Tornare sulla legge 194: il diritto della donna alla salute

In occasione dei quarant’anni della 194, pubblichiamo un estratto da Sessualità e riproduzione. Due generazioni in dialogo su diritti, corpi e medicina, una conversazione tra Angela Balzano e Carlo Flamigni.

Angela Balzano: Come si evince dal Manifesto contro l’obiezione di coscienza, reso pubblico nel giugno 2012 per la già citata campagna Il buon medico non obietta, tu promuovi una visione pluralista e democratica della società, in cui non vi è spazio per l’obiezione perché questa limita il diritto delle donne di vivere secondo le proprie scelte e i propri valori, cosa importantissima quando in gioco vi è la possibilità o meno di diventare genitori. Per questo la Consulta di Bioetica, di cui sei membro, afferma: «Chi nega il diritto all’obiezione di coscienza in Sanità non intende negare il valore dell’autonomia personale ma è impegnato nella difesa dei diritti civili fondamentali».

I discorsi conservatori e neofondamentalisti (soprattutto religiosi) invocano oggi un supposto “diritto umano” alla vita del non-nato: sorprende che il CNB abbia scelto di giustificare l’obiezione di coscienza proprio ricorrendo alla retorica pro-life. Il diritto alla vita del non-nato pare in questa cornice più forte di quello della donna, e questo proprio in virtù del fatto che la donna è qui completamente negata e obliata, che non viene neppure nominata come corpo che dà propriamente vita al non-nato, come unico corpo che può decidere di far diventare persona il non-nato. Uno strano destino quello delle donne, che neppure nei diritti umani vedono tutelata la loro autodeterminazione, il loro diritto alla salute.

Ma cosa significa ritenere il non-nato più vulnerabile delle donne stesse, e basare su questo presunto diritto alla vita prenatale il diritto del medico all’obiezione di coscienza? Sostenere che l’embrione sia persona e goda del diritto alla vita comporta numerose e illogiche conseguenze dal punto di vista giuridico. Non si può fondare su una credenza morale, come quella relativa ai diritti dell’embrione, un diritto così contraddittorio e scivoloso come quello all’obiezione di coscienza. Agli occhi di un giurista quest’argomentazione apparirebbe come un’inferenza illogica dal piano descrittivo (ciò che è) a quello normativo (ciò che deve essere), dal momento che non si può far derivare un diritto, così come un dovere, da una credenza morale.

Ci si aspetterebbe, dai bioeticisti membri di un comitato nazionale, una buona conoscenza della legge di Hume, quella che in diritto stabilisce che non si possono derivare conclusioni prescrittive da premesse assertive. Ricordiamo nuovamente la sentenza della Corte Costituzionale italiana n. 27 del 1975, dove i giudici ribadiscono che il diritto alla vita della donna – già persona – è sempre più forte di quello dell’embrione – che persona deve ancora diventare. Se il nostro ordinamento assumesse come valida la definizione di persona per l’embrione, dovrebbe addirittura abolire la legge 194/1978, in quanto l’aborto diverrebbe equiparabile al reato di omicidio. Per nostra fortuna, però, la legge non definisce persona il prodotto del concepimento e si limita ad affermare, all’art. 1, che lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio.

Nel testo di legge non vi sono altri indizi, non si menziona in cosa nello specifico consisterebbe questo inizio. Dal momento che l’art. 4 prevede la possibilità di abortire entro i primi 90 giorni dal concepimento, sembra logico dedurre che prima di quei 90 giorni l’organismo nell’utero della donna non è definibile come persona. Anche se il testo non parla mai di libertà di scelta della donna, poiché tra le motivazioni ammesse per L’IVG si legge solo di pericolo di danni psichici e morali, di condizioni economiche e sociali, non si può negare che essa accordi alla donna la possibilità di decidere del proprio corpo in caso di gravidanza indesiderata. Del resto per diventare persona l’embrione si serve di chi persona già è, pertanto per sancire la sua presunta superiorità sulla donna bisognerebbe quantomeno spiegare il suo diritto a usurpare, contro la sua esplicita volontà, il corpo di quest’ultima. A questo proposito vorrei ricordare l’utilissimo saggio di Thomson, A Defense of Abortion, in cui l’autrice efficacemente scrive: «La madre e il bambino non-nato non sono due inquilini della stessa piccola casa che, per uno sfortunato equivoco, è stata fittata a entrambi. La madre è proprietaria della casa»1.

