L’immagine politica e le forme del contropotere

Questo libro si occupa di immagini – cinematografiche, elettroniche, fotografiche – e della loro qualificazione politica con riferimento a un contesto problematico e articolato come quello dell’Italia degli anni Settanta, il decennio lungo del secolo breve, una delle stagioni più intense del recente passato scandita da anni cruciali di crisi e di svolta nella storia della nostra Repubblica, ma anche, proprio per questo, uno dei bacini più ricchi di motivi iconici capaci, nel bene e nel male, di iscriversi in maniera indelebile nel cosiddetto “immaginario collettivo”.

Con questo paragrafo si apre il nuovo libro di Christian Uva L’immagine politica. Forme del contropotere tra cinema, video e fotografia nell’Italia degli anni Settanta (Mimesis, 2015) del quale vi proponiamo alcune pagine del capitolo dedicato al fotografo Tano D’amico.

L’atto fotografico come atto politico: l’epica della militanza secondo Tano D’Amico

È proprio a questo orizzonte […] che si vuole tornare in conclusione di questo itinerario per dare conto della natura più genuina dell’immagine politica quale emerge dalle intenzioni programmatiche e dalla coerente pratica di chi, mentre l’Italia è scossa dalla violenza politica e dal vero e proprio terrorismo, rivendica per la fotografia la necessità di essere dentro alle cose, cioè di raccontare e interpretare dall’interno l’anima cangiante di una collettività politicizzata, anche nel momento in cui quest’ultima non si riconosce più in un “movimento” ma piuttosto in «nuclei più ristretti» di militanti operanti «in situazioni specifiche». [1]

L’urgenza di questo tipo di fotografia è, nuovamente, quella di far emergere la natura vitalistica dell’istanza “desiderante” che attraversa gli anni Settanta e i suoi movimenti per arrivare a fissare una volta per tutte «come esseri umani con i loro sentimenti, con la loro bellezza, con la loro dignità quelli che dovevano essere rappresentati come delle belve assetate di sangue».[2]

È quanto tenta di fare nel corso di tutta la sua carriera Tano D’Amico, autore della dichiarazione appena riportata, soprattutto quando, in una serie di scatti che anticipano di circa tre mesi quelli di via De Amicis (costituendone in qualche modo la versione specularmente opposta), immortala […] Paolo e Daddo (Paolo Tomassini e Leonardo Fortuna)  in occasione della sparatoria avvenuta a Roma il 2 febbraio 1977.

Il tutto nasce dalla menzionata incursione della 127 bianca, un’auto “civetta” della polizia, nella coda del corteo che reagisce lanciando sanpietrini. Lo scontro a fuoco esplode nel momento in cui escono dalla macchina […] l’agente Arboletti, che verrà ferito gravemente, e l’autista, che impugna il mitra e fa fuoco contro i manifestanti, colpendo sia Daddo che Paolo.[3] Pur in una situazione così estrema, l’intenzione di D’Amico è restituire una fisionomia umana ai militanti scesi in piazza, anche quando coinvolti più o meno attivamente in azioni brutali.

La sua pratica fotografica rifugge radicalmente da qualsiasi propensione a fissare, inchiodare, schedare, a farsi in definitiva “reazionaria” in quanto segnaletica e poliziesca.[4] La ricerca di D’Amico verte piuttosto verso un “epos” umano, come quello che emerge dagli scatti in cui Paolo, soccorso da un passante, assume su un marciapiede la posa statuaria di un guerriero ferito, a testimonianza di come l’atteggiamento del fotografo non sia affatto quello di un “cacciatore d’immagini” esterno agli eventi, bensì, nel bene e nel male quello di chi si sente parte in causa di quegli stessi avvenimenti.

