Con “Memorie di un rivoluzionario timido” (Luca Sossella Editore, 2016) il poeta Carlo Bordini si pone, anche dal punto di vista dello storico quale in effetti è, un interrogativo aperto sugli aspetti meno frequentati di quella rivoluzione che all’inizio degli anni Sessanta, a partire dal boom economico, dilaga in tutti gli aspetti della società civile italiana. Il risultato è un libro che esige un dialogo ulteriore con quanto è ancora rimasto vivo del senso della nostra provenienza collettiva.
Carlo Bordini è nato nel 1938. Militante trotskista negli anni Sessanta, poi ricercatore presso il Dipartimento di Studi storici dell’Università La Sapienza di Roma, è conosciuto essenzialmente come poeta ma è anche autore di romanzi, alcuni dei quali a sfondo autobiografico: Manuale di autodistruzione (1998), Gustavo (2006), Memorie di un rivoluzionario timido (2016). Pubblica per la prima volta poesia nel 1975 con il ciclostilato Strana categoria. Nel 2010 dà alla stampa I costruttori di vulcani, volume che raccoglie tutte le poesie dal 1975 al 2010.
La rivoluzione è un movimento più o meno violento per mezzo del quale si istituisce un cambiamento. Per un poeta come Bordini, questa rivoluzione accade di continuo tra la pagina e gli occhi. Qui scorre una specie di flusso di coscienza aumentata, perché in poesia la rivoluzione è in primo luogo quella ineluttabile connaturata alla mutevolezza dei linguaggi, proprio e altrui, e al continuo instaurarsi degli uni a svantaggio degli altri. Da questo punto di vista la lettura di Memorie di un rivoluzionario timido ci appare come una ricognizione di questa mutevolezza. Sia nel senso militare che il significato del termine esprime: operazione diretta a riconoscere le forze e la posizione del nemico; sia nel senso etimologico: dal latino recognitio “conoscere di nuovo”, cioè tornare su quanto già si ritiene di conoscere dei propri passi, per rinvenire una possibile nuova e ulteriore conoscenza.
Scrive Loredana Magazzeni: «Sugli anni precedenti e subito a cavallo del ’68 Bordini compie il lavoro dello storico, come gli compete, e scava e disegna un’epoca assai poco studiata, l’epoca dei primi anni ’60 e del sogno di una rivoluzione italiana, che dal Risorgimento insegue gli intellettuali di casa nostra come un compito sempre rimandato nelle intenzioni».
Per fare ciò Bordini si avvale di un tipo di scrittura i cui riferimenti, nel senso di eredità nell’ambito della poesia italiana, possono essere molteplici ma non sufficienti a giustificare lo sperimentalismo che questo autore dimostra più spesso nella narrativa che nella poesia. È lo stesso Carlo Bordini a descrivere l’ibrido che l’incollocabilità della sua scrittura rappresenta: «Sono conosciuto soprattutto come poeta, come narratore molto meno, anche se ho scritto molti romanzi. Credo che sia “colpa” del fatto che la mia scrittura, nella narrativa, è molto fuori degli schemi normali e non viene accettata dal lettore. In concreto, se oggi Beckett fosse un giovane scrittore, avrebbe un enorme problema a trovare un editore, e tutt’al più avrebbe un successo di nicchia».
Oltre alla forte componente autobiografica, Memorie di un rivoluzionario timido racconta una storia che si colloca in modo significativo tra il memoriale e il romanzo di formazione, senza che ciò smentisca il senso tematico di entrambe le operazioni autoriali. Infatti il dipanarsi della trama di questo romanzo dipende dal suo essere essenzialmente legata alla documentazione capillare di un’interiorità avvinta al proprio linguaggio. Ciò genera nella storia una sorta di perenne afflato all’autoformazione che tuttavia non elude, anzi incarna, le dissonanze sempre presenti tra il proprio linguaggio e quello degli altri. Dissonanze spesso mistificate da un sentimento della contemporaneità che il successivo avallo del tempo finisce per definire in modo variamente retorico. È probabilmente questo il valore documentaristico alternativo costituito dalla narrazione di una storia personale ma anche condivisa da molte e molti, in cui l’aspetto della ricerca ha una doppia efficacia nell’indicare il logorio delle due facce di una stessa medaglia, quella del singolo e quella della società, in questo caso entrambe spiccatamente italiane.