Nella prospettiva aperta da Thomson l’embrione non è una persona e per questo non gode in modo incondizionato del diritto alla vita. In ultima istanza, è la donna a decidere se accordare o meno al non-nato la possibilità di diventare una persona. Ironicamente scrive: «Un ovulo appena fecondato, un grumo di cellule appena impiantatosi, non è una persona, così come una ghianda non è una quercia»2. E pur ammettendo che l’embrione sia già una persona e che pertanto possa godere del diritto alla vita, dovremmo comunque interrogarci sulla natura di questo diritto. Si tratta di un diritto relativo o assoluto? Secondo Thomson saremmo di fronte a un caso di diritto relativo, dal momento che per venire propriamente al mondo, per vivere dunque, un embrione dipende dalla volontà della donna di concedergli l’uso del proprio, intero, corpo.

Carlo Flamigni: Non solo il senso di rispetto per lo Stato democratico e per le leggi da esso emanate, ma anche altre considerazioni teoriche mi inducono a proporre l’abrogazione dell’art. 9. Se si riesce a superare questa sorta di “miopia culturale” che caratterizza d’abitudine la prospettiva della bioetica ufficiale, troppo attenta a mantenersi entro gli argini della propria matrice ideologica per guardare al di là dei suoi confini, si deve prendere atto che la tutela della vita prenatale non rientra tra i “diritti umani”.

Al tal proposito basti ricordare che nel 1948 l’Assemblea ONU non ha incluso tra i diritti umani né il comma specifico proposto dal Cile sulla tutela della vita prenatale («Unborn children and incurables, mentally defectives and lunatics, shall have the right to life») 3, né tantomeno il testo alternativo sostenuto dal Libano che includeva tale condizione: «Every one has the right to life and bodily integrity from the moment of conception, regardless of physical or mental condition, to liberty and security of persons» 4.

Se poi si amplia lo sguardo al di là della provincia italiana, si deve riconoscere che dopo le Conferenze ONU de Il Cairo (1994) e di Pechino (1995) è forte la tendenza a includere tra i diritti umani anche i “diritti sessuali” e i “diritti riproduttivi”. La loro affermazione non è ancora certa, ma come minimo il CNB avrebbe dovuto dar conto del dibattito in corso, invece di sottoporlo a censura preventiva senza neanche nominarli. Se non esiste un “diritto umano” a tutela della vita prenatale, allora si dissolve la presunta base giuridica e costituzionale del diritto all’obiezione di coscienza in bioetica. Inoltre, si apre una nuova prospettiva: si può osservare che – al di là dei problemi storici circa la sua genesi – la legge 194/1978 non è stata affatto solo frutto del mero potere creonteo e autoritario (esercitato da una maggioranza “tirannica”), ma si rivela essere la modalità concreta con cui a fine anni Settanta si è tutelato quel preciso “diritto umano” che è il diritto alla salute della donna, quasi preconizzando la nozione di “salute riproduttiva” che sta alla base dei “diritti sessuali” e “riproduttivi”.

Lungi dall’essere in contrasto con l’inesistente “diritto alla vita nella fase prenatale”, la 194 è stata antesignana nella tutela concreta dei diritti umani della donna: prima di tutto il diritto alla salute, intesa secondo i princìpi e i limiti accettati dagli Stati moderni. Per questo motivo sembra particolarmente indovinato lo slogan «Il buon medico non obietta» lanciato dalla recente campagna che citavi, promossa da “obiettori dell’obiezione facile”. Infatti, è difficile giustificare che operatori sanitari facciano obiezione di coscienza a interventi atti a tutelare la salute riproduttiva della donna.

