Inizio a scrivere questo post mentre il popolo di Macao, sgomberato all’alba del 15 Maggio dalla Torre Galfa, si costituisce in assemblea pubblica e partecipata in via Galvani, una delle strade principali su cui si affaccia la torre.
Domenica 13 aprile: decido di passare il pomeriggio a Macao. Il calendario delle attività culturali proposte alla cittadinanza dal centro per le arti, provvisoriamente collocato all’interno della Torre Galfa, è fitto. A partire dalle ore 15 è possibile fare passeggiate verticali fino al piano 23, alle 17 è prevista la lettura del sesto capitolo de La Vita Agra di Luciano Bianciardi, alle 18 una performance teatrale al primo piano, alle 19 l’assemblea. I tavoli organizzativi nel frattempo portano avanti il lavoro: i fotografi parlano di creare un archivio di immagini in cui condividere i loro scatti; il gruppo architettura/autocostruzione fa il punto sulle proprie risorse predisponendo un organigramma che occupa tutta una parete; il gruppo dei giardinieri interra le piante che i vicini di Macao hanno voluto donare per la creazione dell’orto urbano che nasce dalla terra liberata dai sanpietrini. Sono colpito dall’organizzazione, la comunicazione è efficace, tutti sanno tutto, le informazioni circolano, l’apertura è totale, si sovvertono le gerarchie del potere tra insiders eoutsiders.
Firmo l’appello per Macao e mi dirigo verso il punto di raccolta per la passeggiata verticale. Sono le 16.30, in venti ci stringiamo attorno alla guida che ci condurrà fino al 23esimo piano. Ci racconta la storia dell’edificio, di cui potete leggere anche qui. Dapprima sede di una compagnia petrolifera, poi della Banca Popolare di Milano, la Torre Galfa diventerà infine un colossale monumento pubblicitario illuminato di un Blu Hyundai. Inutilizzata da 15 anni, la torre, di proprietà del Gruppo Ligresti è stata scelta da Macao come spazio, contenitore nonché vettore simbolico del “Nuovo Centro per le Arti di Milano”.
È a partire da questa mia esperienza nel cuore del vecchio Centro Direzionale che vorrei provare ad abbozzare alcune riflessioni sul valore di questo progetto. La passeggiata verticale, permette di esperire sulle proprie gambe, sul proprio corpo il percorso di ascesa sociale. Attraverso la continuità dei gradini, uno dopo l’altro, (opposta alla discontinuità “as(c)ensoriale”) è possibile pensare di collegare l’alto e il basso, il manager che stava al 23esimo piano con la receptionist che stava al primo, passando per gli impiegati che lavoravano nella “pancia” dell’edificio.
Macao offre un nuovo punto di vista: e ancor prima che in modo metaforico lo offre in un senso dannatamente reale. Infatti, se penso ai luoghi e alle altezze della mia vita quotidiana mi accorgo che: mi sposto spesso sottoterra, o al livello della strada; che studio e lavoro in una biblioteca al pianterreno e che raggiungo il terzo piano soltanto quando vado in dipartimento a discutere con un professore.
Invece a Parigi capita più spesso di vivere ai piani alti, ma non è una contraddizione: negli ultimi piani dei palazzi borghesi dormivano le donne di servizio, ora ci vivono studenti e giovani coppie. È interessante notare come di solito per vedere le città dall’alto si debba pagare, e solitamente lo si è disposti a fare quando ci troviamo in un altrove che ci configura come turisti, quasi mai nella città in cui si vive. L’esperienza radicalmente nuova è quindi quella offerta da Macao: fornire una piattaforma critica a tutti gli abitanti di Milano, chiamarli a vedere con i propri occhi la città in cui vivono da una prospettiva inedita, non velata dal turismo. Macao integra la c
onoscenza territoriale che ognuno di noi ha della città – una conoscenza dettagliata, profonda, viva – con il punto di vista del potere costituito, quello dall’alto verso il basso – grossolano, razionale, impersonale. Il primo grande merito di Macao è quello di regalare alle nostre immagin-azioni l’idea che anche oggi, in un mondo schiacciato da logiche economiche, si possano e si debbano integrare, fondere, i molteplici micro-conflitti territoriali in una nuova visione umanista.
Nella stessa direttrice, vedo fondersi in un modo radicalmente nuovo l’orizzonte e la vertigine dell’utopia. Il progetto di Macao nasce infatti da esigenze emerse a seguito di una lucida analisi del momento storico in cui siamo invischiati. Incorpora dentro di sé esigenze materiali – nuove forme di reddito e di welfare – e manifesta la volontà di un nuovo ordine sociale che oltrepassi una soglia, che permetta di “entrare nella stanza dei diritti condivisi”, come si legge nello statement di Lavoratori dell’Arte.
I linguaggi utilizzati sono un ulteriore ed emblematico caso di questa intelligente e produttiva fusione. I tradizionali striscioni affiancano i mash-up e gli adbusting. In questo senso, le competenze impartite dalle istituzioni educative, in vista magari di un loro proficuo impiego esclusivamente all’interno dei reparti marketing delle grandi corporation, vengono utilizzate tatticamente per avanzare territorialmente, guadagnando spazio nei media, e per ri-fondare una comunicazione che con gli stessi strumenti riesce a servire idee di una società non più ripiegata su sé stessa.
Il progetto Macao non è naturalmente esente da critiche. Nel web circolano commenti in cui, ad esempio, ci si chiedeva se, per entrare a Macao, occorresse essere laureati allo IED, facendo notare un certo elitismo. Ma Macao ha dimostrato di saper fondere, oltre alle dicotomie, il corpo sociale in un pulsante unicum. La grandezza del progetto di Macao sta appunto in questo, la forza di ispirare un senso di appartenenza collettivo per riappropriarsi dei beni comuni senza soffocare la costruzione di senso individuale.