La biblioteca segreta. Decima puntata

Decima puntata del canone letterario di Ivan Teobaldelli.La biblioteca segreta

Nel 1997 ha pubblicato La biblioteca segreta. Cento romanzi che raccontano l’amore omosessuale (Sperling & Kupfer), un personale canone di opere letterarie del Novecento stilato «in nome di che? Della libertà, beninteso, e delle legittime ragioni del cuore». il lavoro culturale è felice di ripubblicarlo per intero, in dieci puntate: questa è l’ultima. Qui la lista integrale delle puntate.

 

91 – Bruce Chatwin, Sulla collina nera

Dal nomadismo all’immobilità. Irritato dalla definizione di «scrittore di viaggi» – così restrittiva anche per chi aveva il culto di Robert Byron, e portava sempre con sé una copia chiosata de La via per l’Oxiana– BruceChatwin ambienta stavolta la sua storia non nell’estremo esotico (la Patagonia, l’Australia degli aborigeni o il Dahomey) ma in una fattoria chiamata «La Visione», sperduta tra il Galles e l’Inghilterra. Qui vivono fin dalla nascita due fratelli gemelli, due «zitelloni», tagliati fuori dal mondo e dalla modernità. La casa è il carapace, l’originaria placenta che li difende da ogni intrusione; nulla è cambiato nell’ordinamento dei mobili e nelle stanze dalla scomparsa della madre: «Al mattino appesero del crespo nero sopra gli alveari per dire alle api che se n’era andata»; e i due uomini, ormai ottantenni, ogni giorno ripetono testardamente le stesse occupazioni, mangiano i soliti cibi, indossano gli identici vestiti. Il tempo viene tenuto fuori della porta, e in un’esaltata mescolanza di passato e di presente (con un bellissimo flashback sulla tormentata storia d’amore dei genitori) i due fratelli sopportano il carico di un legame asfissiante che non possono rescindere, pena la morte di uno di loro. Come nel film Inseparabilidi Cronenberg,c’è sempre un succubo che assorbe il male e l’inquietudine dell’altro. In questo caso è Benjamin il più fragile, ma «il suo amore per Lewis era omicida» perché gli impediva qualsiasi storia sentimentale; anzi, bastava che il fratello, a una fiera, inseguisse la silhouette d’una ragazza, per vederlo vomitare e rompere il gioco del corteggiamento. Non ci saranno donne nella loro vita, oltre alla madre. E qui si ferma Chatwin, che mai volle affrontare nelle opere il tema omosessuale – anche se morì di Aids a quarantanove anni, tacendo, anzi, affabulando sul mistero della sua malattia. Simile, in tutto questo, a un personaggio-chiave del romanzo, la psicoterapista austriaca Lotte Zons, dalle «trecce bionde simili a gomene», che s’affanna a indagare il mistero dei monozigoti e spiega la differenza tra gemelli monovulari e biovulari con il mito di Castore e Polluce, usciti dallo stesso uovo, ma deve arrendersi alla fine di fronte a un’evidenza naturale e inspiegabile: «E quando Lotte diresse il suo interrogatorio alla camera da letto, si trovò di fronte lo stesso vuoto innocente».

92 – Julien Green, Terra lontana

Con questo terzo volume si chiude il racconto di una giovinezza e di una trilogia (Partire prima di giornoe Mille strade aperte). È un ritorno alle radici: lo sbarco del giovane Julien nel Sud degli Stati Uniti, nello scenario abbagliante e malinconico della Virginia e della Georgia, dove nulla sembra aver cambiato di posto nelle grandi case stile Tudor, nonostante la sconfitta bruciante della guerra di Secessione, perché è lì che la sua famiglia di emigrati irlandesi e scozzesi ha fatto fortuna.

Ma Julien è nato a Parigi, si sente profondamente europeo e detesta la semplicità immediata e prepotente di «quei barbari, gli americani», la promiscuità del campus universitario, l’obbligo di far parte d’una confraternita «altrimenti non si conta niente». E fa recinto attorno a sé, con il filo spinato della sua fede cattolica, della sua profonda timidezza e d’una mancanza – che lo rende inespugnabile – d’ogni esperienza sessuale.

Il corpo è casto ma pian piano, in mezzo a quei giovani belli e sensuali che lui si limita a sfiorare con lo sguardo per paura d’essere scoperto «affascinato e vinto», la mente s’ammala di lussuria. Lo sforzo che dovrà compiere per vedere chiaro in quell’inclinazione – «A vent’anni conoscevo già la mia croce. Nel mio intimo la rifiutavo, ne volevo un’altra, meno umiliante. Volevo una croce che risparmiasse l’amor proprio. Non ce ne sono» – produce tra le più belle pagine mai scritte sull’indecisione e la vertigine del desiderio, sul rasentare a ogni istante l’abisso, con il cuore e la mente in subbuglio, la paralisi del corpo e l’impossibilità a pronunciare le parole dell’amore. Quando basterebbe un sorriso, un lieve rallentamento, la più innocua delle scuse.

