Sui fatti di San Lorenzo e Piazza Dalmazia.
Quel che è accaduto in Val di Susa per responsabilità di gruppi addestrati a pratiche di violenza eversiva, sollecita tutte le istituzioni e le componenti politiche democratiche a ribadire la più netta condanna, e le forze dello Stato a vigilare e intervenire ancora con la massima fermezza. Non si può tollerare che a legittime manifestazioni di dissenso cui partecipino pacificamente cittadini e famiglie si sovrappongano, provenienti dal di fuori, squadre militarizzate per condurre inaudite azioni aggressive contro i reparti di polizia chiamati a far rispettare la legge.
Giorgio Napolitano, 3 Luglio 2011
Il 13 dicembre verso le 15:00 ero a Firenze in piazza del Duomo, inconsapevole che a pochi passi si stava consumando una strage di matrice neofascista.
Essendo stato in riunione dalla mattina alle undici fino a quel momento, non avevo sentito nulla. Sono stato per un’ora in balia di voci che si inseguivano, si contraddicevano, minimizzavano, si aggravavano. La prima versione, il primo racconto dei fatti, l’ho avuto da un vinaio del centro intono alle 17.30. Mi spiega che “un pazzo che viveva a Pistoia è venuto a Firenze stamattina e ha ammazzato cinque marocchini, ferendone altri due prima di uccidersi, accerchiato da polizia e carabinieri” [1]; avrebbe urlato, continua il mio vinaio “che voleva sterminare la razza negra”. A quel punto è partito in un’analisi sociologica a caldo il cui fulcro principale era che: “quel tipo di Pistoia era evidentemente fuori di testa, ma noi italiani con gli immigrati non ci sappiamo fare. La gente non ce la fa più di fronte ad un’invasione incontrollata”.
Il vinaio non sembrava affatto accorgersi di fornire una, sia pur indiretta, giustificazione ad atti di violenza a sfondo razziale; ciò che mi stupiva, però, non era tanto la solita tirata qualunquista e disinformata sulla questione migratoria, ma che gli venisse automatico esporre la tesi in quel momento, e cioè poche ore dopo i fatti di San Lorenzo e Piazza Dalmazia. In conclusione del suo discorso egli ha concesso che “in effetti questi vengono sfruttati, questi li sfruttano proprio! Lavorano per due o tre euro all’ora…però perché vengono qua? Perché non capiscono che qui non c’è posto? Le istituzioni italiane sono troppo poco cattive…siamo buoni noi, ma così facendo ci troviamo troppe persone straniere e poi ci stupiamo…”.
In che modo interpretare questa e altri tipi di percezione (altri avventori della vineria, ad esempio minimizzavano la matrice politica dell’omicidio “ora dicono che fosse di destra, ma che vuol dire? Quello era pazzo”)?
Senza proiettare queste opinioni in un quadro di rappresentatività statistica, mi chiedo – analizzando parte dei commenti giornalistici sia su base locale che su base nazionale, le lettere e i commenti dei lettori su alcuni siti internet – quanto conti l’opinione diffusa e imprecisa delle persone che non possono definirsi razziste in senso stretto: ma che costituiscono un network, un circolo ermeneutico che si attua in determinate circostanze e che fa da sfondo a produzioni di pensiero più esplicitamente razziste in alcune fasi. Sarebbe questo network, che costruendo un processo di legittimazione della costruzione dell’Altro, contribuisce ad una certa reazione della società italiana per i fatti del 13. A parte la manifestazione del sabato successivo, la risposta pubblica ha avuto un profilo alquanto sommesso, attutito.
Ciò che voglio dire è che probabilmente il vinaio fiorentino non era fascista e neanche razzista; o almeno che lui non si definirebbe tale e che possa essere un tranquillo cittadino democratico medio.
Il network di retoriche, convinzioni, simboli, auto narrazioni e pregiudizi che sto evocando in via di ipotesi raccoglie uno spettro ideologico che pur non identificandosi esplicitamente con il razzismo contemporaneo (neofascista, leghista, di altra matrice) lo sottende e lo aiuta nei suoi percorsi di legittimazione. È una specie di area grigia, negli anni della prima repubblica si sarebbe chiamata, forse, maggioranza silenziosa.
In un documentario di Daniele Segre andato in onda per la TV sui partiti politici, un dirigente veneto degli allora DS (si trattava, mi pare, del 2003) parla dei capisaldi della sua azione politica: ingredienti riconoscibili sono l’autonomia regionale e la fiscalità differenziata, l’alto tasso di produttività del nord da difendere, di contenimento dell’immigrazione, di contrasto alla clandestinità. Questo esempio indica come in un’area regionale in cui la proposta politica autonomistica della lega ha funzionato molto bene, in cui ha funzionato una certa idea di comunità, una parte della sinistra politica ha assorbito o partecipato alla costruzione di certi valori per nulla appartenenti al proprio bagaglio storico-politico.
L’attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è stato uno degli ideatori ed estensori della legge 40 del 6 marzo 1998, detta altrimenti “Turco-Napolitano” che per la prima volta inserisce i centri di permanenza temporanea nel tessuto giuridico e geografico del paese. Sebbene egli si trovi oggi spesso in polemica con le prese di posizione leghiste, ha firmato una legge che ha conseguenze specifiche sull’idea di società che prefigura: sia nei contenuti pratici delle norme sia nell’ispirazione politica.
