Guardarsi di traverso. Recensione a “Inclinazioni. Critica della rettitudine” di Adriana Cavarero

L’inclinazione come categoria morale. Recensione a “Inclinazioni. Critica della rettitudine” (Raffaello Cortina, Milano 2014) di Adriana Cavarero.

Un’immagine molto citata nei manuali di storia della filosofia per descrivere il concetto di determinismo in ambito morale è presente nell’epistolario di Spinoza. Rispondendo per interposta persona al medico tedesco Ehrenfried von Tschirnaus, il quale lo sollecitava a fornire chiarimenti sulla distinzione fra la propria posizione e quella cartesiana sul libero arbitrio, l’ebreo di Amsterdam sostiene che le cose create sono tutte determinate da cause esterne a esistere e agire in una certa e determinata maniera. In questo senso le cose esistenti sono come pietre che ricevono una certa quantità di moto da una causa esterna: se, continua Spinoza, tali pietre si interrogassero sulla pulsione che le spinge a muoversi, crederebbero di essere libere e di non avere altra causa per il moto che non sia la propria volontà[1].

Se mettessimo da parte per un attimo il problema del determinismo e ci concentrassimo sull’immagine della pietra lanciata per aria, magari da un monello palestinese verso un blindato dell’esercito israeliano («mossa da una causa esterna» direbbe il filosofo nel suo asettico linguaggio more geometrico) ci accorgeremmo che nel moto di questa pietra, nel suo movimento parabolico, si condensano una serie di temi filosofici che utilizzano metafore spaziali e geometriche per descrivere la relazione – di devianza rispetto a o rispecchiamento di – una legge (in questo caso della natura), un diritto, una regola, una norma, un canone[2].

È proprio su questo nodo concettuale, quello che passa fra rettitudine e inclinazione, che si muove l’ultimo libro di Adriana Cavarero Inclinazioni. Critica della rettitudine: si tratta di un percorso a sua volta tortuoso e deviante, fuori dalle gallerie rettilinee di un approccio storico-filosofico tradizionale, fra pittura, letteratura, fotografia e filosofia, in cui ci si domanda cosa succederebbe se prendessimo la categoria di inclinazione come stella polare per una fondazione della morale. Cavarero ci guida quindi in questo cambio di prospettiva invitandoci a modificare lo sguardo sul groviglio di simboli, teorie filosofiche e pratiche politiche da cui nasce, o meglio si erge, l’individuo moderno, una soggettività autonoma, razionale e pronta a inter-facciarsi con i propri simili (principalmente di genere maschile) su un piano di uguaglianza, almeno formale.

Sono Hobbes e Kant a tracciare la cornice che fa da sfondo alla rettitudine delle moderne democrazie liberali. Il primo, con la propria antropologia pessimista, prescrive alla fondazione dello stato moderno l’orizzontalità dell’homo homini lupus, inquadrando lo scenario di violenza originaria dello stato di natura nella struttura verticistica e verticale del Leviatano. Il secondo, ritagliando sulla figura del neonato, dell’uomo in potenza, il vestito stretto stretto del soggetto libero e autonomo, di colui il quale è razionale nella misura in cui è capace di autodeterminarsi, esprimendo in questo inquadramento l’esigenza di raddrizzare “il legno storto dell’umanità”. Entrambi, a ogni modo, impegnati a tracciare una figura di suddito e cittadino che attinge al modello dell’Homo – o meglio – del Philosophus erectus evocato da Platone nel celebre mito della caverna. Il filosofo è colui che, liberato dalla condizione di schiavitù incatenata e sdraiata dei propri simili, si alza e guadagna l’uscita della caverna per contemplare sfruttando tutta l’altezza del proprio sguardo, dapprima la luce del sole e infine l’astro in sé. Come dice Cavarero è «il puro contemplatore, verticalizzato sull’asse perpendicolare del Bene e immoto nelle sue sublimi e solitarie visioni» (p. 71), destinato a essere ucciso, perché incompreso, dai propri simili al ritorno nella caverna.

In questa nozione ortogonica di verità come sguardo giusto, corretto, diritto rispetto alla cosa si radica dunque tutto un atteggiamento verticistico, tutto un modello politico verticale, che ha nell’individuo maschio, bianco, autonomo e razionale, normodotato ed eterosessuale la propria incarnazione. Occorre allora rileggere questo modello, esautorato dall’estinguersi dello slancio propulsivo della modernità, decostruito nel Novecento dalle filosofie post-strutturaliste, per inclinarne la postura dritta e verticale, per deviarla sul piano inclinato delle passioni, delle fragilità, dell’incontro con altre rette, in una parola dell’etica. Un’etica in sostanza post-euclidea, che riflette sulla trasgressione del quinto postulato della geometria di Euclide, quello dell’impossibilità dell’incontro fra due rette parallele.

