In collaborazione con OtherwiseMag, rivista online di etnografia e storytelling in lingua inglese.

Anna è una sarta su commissione. Nel mio vicinato, in una zona popolare vicina al centro storico, in tanti si rivolgono a lei, inclusi mia nonna e i miei genitori. “Oh, hai preso qualche chilo. Portiamo questo maglione ad Anna, così vediamo cosa può fare”. Per vent’anni ho sentito più volte mia madre dire queste parole, rivolgendosi a me e a mio padre.
Molti nel quartiere conoscono la storia di Anna. Ma ragazzi come me, proiettati verso una vita medio borghese, prima all’università, lontano dal quartiere, e poi via da Napoli, erano tenuti a distanza da storie come la sua. Come se appartenere, e diventare parte della classe media, significasse enfatizzare una distanza da coloro che, pur vivendo nello stesso quartiere, erano lontani dai nostri ritmi e dalle nostre problematiche quotidiane.
La creazione di questa distanza non è un fatto individuale. È qualcosa di collettivo, parte di una serie di discorsi e narrazioni su Napoli come una città fatta di due anime: la Napoli buona, con il suo meraviglioso panorama, il sole e la sua storia contro la Napoli cattiva, povera e criminale. Questi discorsi non solo mettono in contrasto la differenza tra il rispettabile e il delinquente. Danno cittadinanza politica, morale e intellettuale alla gente perbene, mentre negano ai cosiddetti malament’ la legittimità delle loro aspirazioni, delle loro critiche e delle loro speranze.
Iniziare una ricerca nel quartiere dove sono cresciuto e dal quale sono andato via più di dieci anni fa non ha significato solo attraversare quel confine invisibile tra la cosiddetta gente per bene e i cosiddetti malament’. Mi sono dovuto interrogare sulla legittimità stessa di tale distinzione e riconoscere come la violenza dell’ineguaglianza e dell’esclusione è raccontata e rafforzata mediante queste due categorie.
Era un pomeriggio di maggio. Ho incontrato Anna nel suo appartamento, un basso. Anna tiene sempre aperte le tende della piccola finestra accanto alla porta, così da segnalare ai clienti che è in casa.
Sbircio dalla finestra. Anna sta dormendo. Decido di andare a prendere un caffè in un bar all’angolo. Da lontano, sedendo al tavolino, però, vedo una signora anziana che, senza bussare, entra nella casa di Anna, marciando imponente nel sonno di Anna.
La vecchia signora si chiama Rita, è una cliente e amica di Anna. Frequentano la stessa chiesa evangelica, tre volte a settimana. Anna aveva appena finito di aggiustare un cappotto per il marito della nipote di Rita. Rita non si è mai sposata. “L’ha fatto per sua madre”, mi dice Anna dopo che Rita se ne è andata. Mentre le sue sorelle si sposavano, lei è rimasta a casa per prendersi cura di sua madre. Ora la madre di Rita è morta e lei potrebbe finalmente iniziare la sua vita, ma è troppo tardi. Rita ha settant’anni, adesso è troppo vecchia per rifarsi una vita, mi spiega Anna. Rita è visibilmente malata, ma la nipote l’ha mandata in una giornata fredda a ritirare il cappotto di suo marito. Anna non sopporta come i parenti trattano Rita.
“È sola, vive da sola a casa sua. Non si è sposata. Sai, penso che con l’età sia diventata gelosa di una delle sue sorelle. Forse una delle sue sorelle ha sposato qualcuno che lei ha amato quando era giovane. Gliel’ho chiesto. Lo sai cosa mi ha risposto? ‘Come fai a saperlo?’. ‘Ma tu pienz’ veramente ca song na scema’ Le ho risposto. Quando hai vissuto come agg vissut je, capisci tutto”.
Persone come me
Anna è nata a La Croce, un quartiere vicino alla stazione centrale. Quando era ancora una bambina la sua famiglia si trasferì a Maruzza, un quartiere del centro città noto per il contrabbando, il traffico di droga e la camorra.
