Interrompere la catastrofe palestinese

L’assalto alle vite palestinesi e la resistenza collettiva di queste settimane.

Il Parlamento di Gaza

Come si continua a vivere, come si coltiva la vita, in una temporalità «catastrofica»? Come si ricostruisce il mondo ogni volta che viene distrutto e spezzato, ogni volta che viene incendiato e che i propri cari scompaiono sotto le macerie di quartieri e case che hanno custodito i sogni, gli affetti, i dolori e le memorie della vita? Come si pratica il «mestiere» di «coltivare la speranza» e di ricostruire la vita di fronte a una violenza coloniale che sistematicamente tenta di annullare la presenza fisica e culturale palestinese?

Se nella Striscia di Gaza l’esercito israeliano bombarda case, palazzi commerciali, centri abitati e sedi di agenzie giornalistiche; minaccia di colpire le scuole delle Nazioni Unite al cui interno centinaia di palestinesi cercano protezione; distrugge l’unico laboratorio che effettua tamponi durante un periodo di pandemia globale (nel territorio più densamente popolato al mondo), rendendo inagibili le strade che portano agli ospedali, le 219 vite palestinesi perse, gli oltre 1500 feriti, le centinaia di famiglie sfollate e i bambini uccisi o rimasti orfani non sono un «danno collaterale». Sono la perdita ripetuta e dolorosa che i palestinesi vivono all’interno della «Nakba mustamirra», la «catastrofe che continua» da un secolo e il cui perpetuarsi è inscindibile da un sistema di rapporti di potere politici e materiali ai quali essi danno un nome ben preciso: colonialismo d’insediamento.

All’interno di questo processo, che ha frammentato la collettività palestinese e i suoi spazi di vita e di movimento nel corso dei decenni, i palestinesi, oggi, comunicano tra di loro oltre i confini territoriali e oltre le distanze fisiche per rivendicare la loro liberazione collettiva, e la decolonizzazione. «È tempo che la Nakba non continui più», è l’hashtag in lingua araba che hanno ampiamente condiviso sulle piattaforme dei social media in occasione del 73° anniversario della «catastrofe».

Interrompere la temporalità «catastrofica» è uno sforzo che coinvolge da una parte un lavoro di lutto collettivo e dall’altra il «sumud» palestinese (la «perseveranza» con cui i palestinesi resistono quotidianamente): piangere la morte dei cari di fronte alle immagini della distruzione e della violenza – con l’indignazione e il dolore che in quel momento bruciano gola e occhi – e celebrare la vita da custodire e nutrire, la bellezza della terra, la forza dello spirito di ogni palestinese che mette in pratica la promessa collettiva: «Non ce ne andremo».

I palestinesi costruiscono assieme in queste settimane, ancora una volta, un momento di mobilitazione collettiva che è, al contempo, un’eredità politica e culturale e una novità nella pratica e nelle relazioni. È un momento che riprende la «tradizione degli oppressi» – la memoria delle intifada – e che articola le necessità del presente e della sua profondità storica. I palestinesi, così, ribadiscono i nessi del momento attuale con le memorie tramandate dalle generazioni precedenti; affrontano e si muovono all’interno di condizioni e contesti di vita in diverse posizioni geografiche, tenendo assieme tutte le rivendicazioni che queste diverse posizioni implicano. La giornata dello «Sciopero della Dignità» del 18 maggio, in questo senso, è una delle espressioni e delle pratiche che mettono a fuoco i nodi attorno ai quali la questione palestinese si è svolta nel corso di un intero secolo e sui quali essa si focalizza nel presente.

