All the world’s futures: la Biennale del presente

Una soggettiva tra i corridoi della Biennale d’arte 2015 di Venezia. 

Un po’ si soffre di fronte alle pile di copie de Il capitale di Marx che campeggiano nel bookshop della Biennale 2015. Pile ordinate vicino ai cataloghi d’arte e ai tanti meravigliosi gadget in bella mostra. Viene naturale interrogarsi sulla sua sorte: sarà mai letto o almeno sfogliato? Le forme e l’immaginario del capitalismo tardivo che stiamo vivendo lo ingloberanno trasformando completamente la sua natura oppure anche trasformato in soprammobile o fermaporta sarà capace di inceppare il movimento?

La domanda resta ma l’arena rossa che il curatore ha deciso di mettere al centro del padiglione centrale, rendendola centro di parola e di performance, luogo di sosta e di partecipazione, è proprio una bella idea. È qui che Il Capitale prende vita, presentato ai visitatori della Biennale da Isaac Julien artista e performer, che ne propone una lettura dal vivo, un oratorio (Das oratorio capital) che si replica varie volte durante il giorno. Ritradotto in lettura drammatica, da testo di analisi critica della società industriale, il volume di Marx diventa una sorta di tappeto sonoro che accompagna l’intero allestimento. È un po’ il sottofondo, forse la linea di pensiero anche se non in senso letterale ma simbolico: c’è un sistema e c’è una critica, c’è un mondo e la sua arte. Difficile dire se Okwui Enwezor sia riuscito in quello che si propone di fare, un allestimento pensoso, autoriflessivo in cui è la storia stessa della Biennale, creatura ormai ultracentenaria, a fornire idee, rimandi, punti di ripartenza per indagare «lo stato delle cose». Certo il suo lavoro è coerente. Nell’arena non è solo Il Capitale a offrire occasione di sosta: tutta una serie di performance dal vivo mettono i visitatori in condizione di partecipare, di dire la loro, anche avvicinandosi a lavori elegantissimi formalmente come quelli di Charles Gaines il cui intento di mettere in musica discorsi di militanti famosi da Olympe de Gouges a Malcom X, attraverso una complicata opera di trascrizione dalla parola scritta al pentagramma, dà luogo a istallazioni sonore eseguite dal vivo. Nella stessa arena è attivo un Film Program. Se qualcuno non lo avesse mai incontrato, può conoscere il cinema di Sergej Ejzenstein, vedere pellicole come Sciopero (1925) o Ottobre (1927), fare l’esperienza di un piccolo cinema d’essai sedendosi al al centro dei padiglioni.

All the world’s futures è il titolo di questa edizione. Un invito a declinare il futuro al plurale, come a dire che al futuro si ci arriva da strade diverse.  La voglia di depistare lo sguardo è raccontata da alcuni dati semplici: dei centotrentasei artisti presenti, ottantotto sono presenti per la prima volta e provengono da cinquantatré Paesi, molti da aree geografiche che non si pensano come il centro del mondo. Una folla di artisti a rappresentare un mondo in profonda trasformazione, una presenza composita e a tratti convulsa con cui il curatore ha voluto raccontare, prima ancora del futuro, il presente in cui siamo immersi.

All the world’s futures è contrassegnato da un livello di tre filtri che si intersecano l’un l’altro: Garden of desorder, Liveness: On Epic Duration e Reading Capital, ed è interessante pensarli come filtri, strati di separazione e di accesso verso quello che è in mostra. Molte le presenze “impegnate”, artisti o collettivi di artisti con progetti di immediata denuncia e presa di posizione. Difficile ricordarli tutti, ma volendo scegliergli ai quattro angoli del mondo si può nominare la Cooperativa Cràter Invertido, fondata nel 2011 a Città del Messico in un magazzino della “Colonia obrera” (il quartiere operaio). Il gruppo si distingue per aver scelto di diventare una vera e propria cooperativa, un soggetto legale e di lavoro, attraverso cui i membri, quasi tutti artisti, intendono offrire uno spazio che permette di condividere metodi e mezzi. Ispirata ai collettivi messicani degli anni Sessanta e Settanta, Cratèr intertido cerca di decostruire l’idea di “autopromozione” verso cui il mercato spinge gli artisti e tutti gli altri lavoratori. Mexico en la piel (2014), l’opera esposta a Venezia, usa il registro dell’ironia per smontare l’idea di orgoglio nazionale.

Invisible Borders: The Trans-African Project è un progetto che ha preso il via nel 2009 su iniziativa di Emeka Okereke, un artista itinerante nigeriano. Si tratta di una piattaforma di collaborazione che riunisce fotografi, scrittori e registi di diversi Paesi, africani e non, per discutere il significato delle frontiere e valutare la complessa realtà materiale dell’Africa attraverso un viaggio da compiersi ogni anno. Durante il viaggio il progetto, varcando diversi confini, assorbe altre iniziative moltiplicando gli effetti dell’impegno di altri che si stanno ponendo domande sul retaggio coloniale del continente africano e sulla possibilità di una sua, futura, reinvenzione. Ai viaggi di Invisible Borders hanno partecipato decine di artisti e gli esiti di questo percorso sono stati presentati nell’ambito di mostre e seminari in località di tutto il globo. In mostra in Biennale A Trans-African World-Space, un archivio visivo dei viaggi passati, un’istallazione di oggetti e un documentario. La presenza di queste esperienze ha permesso alcuni passaggi fra il “dentro” e il “fuori” della mostra. Il Gulf Labor Coalition (Glc) nei giorni dell’inaugurazione ha organizzato insieme al Collettivo Sale Docks di Venezia un’occupazione pacifica della terrazza Marino Marini della collezione Guggenheim.