Il cognome di Anna la identifica come parte dell’élite della camorra. Suo fratello, Michele, è stato tra i boss camorristi più famosi di Maruzza, con una biografia criminale lunga e sanguinaria. “Tua madre conosce la mia storia”, mi ha detto. “Non sono interessato ai nomi”, le rispondo, spiegando che avrei usato pseudonimi nel mio testo. “Bene. Le persone come me, quelle del popolo, hanno sempre una storia legata ai loro nomi”.
Quando è nata non sapeva di avere un cognome così pericoloso. “Sono i miei fratelli che l’hanno fatto così”. Sua madre era andata via quando Anna aveva solo sei anni e suo padre non si curava molto di lei. È cresciuta con i nonni, i genitori di suo padre, che hanno fatto il possibile. Ma erano poveri e avevano molti nipoti. Ed Anna non era una bambina facile. Piangeva tutto il tempo, chiedendo di sua madre. “Non avere l’amore di una madre è una cosa brutta. Mi ha influenzata per tutta la vita. Ho cercato sempre l’amore, anche da persone che non lo meritavano, inclusa mia madre”.
Dopo un paio di anni con i nonni, Anna passò da una zia all’altra. Con le sue zie, avrebbe desiderato semplicemente crescere, nutrita dal loro amore. Invece le chiedevano di pulire, di cucinare. Poi, a 14 anni, fu violentata da un uomo di 11 anni più grande di lei.
“A quel tempo i giovani non sapevano cosa fare”. Cinque mesi dopo, si rese conto di essere incinta.
I suoi nonni la fecero sposare l’uomo che l’aveva violentata.
Fu una gravidanza con un pericoloso caso di peritonite. Però alla fine la bambina era sana e vivace.
Ma la vita con suo marito non è mai stata facile. Era un uomo violento. Tre anni dopo il matrimonio lui partì per Milano, abbandonando Anna e la figlia. Anna aveva dei parenti a Milano che la chiamarono e le chiesero di andare lì, per salvare il matrimonio. E Anna andò a vivere con il marito. Da quel momento in poi, furono cinquant’ anni di percosse e sofferenze. “Adesso è muort’. Grazie a Di'”.

Toccare il paradiso con un dito
All’età di ventun anni, Anna aveva avuto già sette gravidanze. A Milano, la famiglia viveva vicino a un monastero in un piccolo paese a venti chilometri dal centro. Una suora di nome Giovanna e un prete di nome Anton si presero cura di lei. Con l’aiuto di suor Giovanna, Anna trovò lavoro, facendo le pulizie nelle case del quartiere. Quando era troppo occupata per il lavoro, la suora e il prete portavano i bambini al parco e si occupavano di loro.
Anche i suoi vicini erano delle care persone. L’avevano presa in simpatia. “Ogni volta che mio marito tornava a casa lasciavo la porta semi-aperta”. Non poteva immaginare quando il marito si sarebbe innervosito per una qualsiasi cosa. Tenendo la porta semi-aperta poteva correre via velocemente e spesso i suoi vicini l’avevano salvata dalla violenza del marito.
Tra i suoi vicini c’era una famiglia di Avellino: sei sorelle e un fratello. Anna li ricorda con grande affetto. Erano gli unici che la aiutavano, anche economicamente, quando le cose andavano molto male. Anna faceva le pulizie a casa loro, fino a quando le trovarono un lavoro in un’industria di falegnameria. Era giovane e ancora bella e i suoi colleghi la corteggiavano e cercavano di sedurla, ma lei li respingeva con determinazione, “Se avessi voluto fare la bella donna, sarei andata in via Lazzari oppure alla ferruvia”, luoghi in cui le prostitute si raggruppano per accogliere clienti. Dopo mesi a lavoro, Anna aveva guadagnato il rispetto dei suoi colleghi. Era una lavoratrice, forte e determinata.
Alcuni anni dopo, Anna e la sua famiglia si trasferirono in un’altra città a otto chilometri di distanza, dove suo marito aprì un negozio di frutta e verdura. È stato l’inizio di una nuova vita. In un primo momento Anna cercò di tenere la vecchia casa accanto ai suoi vicini e suor Giovanna e padre Anton, facendo la pendolare per raggiungere il negozio di frutta. Ma era faticoso e costoso.
Alla fine la famiglia si trasferì nelle tre stanze dietro il negozio. Anna perse il sostegno e le amicizie del suo vecchio quartiere. Era una vita difficile.