È così che avviene la congiunzione tra professionismo e militanza, perché D’Amico non scende in piazza con la sua macchina fotografica solo per attestare i fatti che scandiscono l’attività politica del “movimento”. Egli si sente un fotografo “randagio” che, di fronte al «tribunale che condanna la strada»,[5] avverte continuamente l’esigenza di intervenire con i mezzi a sua disposizione per difendere, giustificare quella “strada”, perseguendo una precisa dimensione estetica.

Militanza e professionismo si congiungono così nel momento in cui D’Amico rivendica la necessità della “bella immagine” quale frutto della «tensione di una intera vita», di «un amore sconfinato» – componenti essenziali, secondo il fotografo, degli stessi movimenti collettivi [6] – ma anche di studio, di preparazione, di mestiere. Da simili premesse deriva una visione fondata su una fusione tra etica ed estetica tutta fieramente “di parte”, dunque tutta politica, originata dalla convinzione che i movimenti collettivi abbiano «sempre vinto nella memoria [producendo] le immagini più belle» le quali, a loro volta, «hanno sempre prodotto nuovi movimenti».[7]

In questo circolo virtuoso è racchiusa una concezione delle immagini quali oggetti al centro di un “doppio movimento” che, da un lato, le determina come derivazione e frutto di una serie di eventi socio-politici e, dall’altro, le investe fideisticamente, proprio in virtù delle loro potenzialità estetiche, del ruolo di veri e propri “agenti di storia” […].

La radicale politicità dell’atto fotografico secondo D’Amico si inserisce quindi nel quadro della delicata responsabilità storica e sociale di cui egli si sente investito e non può dunque che espletarsi nell’urgenza di «rendere amabili gli atti del movimento», mostrando nel contempo «chi sono i veri detentori della violenza».[8] Ciò significa enunciare con forza gli aspetti positivi del soggetto in campo – a partire dalla componente profondamente vitalistica che ne sostanzia l’attività militante – e denunciare i secondi, individuati in alcune specifiche pedine del “potere poliziesco”, quali reali portatori di violenza e morte, come testimonia l’altro […] celebre scatto del fotografo siciliano che mostra l’agente di polizia Giovanni Santone infiltrato tra i disordini seguiti al sit-in del 12 maggio 1977 (indetto a Roma dal Partito Radicale) in cui rimane uccisa Giorgiana Masi.

È evidente allora come questo fare politicamente immagini si nutra di una retorica opposta a quella fondata sull’esaltazione delle potenzialità documentali della fotografia tipica del fotogiornalismo, quella cioè “di servizio” all’avvenimento che viene documentato. Quest’ultima, secondo D’Amico, non fa che bloccare, fissare, insieme all’evento stesso, la capacità di giudizio e di pensiero del fruitore.[9]

In termini pasoliniani, è come se il “fotografo del movimento” rivendicasse una fotografia di poesia contro una fotografia di prosa poiché è unicamente attraverso la prima che l’immagine cessa di essere solo «un pezzo di carta sporco di inchiostro»,[10] svincolandosi dalla condizione di oggetto di consumo per farsi piuttosto agente di consumo nei confronti dello spettatore (le buone fotografie, dice letteralmente D’Amico, sono quelle che «non si fanno consumare. Consumano. Ci lavorano dentro. Sono fotografie che hanno una personalità, una vita propria»[11]).

La politicità del fare immagini, pertanto, si situa quanto mai nell’orizzonte della scelta: quella che evidentemente sostanzia ogni atto politico in quanto tale, ma soprattutto quella che determina l’inevitabile soggettività di qualsiasi forma di sistemazione della realtà all’interno di un frame e che, nel caso di D’Amico, risponde alla volontà di restituire iconicamente presenza storica ad un’umanità troppo facilmente dispersa, dalle stesse parole d’ordine della politica ufficiale così come dall’apparato mediatico istituzionale, nell’idea di una collettività in fondo anonima.