Gerusalemme in sciopero (foto: Tarek Bakri)

Il 18 maggio, le serrande di tutti i negozi della Città Vecchia («Al-Baldah al-Qadimah») di Gerusalemme sono state abbassate, le strade sono deserte nelle città della Cisgiordania così come nelle zone abitate dai palestinesi in città quali Haifa, Jaffa, Nazareth, Lod e in tanti villaggi. I palestinesi si riuniscono nelle piazze e nei cortei,  alzano le bandiere palestinesi e «cantano [per] la libertà», come dice uno dei tanti cartelloni dei manifestanti. Le testimonianze della partecipazione allo sciopero vengono condivise anche dalle piazze e dalle strade di altre parti del mondo: dagli Stati Uniti al Libano, alla Giordania e alla Siria. Le immagini dello sciopero generale vengono affiancate, da molti, a quelle della Grande Rivolta del 1936-39, un momento indelebile nella memoria e nella storia della lotta politica palestinese, che era riuscito ad attraversare e unire classi e spazi urbani e rurali, soprattutto ai suoi inizi.

In questo senso, la mobilitazione palestinese attuale condivide con questa memoria una rivendicazione principale, quella dell’unità – che viene messa al centro del manifesto che i palestinesi che vivono nei territori sui quali nel 1948 è stato fondato lo stato israeliano hanno ampiamente diffuso durante lo sciopero: il «Manifesto della Dignità e della Speranza», per un’«intifada della Palestina unita». La nuova intifada vuole raccontare una «storia semplice», quella «del diritto di essere un unico popolo e un’unica collettività in tutta la Palestina».

Le proteste della diaspora palestinese in Giordania

Ascoltare le conversazioni e le dirette online tenute dagli attivisti palestinesi in collegamento da diverse città e spazi (dentro la Palestina e nel «shataat» – la «dispersione» palestinese nel mondo) in questi giorni ribadisce questo messaggio fondamentale della nuova generazione palestinese e del suo intero popolo, in un momento in cui sembrava che il sistema politico instaurato con gli Accordi di Oslo nel 1993 e con i recenti Accordi di Abramo del 2020, promossi dagli Stati Uniti, avesse messo fine, o per lo meno avesse consolidato dei grossi limiti, alla capacità organizzativa dei palestinesi.

In una delle numerose dirette sui social media, un giovane da Gaza ricorda i versi del poeta Mahmoud Darwish: «Il nostro popolo merita di vivere, ha diritto alla vita». Gli abitanti di Sheikh Jarrah a Gerusalemme rispondono con un impegno: «Vivremo malgrado la volontà [di annichilirci] dell’occupante», e aggiungono «i nostri corpi, i nostri cuori, le nostre menti e preghiere sono con voi a Gaza. […] Le vostre vite sono preziose e care a tutti noi». Nella costruzione e nella pratica di questa unità palestinese, c’è un tangibile sentimento di vicinanza che si traduce nelle parole di chi parla e di chi invia i propri commenti scritti: quel sentimento di desiderio e cura della vita e di condivisione del mondo che permette di sognare e praticare assieme nuove relazioni.

Il poeta palestinese Mahmoud Darwish

Perseguire e realizzare la decolonizzazione in questo contesto è una dinamica che non può che definirsi all’interno della costruzione di queste relazioni, di un nuovo linguaggio e di una nuova pratica politica che ruoti attorno alla questione della giustizia, e che affronti in profondità i nodi e i rapporti politici e materiali all’interno dei quali la costante violenza israeliana viene esercitata sulle vite dei palestinesi.

Durante la giornata di sciopero generale, i gerosolomitani del quartiere di Sheikh Jarrah (che non si limita alle 28 case le cui famiglie stanno resistendo all’espulsione forzata, ma è un territorio più ampio, dalla posizione centrale nella città di Gerusalemme) e gli abitanti di altre zone si sono riuniti sulla strada assediata, da undici giorni a questa parte, dalla polizia e dall’esercito israeliani. A pochi minuti dall’inizio del raduno pacifico, l’esercito ha represso violentemente i manifestanti, allontanandoli dalla zona e permettendo solo ai coloni di fare ingresso nella strada chiusa.

Gli abitanti del quartiere non vogliono che la loro via diventi un’altra Shuhada Street, un tempo arteria principale del centro della città di Al-Khalil (Hebron), chiusa da anni a causa delle violenze dei coloni israeliani e delle restrizioni imposte dall’esercito di occupazione. Solo sciogliendo il nodo di questa ingiustizia, la Nakba non continuerà più.

Print Friendly, PDF & Email
Close