Il rapporto con suo marito rimaneva difficile. Le violenze continuavano. Eppure, i due trovarono il modo per evitarsi. Anna faceva il turno mattutino, fino alle 16,00, suo marito il turno serale, dalle 16,00 alle 20,00. “Quindi lavoravi molto più di lui!”. “Io, sì! In più a lavare i panni, cucina’…”.
Nel tempo si guadagnarono una clientela abituale, compresi alcuni anziani che compravano solo pochi articoli. “A mio marito non piacevano quelle persone anziane, compravano poco”. Ad Anna invece piacevano. Le persone anziane venivano a comprare arance e mele solo per avere qualcuno con cui parlare. Ad Anna piaceva averli intorno. Spesso li portava a casa sua per avere la loro compagnia e loro le insegnavano alcune parole del dialetto locale. “Sai, il prezzemolo in napoletano si dice petrusin, loro lo chiamano erbusin. Il pomodoro in napoletano è a pummarol’, loro lo chiamano tumatis. “
Lavoravano duramente e guadagnavano bene. Dopo anni di fatica, venne il momento in cui potevano permettersi una vacanza estiva. “Potevamo andare in Sicilia, ma mio marito aveva amici con cui stare a Napoli. I nostri figli non avevano mai visto Napoli. Volevano vederla. Quindi decidemmo di andare a Napoli”.
Una volta a Napoli, Anna ebbe nostalgia di casa. “Maruzza non era come adesso. Potevi vedere gente che cucinava per strada, gente che vendeva sigarette…”. Maruzza era viva, piena di energia, la gente e la vita di strada, molto diversa dalla piccola periferia milanese. Adesso che avevano i soldi, la madre di Anna ricomparve. Chiese ad Anna perdono. “Quando la vidi, sembrava che stessi toccando il paradiso con un dito”.
Fare tarantelle
Alla fine, Anna e suo marito decisero di tornare a Napoli. “Questo è stato il più grande errore che abbia mai fatto nella vita mia”. Aveva lasciato Napoli quando aveva solo diciassette anni. Era cresciuta lontano dalla città. Non sapeva cosa fosse diventata la sua famiglia. “Tengono un codice. Parla ma non dire, senti ma non ascoltare”.
Iniziò a sentire cose della sua famiglia che non le piacevano. E la sua vita a Napoli non era quella che si aspettava. “Sono nata inutile e a Milano, con il mio negozio di frutta e verdura, ero diventata utile. A Napoli, ero diventata di nuovo inutile”. Era tornata a fare pulizie, andando di casa in casa, talvolta anche lavorando a casa delle sue sorelle.
All’inizio, Anna e la sua famiglia non avevano un posto dove vivere. Vivevano con una delle sorelle di Anna a Maruzza. Anna pagava un affitto mensile, ma quando si rifiutò di essere coinvolta negli affari della famiglia, furono cacciati e costretti a trovare una nuova casa.
Anna trovò un basso nel quartiere La Croce e lì iniziò la sua carriera come sarta, riparando e sistemando i vestiti a pagamento. Suo marito era un sarto e le aveva insegnato il mestiere. “Questa è l’unica cosa che mi ha insegnato”.
Mentre Anna lavorava sodo, lontano da Maruzza e dalle pressioni della sua famiglia allargata, le vite di suo marito e due dei suoi tre figli andarono in un’altra direzione. “Mio marito aveva iniziato a fare tarantelle”, ad essere coinvolto negli affari della famiglia di Anna. Adesso suo marito era ancora più problematico di prima.
Due dei suoi figli, Mario e Gaetano, seguirono il padre.
Mario ha trascorso 20 anni in prigione e poi è morto di morte violenta.
Poi c’era Gaetano. “Gaetano era come me”, ha detto. Non riusciva a dire no quando le persone gli chiedevano di fare qualcosa.
Aveva anche un lato gentile. Scriveva poesie, dicendo che l’amava e che Anna era stata la madre di se stessa oltre ad essere madre dei suoi figli e delle sue figlie.
