentendosi minacciata, cede al gioco erotico offerto da Stefano. Sono incontri senza affettività: il sesso è solo una prestazione elargita in poco tempo, dove tenerezza e intimità – al contrario della possessione – vengono esclusi perché troppo improduttivi.

Donatella Mugghiani, infatti, non ammette il dispendio di tempo. Vive nel presente, nel tempo utilizzabile, dove non è permesso ammalarsi, correre rischi o chiedere aiuto. Ottimizzare la realtà, questo il suo scopo: dare forma a se stessa in quanto progetto. Un compito che ben presto diventa costrizione: «Quello che non ha mai sopportato è il tempo. Ha sempre avuto seri problemi a considerarlo un continuo fluire. Ha sempre diviso il tempo in prima e dopo. Il durante non esisteva, e tutto si trasformava in dopo troppo rapidamente per non farle male». I rapporti umani sono misurati in termini di potere e risultati: le visite ai pazienti e il colloquio con i parenti, l’assunzione temporanea di Francesca, il sesso con Stefano.

Convinta da sempre che ai medici «certe domande non si possono fare» perché «non sono creature normali», Donatella divide il mondo tra chi è medico e chi non lo è, senza comprendere che la guarigione è anche un lavoro di cooperazione tra medico e paziente, perfino quando un’inchiesta giornalistica intitolata La malaumanità, da lei erroneamente sottostimata, minaccia di scalfire il suo dominio lavorativo. Il problema è che non vediamo mai le cose come sono, ma come siamo noi. È quasi un principio di autismo. Cosa serve dunque, a Donatella, per guardare ciò che ha di fronte?

«Molti medici pensano che sia sufficiente essere gentili e comprensivi con i loro pazienti per soddisfare gli aspetti umani della loro professione. Questo è lodevole, ma non basta. Occorre assumere la posizione di chi osserva e impara» scrive Claudio Rugarli, Professore emerito di Medicina interna all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, nel suo Medici a metà (Cortina, 2017) dove si chiede perché, nonostante i progressi tecnologici, la medicina clinica venga accusata di essere disumanizzata. Secondo lui i motivi sono diversi e appartengono anche alla formazione dei medici, all’uso del linguaggio e al tipo di approccio che scelgono di avere con il paziente. Rugarli consiglia agli specialisti di non limitarsi al loro campo di studi, andando oltre le esperienze personali, e sottolinea il «grande contributo della letteratura, che ha rappresentato una gamma infinita di tipi umani, con le loro virtù, i loro vizi e le loro contraddizioni» ricordando i casi di medici-scrittori come Čechov, Schnitzler e Céline perché «a parità di preparazione specifica, tra un medico che abbia letto Dostoevskij o Flaubert, e uno che non gli abbia letti», il primo ha una maggiore «predisposizione a comprendere le vicende umane e a far bene il medico».

Donatella Mugghiani, tuttavia, è un medico evidence based, ovvero uno strenuo difensore della medicina basata sulle prove di efficacia. Non nutre alcun interesse nei confronti delle medical humanities, al contrario: un approccio medico di tipo olistico o, peggio ancora, narrativo, come quello teorizzato da Rita Charon della Columbia University, la disgusterebbe. «Non esistono i malati. Esistono le malattie» dice. I pazienti sono corpi lacunosi, oggettivati nella parzialità di organi più o meno operabili. Donatella predilige il corpo alla persona che lo abita. Eppure, come tutti, anche lei dovrà confrontarsi con il male – espressione della condizione umana – e la sua vulnerabilità, perché Stefano Barbero rappresenta l’inatteso, il demone che dissimula per poter poi manifestarsi. Come ricorda Woland, il diavolo del Maestro e Margherita: «Non vorresti avere la bontà di riflettere sulla questione: che cosa farebbe il tuo bene, se non esistesse il male? E come apparirebbe la terra, se ne sparissero le ombre?». E proprio l’opera di Michail Bulgakov si presume lettura fondante per Cenciarelli, al pari del Racconto dell’ancella di Margaret Atwood – di cui l’autrice ha da poco tradotto Fantasie di stupro (Racconti Edizioni, 2018) – almeno per quanto concerne il potere soverchiante esercitato sulle donne.

Inizialmente scettica nei confronti dell’arte, Donatella prova a riannodare la sua esistenza nei film che Stefano le consiglia di vedere – Coma profondo di Michael Crichton e la serie Il regno di Lars von Trier –, nelle donne alate di Jerry Uelsmann, sospese nell’acqua prima di capitolare, e soprattutto nelle opere di Gustav Klimt, che cadenzano tutta la vicenda di questo romanzo cangiante, visivo, ricco di espressioni artistiche e che si presta a sua volta a uscire dalla pagina per diventare qualcos’altro. La freddezza scontrosa di Donatella, infatti, non può eliminare completamente la sua ambiguità. Gaja Cenciarelli fa coincidere ogni scena del libro con un mutamento più o meno percettibile della protagonista, grazie a un uso mirabile dei dialoghi e una lingua tessuta con maestria e mai caricata, neppure nelle scene di sesso, esplicite senza essere artefatte, tanto necessarie a comprendere i meccanismi di potere e dipendenza a cui Donatella si sottopone in una Roma corvina, spesso piovosa, trafficata sul Muro Torto o ingrigita tra le mura dell’Eur o il quartiere del Pigneto.

Per Donatella Mugghiani è difficile lasciarsi curare, amare: «Se mi sento male. Se io mi sento male, ora. Chi mi raccoglierà? Chi si prenderà cura di me? Se cado a terra, ora». Astrarre la malattia dalla persona: questa è la diagnosi che ha sempre applicato. Con il suo lessico glaciale ha creato una versione precisa e sempre identica di sé, dimenticando che il linguaggio è al contempo fuori e dentro di noi, realtà dialettica tra le persone. L’io esiste solo in relazione al tu. Ma non sempre è facile accettare ciò che si scopre. L’incontro con Stefano la porta a vestire diverse funzioni, mai del tutto esaustive: medico supponente, dea greca, angelo asessuato, vergine attempata, portatrice di speranza. Quando ammette di aver «superato i limiti di una solitudine umana», Donatella comprende che il male non va scansato, a costo di abbandonare ogni finzione. Sprovvista di ruoli e finalmente nuda, come il quadro di Klimt che dà il titolo al romanzo, Donatella sceglie di spegnere le luci e vedere prima di affermare, per poter forse apprendere qualcosa di sé e del mondo.

Superare le nostre resistenze è uno dei piaceri della vita – e della lettura, aggiungerebbe Virginia Woolf. Leggere è un modo per vivere nelle parole di un altro, per accostarsi alla mente di un’altra persona e accogliere diversi punti di vista. Cambiare approccio, tendendo a una relazione aperta e continuativa che riconosca l’altro nella sua singolarità, invece di possederlo attraverso preconcetti, significa anche accettare la finitudine di ogni essere umano, a partire dalla propria. Perché essere vivi non è una condizione data, ma una scelta da perseguire ogni giorno, quietamente.

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