Scrive Bordini, come premessa di Memorie di un rivoluzionario timido: «Tutte le irregolarità grafiche, grammaticali, ortografiche e sintattiche sono quindi volute. Mi riferisco ai capitoli che terminano senza punto, all’uso arbitrario delle maiuscole e delle minuscole, all’irregolarità della punteggiatura, alle parentesi quadre, alle parole deformate; tutti accorgimenti volti al perseguimento di un impasto musicale fatto di dissonanze. Non si tratta infatti di refusi ma dell’uso di un linguaggio deformato, di cui ho creduto necessario di servirmi per cercare di superare la piattezza dell’italiano televisivo su cui si basa il linguaggio letterario contemporaneo e per cercare un impasto sospeso tra il sogno e la realtà».
La scolarizzazione di massa, la televisione, le ideologie sono il contesto storico di quell’impasto sospeso tra realtà e sogno che, attraverso l’invenzione di un linguaggio coniato ad hoc, reca la testimonianza di un’esperienza individuale, conscia in primo luogo di essere immersa nella musica del proprio tempo. È probabilmente questa immersione che salva la ricerca linguistica di Bordini dal perdere di vista l’attinenza della lingua scritta al proprio vissuto.
L’attenzione programmatica di Bordini a tutti i registri dell’espressione viene direttamente testimoniata dalla curatela di un’antologia edita 1978 insieme ad Antonio Veneziani, Ivana Nigris ed Enza Troianelli – Dal fondo. La poesia dei marginali – raccolta i cui contenuti vengono descritti da Gianluca Capasso come «poesie scritte da tossici, prostitute, operai, militanti in crisi e donne emarginate; poesie provenienti dai carceri e dai manicomi, ma anche poesie scritte da bambini: un materiale vasto ed eterogeneo raccolto dopo un intenso lavoro di ricerca da parte dei curatori, che sfruttando contatti, rapporti e coinvolgimenti personali negli ambiti più disparati ed emarginati della società, riuscirono a documentare quanta importanza avesse la poesia in quegli anni e quanto essa fosse radicata, praticata e diffusa in tutti gli strati sociali, compresi quelli più “bassi”».1
Queste captazioni cui l’autore di poesia è esposto quanto il musicista sono profondamente connaturate in Memorie di un rivoluzionario timido sancendo una vera e propria dissoluzione del confine tra i due generi, poesia e prosa, in favore di una duttilità e di un approfondimento soprattutto della potenzialità del mezzo linguistico.
È Bordini stesso a mettere sull’avviso di questa componente intrinseca che lo lega alla musica nel particolare aspetto di ripetizione seriale, che rientra in questo genere di composizione:
L’irregolarità era di casa negli anni ’70 e anche prima, nel vestire, nell’agire, nel parlare, nel fare musica; l’irregolarità e lo sperimentalismo della mia scrittura non vengono da correnti letterarie, ma piuttosto dalla musica. […] amo il rock complesso, i Pink Floyd, Frank Zappa, e anche certe reiterazioni ossessive tipo James Gang. Questo mio passare mentale da un argomento all’altro, da un tono all’altro, che è tipico di questa musica, questo continuo svariare della mia scrittura, questo lasciarsi trasportare dai meandri del pensiero ma poi tornare sempre al centro, riprendere il filo, è quel misto di narratività romantica e di sperimentalismo della “cultura dello sballo ” (termine di quell’epoca) che è l’aspetto musicale della mia scrittura.
Memorie di un rivoluzionario timido è dunque un libro strano che, a dispetto di quanto viene dichiarato dal titolo, ha poco o nulla della memorialistica, per come la si intende comunemente in editoria, ma che forse somiglia di più a una delle definizioni generiche che si trovano sul dizionario della lingua italiana Treccani quando ricorre il significato della parola memoriale: in genere, qualsiasi cosa che ha per fine di ricordare. Qualsiasi cosa, appunto e con qualsiasi mezzo. Se il fine di Bordini era quello di ricordare, il risultato è quello del rinvenimento di un contesto, a posteriori. Quindi di un’ambientazione indisciplinata, fatta di elementi solo parzialmente consci, più che ideologici. Elementi su cui Bordini indaga per se stesso, ma che con il senno di poi appaiono oggi smarriti e incollocabili tra le smagliature di un’uniformità linguistica che non consente di comprenderli salvo che attraverso la ricostruzione che Bordini ne fa da poeta. Ossia rendendo giustizia soprattutto a quanto di difforme esiste in un vissuto. «Sono sempre stato un ribelle e anche un timido nello stesso tempo» scrive Bordini,«dico questo per spiegare perché per me la parola “letteratura” è sempre stata sinonimo di qualcosa di odioso e di disprezzabile. Perché in essa ho sempre sentito la presenza dell’istituzione».