Come gruppo autogestito di artisti, scrittori, curatori ed altri operatori culturali il Glc sta lavorando a un boicottaggio del Guggenheim Abu Dhabi (Gad) coinvolgendo altre associazioni interessate a denunciare le condizioni di lavoro imposte agli operai che lavorano in grandi costruzioni del circuito dell’arte. Il lavoro e le terribili condizioni del lavoro nell’età contemporanea sono al centro di progetti diversi come Labour in a Single Shot di Harun FAcke e Antje Ehmann, o Hello, today you have day off di Jeremy Deller, o l’intero padiglione tedesco che nominandosi Fabrik propone una riflessione sullo slittamento fra produzione di beni e produzione di immagini. Ma non si entra nei padiglioni attraverso la via obbligata che lega l’arte all’impegno sociale. Il tornare dei temi che affliggono il presente – e che al tempo stesso gli danno da pensare – non tolgono terreno alla libertà dell’arte e degli artisti, né al loro diritto di “rifiutare il mondo”, per dire altrimenti “lo stato delle cose”. Ad accogliere i visitatori nel padiglione centrale dei Giardini c’è un famoso lavoro di Fabio Mauri, Il muro occidentale o del pianto (1993), una parete di valigie di oltre quattro metri che evoca il carico dei deportati ad Auschiwitz e il tema penoso dei viaggi senza ritorno. E sembra ancora parlare di viaggi l’opera del ghanese Ibraim Mahama che ha rivestito il lunghissimo corridoio esterno dell’Arsenale di sacchi di iuta, portandoci verso un immaginario, lontano nel tempo, in cui i primi scambi e i commerci davano avvio alla forma di mondo che oggi conosciamo. Il tema del viaggio non smette di essere declinato nelle sue forme ambivalenti (incontro e conquista, scambio e rapina) nel meraviglioso Vertigo Sea di John Akofram, costruito su immagini mozzafiato di una natura forte e pulita, quella dell’oceano, la cui bellezza – persistente – non è stata risparmiata dalle tragedie della violenza umana. Per quarantotto minuti tre schermi mostrano in parallelo immagini che alternandosi propongono, come da lontano, dolore e bellezza, lasciando gli spettatori silenziosi, quasi in preghiera.

Nessun sentimento obbligato per chi gira nella Biennale, nessuna “idea forte” costringe chi guarda a un rapporto univoco con le opera d’arte, né con i pensieri che le hanno raccolte. Nessuna «paranoia» (scrive Enwezor citando Deleuze) da pensiero «unitario e totalizzante». «Far crescere l’azione, il pensiero e i desideri per proliferazione, giustapposizione e disgiunzione, anziché per suddivisione e gerarchizzazione piramidale» è la formula rubata all’Antiedipo per organizzare una grande mostra capace di contenere materiali e lavori molto diversi, per allontanarsi in più modi anche solo dall’idea di un unico centro. L’omaggio alla pittura di Georg Baselitz, attraverso la serie di otto autoritratti su tele che raggiungono i quasi cinque metri di lunghezza, senza smettere di trasmettere fragilità, i dipinti di Marlene Dumas, Skull (2013-2015) che insistono sul binomio “classico” di morte ed erotismo spostano lo sguardo, rendendolo forse più capace di guardare ai lavori di Lorna Simpson, al loro impasto di fotografia e pittura, riconoscendone tutta l’eleganza. Ed è proprio l’alternanza di motivi e di modi di indagare il mondo e la natura attraverso l’arte che permette di godersi l’allestimento del giocoso padiglione olandese senza perdere il filo del pensiero che lega la Biennale all’idea di futuri plurali. Dedicato a un’idea di natura che si può ancora catalogare delicatamente, come nelle intenzioni di un botanico d’altri tempi di cui l’artista Herman de Vries prende le sembianze, il padiglione olandese radica l’esistenza umana nella varietà ordinata dei fenomeni naturali che continuano a rimandare bellezza. E con lo stesso spirito, Celeste Boursier-Mougenot affida a un albero semovente il ruolo di protagonista di Revolutions, un’intensa installazione che fa di tutto il padiglione francese una sorta di organismo danzante.

Immersi nel presente, in quello che non possiamo più non guardare –  la crisi dell’economia, le migrazioni di massa, gli effetti del colonialismo, le guerre, i disastri ambientali –  la Biennale presenta un “parlamento di forme” discontinuo e intelligente, ogni contraddizione inclusa.

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