Sulla scorta di Hannah Arendt e della sua riflessione in Vita activa a proposito della categoria politica dell’azione, Cavarero vede nel miracolo della nascita di un nuovo essere umano la condizione fondamentale di un’esistenza singolare che inizia e che ha proprio nell’agire la facoltà di cominciare, di prendere iniziativa, di dar vita al nuovo. Rovesciare la prospettiva sulla scena politica dalla morte, cui dava esito l’io autonomo e libero della modernità, alla nascita significa dunque spostare lo sguardo dall’incontro faccia-a-faccia, fra uomini, a quello asimmetrico e completamente squilibrato della scena primaria, della postura inclinata della madre sul neonato.

E qui, si badi, Madre è soprattutto «il nome di un’inclinazione sull’altro o, se si vuole, di una funzione che convoca la responsabilità prevista sulla scena inaugurale di una condizione umana nella quale è l’assolutamente vulnerabile, ossia l’inerme ad assurgere a figura essenziale dell’etica e, prima ancora, dell’ontologia e della politica» (p. 145). Bisogna allora attingere a tutto quell’immaginario che pone al centro la nascita e la postura della madre sulla propria creatura per sostituire nella produzione del diritto l’individuo come plenipotenziario del mascolino normodotato con la vulnerabilità dell’inerme. Perché se da un lato la categoria del vulnerabile rimanda alla condizione umana di chi è completamente indifeso (l’essere umano appena nato, il disabile, l’anziano), dall’altro lato lo sguardo obliquo della madre sul neonato chiama in causa un altruismo che non è vocazione al martirio per un astratto e generico Altro, ma un altruismo problematico, complesso, aperto all’enigma del possibile. E forse, aggiunge Cavarero, dopo aver indagato il tema nella Sant’Anna, la Vergine e il Bambino con l’agnellino di Leonardo, «in questo sta l’ambiguità dei sorrisi delle molte Madonne rinascimentali: custodi di un dono più grande della vita, persino più grande dell’idea stessa di Dio, esse ne sembrano solo marginalmente consapevoli, ma ne avvertono il turbamento – o forse il godimento» (pp. 239-40).

Non a caso Inclinazioni si chiude con un lungo e denso capitolo di addio, critico e senza sconti, a uno dei filosofi novecenteschi che più di tutti ha teorizzato le categorie di Volto e di incontro con l’alterità, Emmanuel Lévinas. Per quanto si sforzi di pensare l’Altro, il filosofo francese rimarrebbe infatti intrappolato nella geometria posturale dell’impianto ontologico e politico moderno: l’incontro con l’altro, incarnato dalle figure dello straniero, della vedova e dell’orfano, si realizza sempre in un simmetrico vis-à-vis che presuppone la postura verticale dello sguardo. Secondo Cavarero, concepito da Lévinas in questi termini, l’incontro con l’altro prenderebbe la forma «di un abbandono irresistente e passivo» (p. 237) all’angoscia di uccidere o farsi uccidere, di perseguitare o essere perseguitato.

Ecco, forse il bello e denso libro di Cavarero, indugia troppo su questo lungo addio alle critiche della violenza metafisica, fluttuanti nell’alveo della riflessione con Heidegger contro Heidegger, e manca nell’approfondire un aspetto della critica alla geometria posturale retta. Fra le analisi di Inclinazioni non trova infatti spazio l’atteggiamento dell’individuo totalmente orizzontale, sdraiato, per usare un lessico giornalistico attualmente in voga. Questa figura, erede forse di quel Bazarov di Padri e figli di Turgenev che si dichiarava nichilista oppure ancora della irresponsabile mollezza dell’Oblomov di Gončarov, alberga, ospite inquietante per l’io della rettitudine, nella postura curva di quei ragazzi e di quelle ragazze che inarcano le schiene, come le Madonne rinascimentali, sui banchi di scuole disattente. Anche quello sguardo obliquo, che parte dai quei banchi, è figlio di una critica posturale che non vuol esser diritto.

Note

[1] Spinoza, Lettera dell’ottobre 1674 a G. H. Schuller, in Opere, Mondadori, Milano 2007, pp. 1483-1486.

[2]  Vale la pena di notare che la questione dell’interpretazione del moto parabolico di un proiettile alla luce delle categorie della fisica aristotelica, metterebbe in moto, secondo alcuni, fra XIII e XV secolo, tutta una serie di tematiche teologiche e filosofiche che prepareranno il solco ai sostenitori delle “sensate esperienze” del XVII secolo; cfr.Edward Grant, Le origini medievali della scienza moderna. Il contesto religioso, istituzionale e intellettuale, Einaudi, Torino 2001 e Amos Funkenstein, Theology and the Scientific Imagination. From the Middle Ages to the Seventeenth Century, Princeton University Press, New Jersey 1986.

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