Per tentare di comprendere meglio il concetto di marginalità nell’opera di Bordini è perciò necessario indagare, più che attraverso i riferimenti della critica letteraria, in ciò che è stata l’altra musica italiana a partire dal ’68. Un’indagine, però, che non faccia diretto riferimento alla musicalità puramente individuale dichiarata dal nostro autore, ma che estenda il suo sguardo al senso di un’esperienza creativa e artistica che si avvertì fin dal principio, sia collettivamente che istintivamente, come non istituzionalizzabile. Ossia votata a una sorta di marginalità nativa. Per fare un esempio a questo proposito: Vittorio Nocenzi, classe 1951, musicista e compositore, attivo dal 1969 e fondatore del Banco del Mutuo Soccorso, storico gruppo del rock progressive italiano. Nell’ambito di un libro intervista a cura di Gianfranco Salvatore, Nocenzi, definendosi, definisce in altri termini quella stessa marginalità espressa dall’opera di Bordini:
«noi siamo sempre ai margini di qualcun altro, non sempre gli altri sono ai nostri margini […]. Stavamo vivendo una contraddizione generazionale: per molti suoi aspetti il vivere quotidiano apparteneva a schemi chiaramente del passato mentre la televisione, la conquista dello spazio, i primi computer, ti mettevano continuamente a contatto con un’idea di futuro […]. La sfera privata è per sua natura pudica: solo la musica, e l’arte in genere, riescono ad attivare questo tipo di partecipazione collettiva».2
La marginalità, dunque, non come un partito preso ma come esigenza primaria dettata dalla propria ricerca individuale, che tuttavia non esula dalla responsabilità della partecipazione collettiva come ideale condiviso: «Ho smesso di scrivere tra i 24 e i 32 anni, quando mi sono identificato con un progetto politico, e quando l’ho lasciato mi sono rimesso a scrivere» racconta di sé Bordini, «quando ho deciso di pubblicare, nel 1975, non conoscendo nessuno, l’ho fatto con un ciclostilato. La mia scrittura ha suscitato l’interesse di due dei più importanti letterati del tempo (leggi: Fortini e Siciliano). Con la mia incapacità di capire la vita e con la mia negatività assoluta nei confronti delle pubbliche relazioni me li sono giocati in poco tempo. È iniziato così un lungo periodo di apnea e di marginalità. Questa solitudine mi era però necessaria, perché diventare un loro protetto e quindi in qualche modo anche un loro allievo, con l’insicurezza che mi ha sempre caratterizzato, questo l’ho capito dopo, mi avrebbe rovinato, mi avrebbe sostanzialmente condizionato, e mi avrebbe impedito di trovare quella parte di me che sono riuscito a trovare».
La ricognizione entro il senso della propria, più o meno riottosa, e dell’altrui, più o meno quiescente, partecipazione collettiva, sembra essere a posteriori uno dei principali meriti della ricerca linguistica di Carlo Bordini. Un senso da calibrare meticolosamente all’interno di ogni sintagma spaziotemporale cui la scrittura si riferisce a prescindere. Perché quello di Bordini è un punto di vista puramente soggettivo e così connaturato all’esattezza del suo movimento entro e fuori il proprio contesto, da rendersi capace, anche dopo molto tempo, di raccontare una buona parte della vera musica di un’epoca. E perciò di regalare a lettrici e lettori la suggestione di un remoto presente che fu non istituzionalizzabile. Ricordi personali di un oggi ormai lontano, capaci però di arricchire e vivificare la memoria collettiva di chi si senta, più o meno, ancora di appartenervi.
Note
- Gianluca Capasso è autore di un’interessante tesi di laurea La poesia di Carlo Bordini che mette in luce e riconnette in modo riepilogativo e analitico la biografia del poeta e i riferimenti critici tratti da fonti diverse che non escludono i contributi più recenti proposti dal web, la tesi costituisce uno dei contributi più recenti e informati su Bordini.
- Gianfranco Salvatore, Vittorio Nocenzi. Sguardi dall’estremo occidente, Stampa Alternativa/Nuovi Equlibri, Viterbo 2011, pp 13-19.