Esibizione del talento e fine di ogni teleologia

“I, Tonya” di Craig Gillespie.

Chi alle soglie degli anni ’90 avesse osservato pattinare Tonya Harding avrebbe esclamato, tradendo sorpresa da un’inclinazione della voce o dall’aggrottarsi di un sopracciglio, che era certo un gran talento.

Talento: il compiersi di un fine verso cui, sostiene il senso comune, si è già da sempre orientati. Nel volteggio di un triplo Axel, lambendo con la lama dei pattini lo strato di ghiaccio sino a librarsi in aria il tempo di mulinare con l’intero corpo per – naturalmente – tre volte, il fortunato avrebbe scorto il barlume della teleologia. La fantasmagoria del Destino preme allora per lacerare le narrazioni cui con fatica si è cercato di estirpare il seme della predestinazione divina. Osservando il telos sublimarsi in un’acrobazia, l’attualità diviene ciò che non poteva essere altrimenti. È Robert Nozick in Anarchia, stato e utopia a caldeggiare l’avvento uno stato minimo che, pur indossati gli abiti del solo difensore dalla brutalità dello stato naturale, pure spalanca l’uscio al mercato del talento.

Il particolarismo liberista, circonfuso di merito individuale, permette allora di orientarsi entro il perimetro di uno stato che se non nega, neppure agisce. Così, in una delle sequenze del biopic I, Tonya diretto da Craig Gillespie, Tonya, troppo minuta perché l’insegnante di pattinaggio possa occuparsi di lei, deve dimostrarle la solidità – intesa come serietà – del proprio talento, deve esibire pattinando la propria teleologia. L’insegnante la osserva compiaciuta: se le è permesso un avvenire è soltanto in virtù dell’inclinazione naturale. Come? È consentito un annientamento della norma – l’asserzione la bambina è troppo piccola – perché sia rispettata la teleologia naturale? Alcune pagine di Sorvegliare e punire di Michel Foucault permettono di chiarire la natura dell’avvenimento, nient’affatto singolare: la pratica del controllo verso gli illegalismi, infatti, ne permette la maneggevolezza attraverso l’organizzazione. È parte della norma indebolire la norma, è certo prassi chiudere un occhio quando la casistica attenti all’universalità cui quest’ultima si rivolge. Soltanto un barbaro o, peggio, uno scettico potrebbero negare il compimento della natura; molto può imputarsi alle leggi, tranne che siano barbare o scettiche.«Sei molto bravo a farlo», confida una ragazza al giovane Eddie, protagonista dell’esordio alla regia di Paul Thomas Anderson Boogie Nights. Talento è non solo il membro elefantiaco che esibisce tra le gambe, ma pure la capacità imprenditoriale di serializzare le pellicole, di conservare l’oscenità entro la cornice della narrazione. Come il cosmo della pornografia non attendeva altro che donare celebrità a chi sapesse usare il proprio talento tenendo conto delle sue (del talento) dimensioni; il pattinaggio smaniava perché Tonya Harding superasse le angherie della madre e i colpi del marito, polemizzasse sulla poca cura dei propri abiti di scena e si esibisse nell’istante d’un volteggio. Una delle figure non trova certo riscontro all’anagrafe delle biografie che hanno calpestato il suolo della terra, ma l’altra, forse? Non è proprio il carattere tenacemente performativo-narrativo dell’esistenza a non permettere la verità del narrato? 

Talento dice anzitutto narrazione. Cosa sarebbe un talento senza peregrinazioni e tribolazioni? Non si compie che con fatica: più è la fatica, più quest’ultimo si accresce. La madre che consapevolmente la addolora ridestandola dall’accidia della serenità, le violenze domestiche: la cornice è a fortiori quella d’una pluralità di racconti, il documentario che sclerotizza la verità del fatto. La fabula segue necessariamente l’iter delle peripezie, le quali permettono al lettore di fraternizzare con il protagonista e di abbandonarlo, alle soglie dell’ultimo punto fermo, con l’allegria e insieme con l’angoscia di saperlo finalmente appagato; meglio, di non poterlo più spiare nelle sue meschinità più recondite. Bisognerà che Tonya ponderi, agisca, fallisca: per far l’umano, bisogna far la favola. Il gioco della narrazione per cui non solo pattinare, ma pure diventare pattinatrice celebre, essere la pattinatrice Tonya Harding sia la sublimazione della propria inclinazione naturale, l’attualizzarli nel progetto col cui segno era nata, permette di osservare come le teleologie camminano sempre d’un passo. Allora pure l’epilogo si dice nell’esordio, nell’attimo in cui la madre le intima di rivaleggiare senza relazionarsi empaticamente a una coetanea, lasciando traslocare la teleologia verso l’avvenimento che avrebbe reso celebre Tonya Harding – prova ne sia la pellicola di Gillespie la pattinatrice che non avrebbe mai più pattinato per aver attentato a una sua rivale.

Tale la ragione per cui Nancy Kerrigan, ai cui danni si consuma l’aggressione, non sembra destinata alla vittoria: ha forse combattuto, lei, per l’addestramento? L’ha forse strappato con i denti, lacerando con un paio di lame per pattini il volto di chi desiderava relegarla a un’esistenza qualunque? È carente di peripezie. Ecco che tuttavia l’incidente gliene dona una: non è più una pattinatrice qualunque, è adesso la vittima delle angherie della rivale. Nel 2008 il velocista Oscar Pistorius, prima che la sua fama comprendesse l’assassinio della compagna, pretese di gareggiare alle Olimpiadi per normodotati. Perché mai negarglielo, tuonava la stampa tutta, vorreste forse negare a un ragazzo che ne subite tante di essere felice? Le peripezie di Pistorius – l’amputazione delle gambe, l’intervento, la riabilitazione, l’esibizione della tenacia – gli hanno permesso di essere parte di un racconto mediale per cui chiunque avesse obiettato sarebbe stato accusato di insensibilità. L’assenza di pathos di chi non sa piangere al cinema.

L’annientamento del sogno di Tonya è allora la fine di ogni teleologia: il talento è stato vittima di un cortocircuito, troppi elementi hanno lavorato perché l’inclinazione naturale si ritrovasse alienata da sé stessa. Sul ring, ormai pugile, la pattinatrice sconvolge la propria teleologia, sono sempre cresciuta nella violenza, afferma: il pattinaggio non diviene allora che la coscienza infelice e tutt’altro che adeguata alla verità. La teleologia è vittima d’uno spaesamento; eppure si può essere sereni pur non essendo quel che si è. Nel secondo volume della Critica della ragione dialettica dedicato all’Intelligibilità della Storia, Jean-Paul Sartre propone una sorta di metafisica della storia – allo stesso modo per cui Immanuel Kant indagava i fondamenti pratici di un’etica dentro una metafisica dei costumi – suggerendo alcune topiche di rap-presentazione della Storia. L’esordio dell’opera è un incontro di pugilato, nient’altro uno dei volti del prisma storico: esso è insieme spettacolo, violenza, euforia, economia. La Storia, intesa come il fine dell’esistenza individuale, si conforma allora come un’eterna lotta tra pugili oppure, per congiungere Sartre con la pellicola di Gillespie – non ne voglia l’esistenzialista a chi scrive – a olimpiadi di pattinaggio artistico. Spettacolo, conflitto, strategia. Il particolarismo del talento, molto spesso compiuto, di tanto in tanto tradito.

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