I film che ci parlano dalla sala virtuale del Festival dei Popoli.

La 61ma edizione del Festival dei Popoli è andata in scena online. Non ci siamo ancora abituati, e forse non lo faremo mai, alla “edizione 2020” di nulla. Nei ringraziamenti di registe e registi nei brevi video di introduzione che precedono lo streaming dei film – un genere nuovo che meriterebbe una riflessione a parte – c’è spesso un riferimento ai limiti e meriti del nuovo formato. Come per altri festival quest’anno il programma, disponibile su MyMovies, è stato reso accessibile a un numero di persone molto superiore a quello che normalmente partecipa alla rassegna. Eppure l’edizione 2020 del festival ha portato la solita ventata di nostalgia e malinconia per l’assenza del lato conviviale della, appunto, festa del cinema.
Cosa cambia per un festival del documentario quando i film vengono visti solo da casa? Sui nostri piccoli schermi, in balìa del nostro tempo privato e dell’ansia da saltatori di parti lente, i documentari di questa edizione si dovevano confrontare con una soglia di attenzione più bassa di quella per cui probabilmente erano stati prodotti, nè avevano i tempi morti e le chiacchiere pre e post proiezione come aiuto per fissare il film nella memoria.
Il contesto virtuale non ha impedito a un documentario spazioso e paziente come This Rain Will Never Stop di Alina Gorlova di vincere il premio per il miglior lungometraggio con la sua riflessione in bianco e nero sullo stato di guerra che un esule curdo deve affrontare tra Siria e Ucraina. L’edizione online, in parte ancora disponibile fino al 29 novembre, sembra però essere particolarmente adatta per alcuni generi di documentario.
Plot twist
Ammettere e persino esibire il ricorso a parti sceneggiate nella narrazione documentaria non è più cosa nuova, ma è sempre interessante come diverse produzioni scelgono di gestire la coesistenza tra i due registri. En Route Pour Le Milliard di Dieudo Hamadi, Pyrale di Roxanne Gaucherand e Divinazioni di Leandro Picarella sono tutti costruiti in parte o completamente con messe in scena evidenti, scelta che appare incastrarsi bene con il ritmo più veloce della fruizione online.
In Divinazioni Achille sta cercando di ricostruirsi una vita fuori dal carcere dopo essere stato un cartomante televisivo di una certa popolarità negli anni ‘90. Ha ripreso a lavorare in una televisione locale e con le sue carte visita persone in cerca di una storia per capire il loro presente. I tarocchi, gli struggimenti amorosi dei consultanti e l’anziano mago stanco che li racconta per poi tornare a più prosaiche preoccupazioni sono un soggetto irresistibile, ma la mano pesante della sceneggiatura non aiuta ad apprezzarlo. Prologo ed epilogo alti, con brani di Empedocle declamati sulle cime dell’Etna, cercano di inserire la storia di Achille in un sistema di credenze antico e quindi difficile da giudicare, facendogli in realtà il servizio opposto.
È forse l’urgenza espressiva a rendere efficace l’uso del palcoscenico in En Route Pour Le Milliard nonostante la struttura tradizionale. Dieudo Hamadi racconta la storia degli abitanti di Kisangani colpiti vent’anni fa dalla Guerra dei Sei Giorni e ancora oggi in attesa di risarcimenti. Sola, President Lemalema, Mama Kashinde e i loro compagni, che nella guerra hanno perso dei cari e i propri arti, intraprendono un lungo viaggio sul fiume Congo per rivendicare i loro diritti nella capitale Kinshasa. Ignorato da tutte le istituzioni il gruppo cerca di farsi sentire con cartelli, proteste e processioni, ma è la messa in scena di uno spettacolo teatrale, che accompagna il documentario pur senza essere introdotto, a permettere finalmente loro di raccontare la loro rabbia a un pubblico disposto ad ascoltare.
È molto “scritto” anche il vincitore del premio per mediometraggi, Pyrale di Roxanne Gaucherand. In un angolo di provincia francese restio a fare notizia, quello della Drôme, una piaga biblica si presenta in versione quasi farsesca: non locuste ma sciami di falene arrivano a distruggere i raccolti. Per mettere a fuoco il bizzarro (ma vero) caso dello sfarfallio infestante Gaucherand sceglie di fonderlo con una storia d’amore fra due ragazze adolescenti scritta da lei stessa. Il parallelismo tra l’imprevedibilità di un fenomeno senza precedenti e una passione ancora non ben compresa è evidente ma non stucchevole, e anzi pone domande nuove sulle possibili rappresentazioni del cambiamento climatico, suggerendo che forse sia il tempo di smettere di delegare preoccupazioni e le denunce solamente a sguardi severi ed esplicativi.

Utopia è un’isola, Distopia è un arcipelago
Se la sperimentazione con registri narrativi diversi a volte aiuta anche a superare la visione distratta dello streaming, in altri casi amplifica lo smarrimento tipico di questi mesi. È questo quanto accade con due documentari che portano all’estremo la metafora dell’isola come luogo del rimosso tanto cara alla storia del cinema. Back to 2069 di Elise Florenty e Marcel Türkowsky ci porta a Lemno. Con noi ci sono un esule di Atene, i fantasmi della crisi economica, il mito di Filottete, e migliaia di soldati virtuali controllati da altrettanti giocatori online di Arma 3. Sull’isola spoglia, la Siberia di Grecia, sembrano esserci solo echi delle storie di Omero qui ambientate e case abbandonate. Le visitiamo con un abitante solitario per poi riconoscere gli stessi edifici sullo sfondo delle azioni militari dei videogiocatori. Ascoltiamo un gruppo di amici tedeschi alla fine di una missione fermarsi a guardare il mare virtuale e forse rimpiangiamo che il corto circuito fra epico, documentale, biografico e virtuale non venga risolto in una rassicurante gerarchia.
L’isola di Ben Rivers, veterano del documentario sperimentale, è invece un’Inghilterra chillwave circondata da un mare di petrolio e radiazioni. CGI e separazione dei colori trasformano dei luoghi del Somerset cari al regista in una florida foresta “carbon-drunk”, lussureggiante e fertile secondo parametri alieni. Una narratrice ci guida dal mare al sottosuolo, descrivendo il viaggio al centro di una terra “crashed by repeated catastrophes”, dove è nato un nuovo sapere e sentire con cui l’uomo non ha nulla a che fare.
Il paesaggio di Look Then Below, come lo spazio dell’Odissea di Kubrick (o il mondo di Annihilation di Alex Garland), non conosce le categorie umane di disastro o inabitabilità ed esiste nel nuovo equilibrio di una fisica propria, tanto che non è nemmeno necessario chiarire in che tempo ci troviamo rispetto alla Storia. Ben Rivers è generoso di visioni di ciò che non dovremmo essere in grado di vedere, l’aura meravigliosa del mondo tossico che stiamo creando.
Per i programmatori del Festival dei Popoli non deve essere stato semplice scegliere titoli adatti per questa edizione. Un altro film della rassegna esprime bene l’urgenza di presentare film quando tutto sembra poco rilevante. In The Fantastic di Maija Blåfield alcuni cittadini nordcoreani ricordano la meraviglia di guardare e riguardare film quando per molto tempo le cassette VHS contrabbandate erano per loro l’unica fonte di immagini del mondo esterno. Nulla di più lontano e più vicino a noi, con la nostra riserva infinita di cinema e il desiderio di fare nuovi incontri da ricordare.