Come ha evidenziato Gabriele D’Autilia, il fotografo siciliano vuole insomma «cimentarsi in una fotografi a sociale, ma non da “Unità”», capace cioè di mostrare «gli individui, le facce» e non «le masse che seguono il partito».[12]

Il “movimento” che tanto sta a cuore a Tano D’Amico non è infatti quello di una moltitudine, pur politicizzata ma impersonale, quanto, al contrario, un movimento di sguardi, gesti profondamente personali capaci di arrivare ad agire la Storia («la Storia – dice il fotografo – ha bisogno di una componente personale»[13]).

Secondo questa prospettiva, scegliere, per un mezzo d’espressione così profondamente fondato sulla materialità di un dispositivo, significa sposare anzitutto una serie di precise opzioni tecniche e stilistiche che, nella fattispecie, corrispondono all’adozione di uno standard volutamente retrò come quello delle macchine a telemetro usate nella Repubblica di Weimar, contesto storico, sociale, politico, ma anche estetico, in cui, sottolinea D’Amico, «cambiò l’immagine, anzi si costruì».[14]

Retrò, del resto, può apparire anche l’orgogliosa scelta, praticata nel tempo con ostinata coerenza, di utilizzare il bianco e nero quale modalità estetica ancora una volta organica a un preciso progetto politico in quanto poetico: solo il bianco e nero, infatti, con la sua capacità di esaltare le linee, i grafismi, i pieni e i vuoti delle immagini e quindi degli avvenimenti in essi rappresentati, può sollecitare, secondo D’Amico, il ruolo attivo del fruitore chiamato a cercare un senso in quanto ritratto.

Egli rivendica insomma l’astrattezza del bianco e nero quale condizione essenziale per «andare oltre la realtà così come appare» in contrapposizione a un colore che, quando casuale (come succede nel fotogiornalismo in cui la realtà viene “colta sul fatto”), «non aiuta a leggere la realtà, la disgrega».[15]

Fare militanza iconica significa quindi combattere per e attraverso l’immagine, cioè adottare, con la massima consapevolezza possibile nei confronti della realtà, una precisa ottica, termine quest’ultimo che evidentemente deve essere inteso nella sua duplice accezione, anzitutto tecnica ma anche politica.

Note

[1] Mettiamo tutto a fuoco! Manuale eversivo di fotografia, a cura di F. Augugliaro, D. Guidi, A. Jemolo, A. Manni, Savelli, Roma 1978, p. 56.

[2] T. D’Amico, Il fotografo e la strada, in L. Caminiti, C.D’Aguanno, T. D’Amico, G. Davoli, T. Fileccia, Daddo e Paolo. L’inizio della grande rivolta. Roma,
piazza Indipendenza, 2 febbraio 1977
, DeriveApprodi, Roma 2012, p. 94.

[3] Cfr. P. Bernocchi, Dal ‘77 in poi, Erre Emme, Roma 1997, p. 146.

[4] Cfr. T. D’Amico, Anima e memoria. Il legame imprendibile tra storia e fotografia, Postcart, Roma 2012, p. 111.

[5] Tano D’Amico, Il fotografo e la strada, op. cit., p. 90.

[6] Ivi, p. 91.

[7] Ibidem.

[8] Ivi, p. 90.

[9] Tano D’Amico, Anima e memoria. Il legame imprendibile tra storia e fotografia, Postcart, Roma 2012, p. 22.

[10] Ivi, p. 9.

[11] Ivi, p. 34.

[12] G. D’Autilia, Storia della fotografia in Italia dal 1839 a oggi, Einaudi, Torino 2012, p. 353.

[13] T. D’Amico con D. Zonta, Fotografie dal settantasette, in D. Zonta, T. Sanguineti (a cura di), “Route 77. Cinema e dintorni”, in «Cineteca», n. 13, marzo 2007, p. 11.

[14] Ivi, p. 13.

[15] T. D’Amico, Anima e memoria. Il legame imprendibile tra storia e fotografia, op. cit., p. 98.

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