Gaetano trascorse dodici anni della sua vita uscendo ed entrando di prigione. Prima del suo ultimo arresto, Gaetano aveva già scontato una lunga pena. Dopo il carcere, Gaetano era diventato un parcheggiatore abusivo in un’area controllata dal fratello di Anna, Michele, il capofamiglia. Gaetano stava commettendo un crimine e stava violando la libertà vigilata. Dopo pochi mesi, a marzo, era di nuovo in carcere. Ad ottobre dello stesso anno, fu trovato morto nella sua cella, apparentemente per un’emorragia cerebrale. In un primo momento i suoi compagni di cella erano disposti a testimoniare contro le guardie carcerarie. In seguito, si rifiutarono, dicendo che Gaetano era morto mentre loro erano lontani dalla cella.
“La cattiveria non viene solo dai malament’. Può venire pure dalle persone perbene”, mi dice Anna riferendosi alle guardie carcerarie. “Forse e malament’ sono migliori, nei loro cuori rimane nascosto un pezzo di umanità. Molti nun n’o tengon cchiù, ma perlomeno si possono commuovere quando vedono qualcosa”.

Mi prendo cura di lei
Un paio d’ore dopo, la figlia di Gaetano, Carmela, e suo marito, Antonio, passano per un caffè e per un saluto.
Vivono a Maruzza. Antonio è disoccupato. “È un bravo ragazzo”, mi dice Anna dopo che se ne sono andati. È un venditore ambulante e va di quartiere in quartiere, vendendo quello che riesce a trovare a basso costo, dalle stoviglie agli ombrelli. Lavora per strada, ma non appena ha abbastanza soldi per arrangiarsi, torna a casa con Carmela. È stato contattato dalla famiglia di Anna infinite volte, ma si rifiuta sempre di unirsi a loro.
Intanto, Francesca, la figlia maggiore di Anna, è tornata a Napoli, ma i suoi due figli grandi vivono a Milano. I due cani che vedo gironzolare nel basso di Anna sono suoi. È tornata a Napoli per stare vicina ad Anna che ha una grave forma di diabete. “È venuta qui per pigliarsi cura di me, ma penso, che alla fine, sono io a pigliarmi cura di lei!”.
Francesca ha lasciato Napoli a ventun’anni. Non poteva vivere all’ombra del nome e dei guai della sua famiglia. A Milano ha gestito con successo una fabbrica di foulard. Dopo più di un decennio di attività, ha però dovuto chiedere la sua impresa. L’importazione di foulard a basso costo dall’Asia, in particolare dalla Cina, è stata letale per i suoi affari. Ora vive in un basso non lontano da quello di Anna.
“U’ Gesù” gridò Anna non appena Francesca spalancò la porta del suo basso. Anna mi fa uno sguardo, come per dire “nascondi la penna e il taccuino”. A Francesca non piace quando Anna racconta della sua vita.
Francesca era venuta a prendere i suoi due cagnolini. Ha altri quattro cani e ogni volta che può, dà da mangiare ad altri gatti che passeggiano per il quartiere. “È un’animalista”, mi dice Anna mentre Francesca è ancora nella stanza a disfare le buste della spesa che aveva comprato per la madre. “Sai, forse è come me, io amo la religione. Mia figlia ama cani e gatti”.
Ho perdonato
Non appena Francesca va via, Anna mi racconta della sua fede religiosa.
È nata cattolica, ma non le è mai piaciuta l’idea che i bambini vengano battezzati senza essere consapevoli.
Anna è diventata evangelista pochi anni dopo essersi trasferita nel suo basso a La Croce. Suo marito se n’era andato. A quel tempo stava vedendo qualcuno e quella persona l’ha introdotta alla fede evangelica. Negli anni è passata di chiesa in chiesa fino a trovare una piccola comunità di cui fa ancora parte. Anche se non è sempre come lei vorrebbe, le piace il fatto che sia una piccola comunità. Gli evangelisti seguono la parola di Dio come è scritta nel Vangelo. “Niente santi, niente preti, queste sono cose che sono state create dagli umani. La parola è ciò che conta”. “Se un pastore dice qualcosa che non è corretto, puoi farglielo notare”, dice con un sorriso che mi suggerisce che l’abbia fatto più volte.