In un momento storico in cui sono in aumento gli interventi a tutela della salute riproduttiva ci si aspetterebbe che un Comitato Nazionale di uno Stato moderno, laico e pluralista, fosse pronto a valorizzare le pratiche che aumentano la libertà delle persone e criticasse le sopravvivenze culturali e altri pregiudizi che vengono invocati per opporre resistenza alla tutela dei diritti umani, tra cui quello alla salute. Al contrario, il Parere di maggioranza del CNB insiste nel riproporre la tesi cattolica secondo cui l’aborto violerebbe un presunto quanto inesistente “diritto umano alla vita nella fase prenatale”, una premessa certamente non valida, ma comunque utile per promuovere l’obiezione di coscienza a vero e proprio diritto della persona, con il fine ultimo di mantenere aperto il discorso sui valori fondamentali e sui diritti inviolabili che sarebbero conculcati dalla 194.

Questo modo di vedere tende a capovolgere il quadro della situazione, presentando l’interruzione volontaria della gravidanza come una pratica fortemente immorale, affidata a persone prive di senso etico; in questo quadro squallido spiccherebbero, come nobili eccezioni, i comportamenti illuminati degli obiettori di coscienza, nuovi paladini della tutela dei diritti dell’uomo. Personalmente mi sento invece di poter dichiarare, con un certo orgoglio, che, pur con tutti i limiti dovuti alle vicende storiche, la legge è stata varata a tutela del “diritto umano delle donne alla salute” (anche, ma non solo, riproduttiva): ne consegue che la 194 non viola i diritti umani, e l’obiezione di coscienza all’aborto non è un diritto della persona.

È decisivo ribadire questa prospettiva sia perché essa consente di guardare con favore alle nuove proposte della medicina della riproduzione (che possono richiedere modifiche della 194 tese ad ampliare la libertà della donna) sia perché la consapevolezza che la 194 è in linea con i diritti umani è liberatoria per tutti. Anche per questo motivo dissento dal Parere di maggioranza che si assesta sulla stessa linea di criminalizzazione e colpevolizzazione che ha sempre caratterizzato il mondo cattolico. C’è tuttavia almeno un’altra grave incongruenza nel Parere di maggioranza che merita di essere segnalata.

Proviamo a supporre, naturalmente per assurdo, che il parere sia condivisibile e che ci troviamo tutti d’accordo nel riconoscere che l’obiezione di coscienza in bioetica non sia una protesta contro la legge 194/1978, ma solo una clausola secundum legem in grado di rafforzare la legittimità dell’ordinamento nel suo complesso in quanto si configurerebbe come «un’istituzione democratica necessaria a tenere vivo il senso della tutela dei diritti inviolabili» (diritti che sarebbero naturalmente violati da quanto previsto dalla legge in questione). Se così fosse, allora ci troveremmo di fronte ad almeno due problemi.

Per prima cosa dovremmo chiederci se uno Stato che palesemente vìola tanto cinicamente i diritti umani sia strutturato in modo tale da essere poi anche disponibile a riconoscere l’obiezione di coscienza in bioetica. Il secondo quesito che dovremmo proporre a noi stessi (e qui mi richiamo ad alcune delle considerazioni fatte in precedenza) riguarda il comportamento del CNB: è moralmente accettabile che un Comitato come il nostro riconosca che una certa pratica legale è palesemente contraria ai diritti umani e si limiti a proporre come soluzione il diritto di obiezione di coscienza come istituto utile (?) per tener aperto il discorso sui valori fondamentali, dichiarando esplicitamente di voler «evitare di incrinare il principio di legalità» che consente l’erogazione dei servizi per l’aborto? Tale dichiarazione, però, equivale a una “certificazione etica”, timida finché si vuole, ma inequivocabile, della 194.