Non si sta sostenendo qui che dal neofascismo di Casseri a CasaPound, dalla Lega al vinaio fiorentino, dai dirigenti veneti dei Ds-Pd fino a Giorgio Napolitano vi sia una linea di continuità. Vi sono, in questo elenco, fenomeni, persone e idee, fortemente differenziati sul piano dei valori, delle azioni, del credo politico. Ognuno di questi deve essere oggetto di una specifica ricerca. Riflettendo su questo, però, è necessario individuare i diversi attori e le diverse modalità dell’esclusione (da CasaPound, ai CPT) ed inserirle, se emerge, in un contesto in cui sono possibili. In questo caso la possibilità, o meglio, la condizione di possibilità è un mondo, un sistema, una struttura in cui si muovono diversi attori politici che offrono idee di comunità diverse fra loro, ma tutte aventi cittadinanza all’interno di quella struttura, di quel mondo i cui capisaldi profondi hanno a che fare con una sorta di offerta di sicurezza. In tale offerta di sicurezza sono riconoscibili alcuni ingredienti oppositivi strutturali: immigrazione clandestina vs. immigrazione legale; assimilazione vs. ghettizzazione; legalità vs. illegalità; ecc., in cui il primo termine è ovviamente quello positivo. Nella struttura trasversale dell’esclusione, da queste opposizioni concettuali non si esce: sono un limite intrinseco ad un’analisi dei rapporti di forza economici, sociali e culturali che le producono.
Sarebbe squalificante dal punto di vista dell’analisi mettere sullo stesso piano gli esempi citati sopra o dire che funzionano attraverso un’unica regia: l’ipotesi del grande vecchio che instilla gocce d’odio razziale nel corpo sociale o che ha la sua manovalanza in CasaPound e i suoi interpreti più o meno raffinati nei legislatori che dalla Lega al PD si susseguono al governo semplifica troppo. Ciò non vuol dire che non ci siano delle strategie messe in pratica dai gruppi di potere.
Si osservi la somma concettuale fra: esercito di riserva del lavoro sommerso nelle piccole fabbriche del nord e nei campi di pomodori al sud + una legislazione “democratica” che unisce il “meglio” della “Bossi Fini” e della “Turco Napolitano” + una sostanziale pax senza controlli sulla sicurezza sul lavoro e sulle condizioni di sfruttamento + una quota di “migranti buoni” praticamente in ogni partito + una quasi totale disapplicazione della legge Mancino sulle discriminazioni di tipo razziale + il paternalismo istituzionale nei confronti dei migranti che finiscono nelle reti mafiose. I migranti, secondo una parte – quella più a sinistra (!)- del circolo ermeneutico, non hanno mai un’agency, un progetto, quasi non hanno volontà: finiscono sempre da qualche parte perché sono intrinsecamente deboli. Il tentativo, forse, dovrebbe essere quello di ricostruire il network, il circolo ermeneutico e i nessi di significazione che li formano, nonché le strategie d’azione e di alleanza/conflitto fra gli stessi attori interessati all’esclusione. Illuminare le zone di sovrapposizione in questa rete di attori sociali e politici che partecipano a vario titolo e a vario grado alla messa a disposizione di retoriche e pratiche di esclusione.
Sono quegli spazi a volte impliciti e nascosti di sovrapposizione che dovrebbero essere scandagliati per capire cosa fa funzionare la compresenza di un duplice omicidio a sfondo razziale e una domanda di sicurezza a sfondo razzista nel giro di due ore.
Nota
Riprendo Furio Jesi e le sue parole, molto più chiare delle mie, quando rispondendo a una domanda di un giornalista de “L’Espresso” che gli chiede di definire la cultura della destra così la descrive:
“La cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura, ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura, insomma, fatta di autorità, di sicurezza del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale di destra.”
Ma Jesi, rispondendo ad una domanda sulla possibilità di trovare delle differenze tra cultura di destra e cultura di sinistra rispondeva:
“Ho qualche dubbio circa la possibilità di applicare oggi, in Italia, la distinzione fra destra e sinistra, non perché in astratto io la ritenga infondata, ma perché non saprei bene quali esempi di sinistra citare (se la destra è quello che dicevo).”
Approfondimenti
Furio Jesi, Cultura di destra. Con tre inediti e un’intervista, a cura di Andrea Cavalletti, Nottetempo, Roma 2011.
Wu Ming 1, Appunti diseguali sulla frase «Né destra, né sinistra»
storify.com/thiswas_/quante-ore-ci-vogliono-per-passare-da-vu-cumpra-a
www.youtube.com/watch?v=B47y5_UXZbI
Note
[1] In realtà erano due connazionali senegalesi Samb Modou, Diop Mor le vittime dell’aggressione omicida di Gianluca Casseri; spara anche contro Moustapha Dieng, Sougou Mor e Mbenghe Cheike ferendoli gravemente. Casseri era sì di Pistoia ma abitava a Firenze da un po’ di tempo; frequentatore di Casa Pound aveva nel 2007 pubblicato un saggio in un volume collettaneo edito da Bompiani su Tolkien che ha riacceso vecchie polemiche; per uno sguardo approfondito su letteratura fantastica e appropriazione di destra vedi www.wumingfoundation.com/giap/?tag=jrr-tolkien, da cui traggo anche le citazioni di Furio Jesi in fondo a questo pezzo.