Quando legge la Bibbia, si sente meglio, sollevata, ricordata da Dio e dal suo amore. “Il suo amore non ti tradisce”. Ha iniziato leggendo l’Antico Testamento e poi il Nuovo Testamento. “Molte persone non leggono l’Antico Testamento. È troppo forte. ‘Occhio per occhio, dente per dente’. Il Nuovo Testamento riguarda il perdono. Ho perdonato per tutta la mia vita”. Aveva perdonato prima di diventare evangelista e ha continuato in seguito. “Ho perdonato persino le persone che hanno ucciso i miei due figli”.
“È Dio che mi ha fatto parlare con te di religione. Dio sia lodato!”.
Solo Dio può giudicare
Ascoltando Anna parlare, non ho potuto fare a meno di apprezzare la sua intelligenza ed eloquenza. È una narratrice nata, capace di portarti con sé, nei suoi pensieri, le sue ragioni, le sue emozioni, le sue esperienze.
Anna scrive poesie. Ne ha bruciate molte, mi ha detto, ma Francesca è riuscita a salvarne alcune. Ha vinto anche dei premi e alcune poesie sono state lette alla radio e alle stazioni televisive locali. Ha letto una delle sue poesie sul palcoscenico di uno dei principali teatri di Napoli. Le sue poesie riguardano lei, la sua vita, i suoi sentimenti.
Dopo il nostro lungo pomeriggio insieme, sono andato a cercare la cronaca dell’arresto di suo figlio Gaetano. Leggendola, mi sono infuriato per il tono usato dal giornalista, che si è sbizzarrito in una rappresentazione superficialmente esotica e moralizzante della vita di Gaetano. Senza conoscere Anna, forse non avrei nemmeno notato il piglio accondiscendente dell’articolo e sarei andato dritto ai punti su cui voleva concentrarsi: il legame tra l’attività dei parcheggi illegali e la camorra. Gaetano, il parcheggiatore, era dopotutto il nipote di Michele, capo di una famigerata famiglia camorrista. Agli occhi di chi si ostina a usare le lenti della distinzione tra la gente per bene a e malament’, i parcheggiatori come Gaetano sono l’incarnazione dei criminali di strada, predatori che infastidiscono i cittadini ignari che cercano di farsi strada nel centro denso e sovrappopolato di Napoli. La loro ubiquità è una metafora della presenza tentacolare della camorra nelle strade di Napoli.
La notizia dell’arresto di Gaetano è stata scritta in modo da assecondare e confermare questa ossessione borghese.
Gaetano potrebbe aver commesso un crimine o aver fatto parte di una più ampia attività criminale, ma non c’era alcun accenno alla sua storia. Gaetano, le sue poesie, le sue difficoltà erano omesse, non valeva la pena raccontarle.
“Non li giudico”, mi ha detto Anna, parlando dei suoi parenti. Non spettava a lei giudicare la loro condotta. “Solo Dio può giudicare.”
Come scrittore, etnografo e spesso osservatore esterno, sia nella mia città natale che altrove, mi viene spesso chiesto di oltrepassare quella linea, di giudicare, “situare” e “contestualizzare”, e di stare attento a non prendere per buone le narrazioni dei miei interlocutori.
La narrazione di Anna offre una via d’uscita da questo obbligo morale e intellettuale, questa costrizione – sia essa accademica o giornalistica – del giudicare.
La sua storia racconta una tensione tra lo sforzo di navigare in circostanze difficili e il tentativo di non lasciarsi determinare da queste. Questa tensione ha avvolto la vita di Anna, facendola oscillare tra speranza e disperazione, gioia e dolore. Ascoltare e testimoniare questa tensione è il minimo che possiamo fare per ampliare il nostro senso comune di umanità e abbattere le divisioni stereotipate tra il bene e il male, la gente perbene e i malament’. Divisioni che ci tengono separati, che ci accecano e minano la nostra capacità collettiva di sfidare quelle fratture di classe e disuguaglianza che perseguitano Anna e coloro con cui condivide la sua esistenza.
È ora di andare via. Anna è stanca. Mentre mi alzo, uno dei suoi fratelli viene a salutarla. Ha una faccia poco socievole. “Stai parlann’?” chiede ad Anna. Non sembra felice di vedermi lì. Sorrido. Non ricambia. “Grazie mille Anna“, dico. “Grazie a te. Mi hai fatto parlare molto. Le persone qui non hanno mai il tempo di ascoltare…”.