Ma allora, in che senso questa legge sarebbe in palese violazione dei diritti umani? D’altro canto, ove una legge fosse davvero in chiaro contrasto coi diritti umani, sarebbe corretto evitare la critica e la denuncia? Di fronte a una pratica disumana, sarebbe sufficiente limitarsi a richiedere il diritto all’obiezione di coscienza per alcuni operatori? Se la maggioranza del Comitato Nazionale crede davvero che la 194 comporti una palese violazione dei diritti umani, allora non si capisce perché voglia «evitare di incrinare il principio di legalità» e si limiti a cercare di «far convivere la legittimità dell’obiezione con la tutela di chi è titolare di diritti legalmente previsti». Mi pare che questa soluzione riveli un’inaccettabile incongruenza morale, che costituisce un’altra ragione per il mio dissenso al Parere di maggioranza.

La conclusione finale è che, se si abbandona – come mi sembra necessario fare – l’idea che l’obiezione di coscienza vada considerata come il vessillo innalzato a difesa dei diritti umani e in particolare del “diritto alla vita” nella fase prenatale contro una legge emanata da un potere creonteo, allora l’obiezione di coscienza in campo sanitario non è più un “diritto fondamentale”, ma può essere consentita a patto che l’obiettore sia tenuto ad accettare un onere congruo (svolgere un servizio suppletivo che integri il mancato servizio dovuto, o adottare il criterio della mobilità del personale non possono essere compensazioni adeguate) che testimoni delle motivazioni unicamente e squisitamente morali della sua richiesta. Continuare a difendere l’attuale situazione che si limita a esonerare dal servizio chiunque lo richieda significa difendere il privilegio dei troppi “obiettori di comodo”, cioè continuare ad alimentare l’immoralità diffusa.

Angela Balzano: La tua ferma opposizione al dilagare dell’obiezione di coscienza alla legge 194 mi pare molto vicina alla posizione espressa da una giovane giurista nel suo libro Doveri costituzionali e obiezione di coscienza (Ed. SC. Napoli, 2014). Questa notizia ti giungerà forse gradita: Federica Grandi intrattiene, come stiamo facendo noi due, un vivo dialogo con il costituzionalista Gemma, che tanta importanza ha giocato nella stesura della tua Postilla contro il parere di maggioranza del CNB.

Interessante l’approccio dell’autrice: tentare una disamina dell’obiezione dal punto di vista della sua tenuta “comune”, su di un terreno politico-relazionale, non privato né individuale. Novità non da poco, se si considera che la diatriba bioetica tra cattolici e laici si affanna da troppo tempo sulle questioni delle “libertà personali”, tanto da poter essere ritenuta “classica”, eccessivamente attaccata al concetto liberale del soggetto egoistico e monolitico proprio dell’età moderna. Lo studio di Grandi, invece, si mostra innovativo e adeguato ai tempi proprio perché capace di interrogare il nesso tra “doveri” e “diritti”, ricordandoci un assunto base della vita politica, una sorta di “abc” oggi troppo trascurato: il corpo politico tiene se tiene l’obbligazione normativa, come in una sorta di circolo virtuoso, in un ordinamento giuridico democratico ai nostri doveri dovrebbero corrispondere diritti di altre\i.

Sullo sfondo del suo ragionamento, colgo con piacere la presenza di un concetto di “soggettività” all’altezza delle sfide attuali: gli individui non sono monadi isolate, ma singolarità in relazione le une con le altre, i cui rapporti sono regolati negli Stati democratici da reciproci obblighi volti a garantire sia le libertà individuali sia le collettive.

Nella sua prospettiva senza doveri non ci sono diritti, perché essi esprimono la centralità della cooperazione sociale per la creazione dei vincoli di solidarietà. Se questo rapporto salta, se la bilateralità diventa unilateralità, se tutti hanno solo diritti, allora c’è qualcosa che non funziona. In un certo senso tutti avranno dei diritti “vuoti”, privi di certezza ed efficacia. E questo è proprio il caso della 194, che cerca di garantire al contempo il diritto del personale sanitario di obiettare e quello delle donne ad abortire. Un caso in cui il principio stesso di bilanciamento non può molto, perché il problema è alla radice: vi sono professionisti che rivestono funzioni pubbliche, come quelle del medico e dell’infermerie ad esempio, tenute a rispettare dei doveri fondamentali.

A questo proposito Grandi ci ricorda che l’art. 54 della Costituzione obbliga al dovere di fedeltà alla Repubblica, e che il suo comma 2 specifica che le pubbliche funzioni sono maggiormente tenute a rispettare questo dovere perché maggiore è il vincolo che le lega alla comunità politica. L’obbligo di fedeltà si configura come rispetto delle leggi dello Stato, in nessun modo è compatibile con la disobbedienza a essa. La suggestione che colgo in questo studio è semplice quanto dirompente: il diritto delle donne a interrompere la gravidanza non ha lo stesso rango di quello del medico di obiettare, essendo per la donna in discussione diritto alla salute e alla libera scelta sul proprio corpo. Oltretutto l’obiezione si pone come un’eccezione alla norma ed è foriera di contraddizioni troppo grandi perché l’ordinamento giuridico, e più in generale la comunità politica, possa accettarla così com’è, senza predisporre opportune garanzie di non compressione dei diritti dipendenti dall’atteggiamento del medico.

Il medico, difatti, sarebbe tenuto dal dovere di fedeltà alla Repubblica a non obiettare, a prestare il dovuto servizio alla comunità cui appartiene, proprio in virtù del vincolo rappresentato dalla solidarietà sociale. Federica Grandi interpreta, dunque, l’applicazione della facoltà di obiettare alla legge 194/1978 come un’ipotesi di “abuso di diritto”, stante l’aggiramento dello scopo originario della norma. E a questo punto non posso fare a meno di chiedere: un ordinamento che per venire incontro alla coscienza dei medici permette l’obiezione, non si rende in qualche modo complice del processo che la trasforma in uno strumento per sabotare i legittimi diritti della donna?

Cogliendo nel segno, l’autrice afferma che la percentuale di obiettori è tale da aver pregiudicato la piena applicazione della legge. Ella ci avverte, proprio come te, che l’obiezione di coscienza non è più solo mezzo per esprimere la libertà personale. Lo dimostra l’elevato numero di ospedali che ormai esercitano una sorta di obiezione di struttura, e in cui non è possibile interrompere una gravidanza, contravvenendo tra l’altro allo stesso art. 9, nel quale si legge che le strutture sanitarie devono in ogni caso assicurare l’espletamento delle procedure previste e l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste [e che in aggiunta] la regione ne controlla e garantisce l’attuazione anche attraverso la mobilità del personale.

Non si può negare, infatti, che l’obiezione di coscienza sia diventata uno strumento politico, diffuso e promosso soprattutto da cattolici ed esponenti del Movimento per la vita. Questi, dopo il fallimento del referendum abrogativo del 1981, hanno abbandonato la strategia d’assalto, preferendo invalidare dall’interno la 194, utilizzando le scappatoie presenti nella stessa per raggiungere i loro obiettivi, ovvero per impedire alle donne l’accesso alla contraccezione e all’interruzione volontaria di gravidanza. Lo prova il fatto che quando la Regione Puglia nel 2010 ha emanato un bando finalizzato all’assunzione di personale non obiettore nei consultori, i primi a presentare ricorso al TAR sono stati proprio il Forum Associazioni Medici Cattolici e il Movimento per la Vita. Ancora, gli stessi nel 2010 hanno depositato presso il Parlamento italiano una vera e propria proposta di legge, volta a estendere l’obiezione di coscienza anche al personale farmacista che considera la contraccezione d’emergenza pari a un farmaco abortivo. Su questo Grandi è esplicita sin dall’introduzione: «L’obiezione di coscienza costituisce uno dei tanti tentativi del pluralismo sociale di diventare pluralismo politico senza passare per i percorsi della partecipazione politica, in particolar modo di quella rappresentativa»5.

Di certo quella di Grandi non è oggi voce isolata. In molte e molti si sono espressi contro il dilagare dell’obiezione, anche a livello istituzionale. Recente è la notizia che Zingaretti, presidente della Regione Lazio, ha scelto d’intervenire attivamente per limitarne l’ulteriore aumento. In Lazio, infatti, l’obiezione di coscienza arriva al 90% e non riguarda solo gli ospedali. Il personale medico sanitario dei consultori laziali spesso si rifiuta di prescrivere la pillola del giorno dopo, definita dall’AIFA contraccettivo di emergenza, non farmaco abortivo (come invece è la Ru486), o di firmare i certificati medici necessari ad accedere all’IVG. Le linee guida di Zingaretti, vietando l’obiezione al personale sanitario nei consultori e obbligandolo a firmare i dovuti certificati e a prescrivere contraccettivi post-coitali, non fanno altro che applicare quanto si apprende dallo stesso art. 9 della legge. Zingaretti stesso ha fatto quello che ogni presidente di Regione dovrebbe fare, ha monitorato il problema ed è intervenuto al fine di garantire l’attuazione della legge. I medici, dal canto loro, dovrebbero semplicemente mostrarsi disponibili ad applicare quanto la comunità politica ha individuato necessario al fine di garantire la sua stessa salute e il suo diritto all’autodeterminazione: posporre la propria coscienza al bene comune, prendersi cura delle donne senza giudicare le scelte da loro compiute. Tuttavia, il Movimento per la Vita ha pensato bene di presentare anche questa volta ricorso al TAR della Regione Lazio, sempre in compagnia dell’Associazione nazionale dei medici cattolici. A differenza del ricorso precedente presentato al TAR pugliese, la III sezione del TAR ha però respinto l’istanza cautelare, ovvero la sospensiva, confermando la validità delle Linee guida di Zingaretti. L’iter del ricorso non si è però ancora concluso, dal momento che esso è stato oggetto di una pronuncia cautelare da parte del Consiglio di Stato, di parere discordante da quello del TAR. In data 5 febbraio 2015 il Consiglio di Stato ha infatti emanato un’ordinanza sospensiva che di fatto annulla in parte l’efficacia del decreto Zingaretti. La decisione del Consiglio di Stato accoglie una parte del ricorso del Movimento per la Vita, rispetto all’obbligo di firmare i certificati per la richiesta di IVG:

Considerato che l’appello cautelare appare assistito da profili di fondatezza nella parte in cui contesta il dovere del medico operante presso il Consultorio familiare di attestare, anche se obiettore di coscienza, lo stato di gravidanza e la richiesta della donna di voler effettuare l’IVG, ai sensi dell’art. 5, comma 4, della legge n. 194 del 19786.

Non è oggetto di sospensione, invece, la parte del divieto che obbliga i medici alla prescrizione dei contraccettivi di emergenza, dal momento che

alla luce delle determinazioni assunte dai competenti organi tecnici, l’appello cautelare non appare invece, allo stato, assistito da sufficienti elementi di fondatezza con riferimento alla questione riguardante la prescrizione di contraccettivi, anche meccanici e postcoitali7.

Il Consiglio di Stato ha inoltre richiesto che sia il TAR a pronunciarsi nuovamente in sede di trattazione del merito, rimandando a esso la decisione definitiva. Esistono, tuttavia delle voci che si levano contro l’abuso di obiezione di coscienza, e non sono solo italiane. Basti citare le recenti pronunce del Comitato Europeo dei Diritti Sociali che, accogliendo il ricorso presentato da LAIGA e IPPF (ricorso n. 87/2012), ha condannato l’Italia proprio in quanto non garantisce il diritto alla salute delle donne, sostenendo che l’obiezione di coscienza non può rappresentare un ostacolo al suo pieno raggiungimento. L’obiezione di coscienza è anche oggetto di attenzione delle normative internazionali sui diritti umani.

A questo proposito ricordiamo che il comitato del CEDAW ha espresso esplicitamente la sua preoccupazione sulle difficoltà nell’accesso all’IVG causate dalle leggi che permettono l’obiezione di coscienza al personale medico. Il Comitato ha chiarito che in queste circostanze è compito del governo nazionale assicurare che vi siano alternative valide per garantire i diritti riproduttivi delle donne. Inoltre, secondo lo stesso Comitato, il servizio pubblico nazionale dovrebbe sempre assicurare l’accesso alle procedure di IVG, anche obbligando il personale medico a non ostacolare le stesse, in nome del diritto delle donne a non essere costrette a portare a termine la gravidanza8. Anche il Comitato per i Diritti Umani ha sollevato il problema dell’obiezione di coscienza del personale medico alle pratiche di IVG, sottolineando soprattutto la mancanza di informazioni e dati a riguardo, e sollecitando gli Stati che la permettono a monitorarne diffusione e conseguenze9.

Tuttavia, senza andare troppo lontano, basterebbe rileggere la nostra Costituzione per capire che l’obiezione di coscienza è giuridicamente infondata. Basterebbe ricordare che all’art. 32 essa afferma esplicitamente che La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana e che imporre a una donna di portare a termine una gravidanza contro la sua volontà rappresenta proprio una violazione della sua dignità. Basterebbe muoversi nella direzione della piena applicazione dell’art. 3 della Costituzione, promuovendo pertanto una serie di azioni positive volte a eliminare ogni gender gap nell’ambito della salute riproduttiva e della pianificazione familiare. L’art. 3 della nostra Costituzione, infatti, ha proprio lo scopo di eliminare ogni discriminazione, prevedendo due strade per raggiungere questo obiettivo:

  • l’uguaglianza formale, per la quale se la legge è uguale per tutti non devono sussistere discriminazioni di sesso, razza, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali, affermata al comma 1;
  • l’uguaglianza sostanziale, per la quale le leggi, oltre a essere uguali per tutti, devono prevedere normative speciali a favore delle categorie più deboli: il comma 2 afferma quindi che per garantire un’uguaglianza reale vi è necessità di rimuovere ostacoli economici e sociali, ovvero intervenire attivamente per fornire ai soggetti più deboli i mezzi per esercitare a pieno i propri diritti. L’abrogazione dell’art. 9 costituisce, quindi, l’unico mezzo per applicare a pieno quanto scritto all’art. 3, comma 2, della Costituzione, nel quale leggiamo:

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Non è inutile, a questo punto, ribadire che una maternità non desiderata rappresenta un ostacolo, non solo di tipo economico e sociale, ma anche fisico e psicologico, per il pieno sviluppo di una donna, della sua libertà, della sua partecipazione alla vita politica, pubblica, professionale e sociale.

 

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Note

  1. J. J. Thomson, “A Defense of Abortion”, Philosophy and Public Affairs, 1971, 1(1), p. 53.
  2. Ivi, p. 48.
  3. “Nascituri e malati cronici, malati di mente e pazzi, hanno il diritto alla vita” [trad. nostra]
  4. United Nation, ECOSOC, Doc. E/CN 4/74 1 Luglio, 1947, 12. “Ognuno ha il diritto alla vita e all’integrità fisica dal momento del concepimento, a prescindere da condizioni fisiche e mentali, per la libertà e sicurezza delle persone.” [trad. nostra].
  5. F. Grandi, Doveri costituzionali e obiezione di coscienza, Editoriale scientifica, Napoli, 2014. p. 5
  6. Consiglio di Stato, Ordinanza 10728/2014, consultabile al link <http://www. quotidianosanita.it/allegati/create_pdf.php?all=5537217.pdf> (ultimo accesso ottobre 2015)
  7. Ibid.
  8. Italia, 353, U.N Doc. A/52/38 Rev.1, Parte II, 1997; Polonia,25 U.N Doc. CEDAW/C/POL/CO/6, 2007.
  9. Polonia, 8, U.N DOC CCPR/CO/82/POL, 2004.
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