93 – Robert Musil, I turbamenti del giovane Törless

D’ispirazione fortemente autobiografica, ma come raggelato in una dura scansione speculativa, il romanzo racconta la pubertà del giovane Törless in un collegio militare, in mezzo ai rampolli delle migliori famiglie dell’Impero asburgico. Di natura squisitamente intellettuale, il ragazzo s’accorge di vivere «un’esistenza larvale», «un profondo tedio interiore» che gli impediscono di trovare se stesso. Gli unici interlocutori, scelti «per la loro turbolenza», sono due compagni, Beineberg e Reiting, «i peggiori del corso», ma inquieti e affamati di nuove filosofie. Sono questi a rivelargli l’esistenza di una stanza nascosta, di cui possiedono le chiavi. È un nascondiglio privato che permette loro di isolarsi e di esercitare su un altro collegiale, Basini, scoperto a rubare per rimettere un debito, le più umilianti sottomissioni sessuali. Si spalanca per Törless, in quel collegio ordinato «come una casa trasparente e solida», la porta di «un mondo bieco, tempestoso, nudo e distruttivo».

Basini è la vittima sacrificale (perché ladro, povero e indifeso) ma è anche il turbamento erotico; se lo rubano a vicenda i due maggiori, per esercitare su di lui, fino all’annientamento, le più sadiche e strambe teorie di possesso, come la fustigazione o l’ipnosi. E anche Törless alla fine rimane invischiato dall’abbagliante nudità di quel giovane corpo, anche se «Basini non era che un sostituto, un oggetto provvisorio del suo desiderio». «Era la sensualità segreta, malinconica, senza oggetto dell’adolescente»; è la soglia senza ritorno che definisce una stagione della vita. Törless lascia il collegio come avesse attraversato una lunga malattia; senza rimorsi, ma con un senso di perfetta liberazione, con una nuova consapevolezza. Per lui «una fase di sviluppo era conclusa, l’anima come un giovane albero aveva formato un altro anello annuale».

94 – Ellery Queen, L’ultima donna nella sua vita

Un piccolo gioiello narrativo è questo giallo di Ellery Queen, e non sfigura affatto davanti ai generi letterari cosiddetti «nobili». L’ambientazione è da ghetto dorato di Beverly Hills, tutto un superlativo: la villa, le macchine, le donne, il tenore di vita del rampollo John Levering Benedict III (per il gran mondo internazionale: Johnny-B) che «in aprile è a Ghiang Mai per la festa del Songkran; in maggio a Copenhagen per il balletto reale; in giugno a Epsom Downs per le corse dei cavalli; in luglio a Bayreuth; in agosto al festival delle arti di Mystic» e via scorrendo il calendario. Ogni anno nella lista dei dieci uomini meglio vestiti, «portava in sé un’aura da greco antico, una bellezza quasi impalpabile come il tessuto dei suoi capelli». L’amico Marsh è invece un brillante avvocato, «la mascella tagliata con l’accetta, una luce torva negli occhi». Lo chiamano scherzosamente «il maschione dei caroselli», è l’immagine dell’uomo nato per domare cavalli e condurre macchine sportive.

In mezzo al sodalizio virile, tre donne: Marzia la rossa, Audrey la bionda, Alice la mora, tutte e tre ex mogli di Johnny-B, convocate per la modifica del testamento. Ma nella notte il miliardario viene ammazzato e accanto a lui vengono trovati, inquietanti feticci, la parrucca verde di Marzia, il vestito nero di Audrey e i lunghi guanti bianchi di Alice.

Chi ha ucciso Johnny? Lo saprete solo alla fine del giallo, anche voi turbati ma di certo più accorti del sensibilissimo ispettore Queen,che pur riconoscendo i dischi di Ciaikowski, le prime rare edizioni di Proust, Marlowe, Verlaine, Whitman, i libri d’arte su Leonardo e Michelangelo, Ì busti di Alessandro Magno, di Federico il Grande, di Giulio Cesare («Il padre di Ellery rimase muto. Poi disse con voce flebile: “Giulio Cesare? Non sapevo che anche lui…”») non intuisce e divaga svagato cercando la quarta donna… l’ultima nella vita di John Levering Benedict III.

95 – Hubert Selby Jr., Ultima fermata a Brooklyn

È un romanzo-caleidoscopio, una vertiginosa carrellata di prostituti, operai, lesbiche e sindacalisti, magnacci e travestiti, ritmata da una scrittura sincopata e contrappuntistica che mescola azione e dialogo come in un musical delirante. «Ciò che ho tentato di descrivere», dice l’autore, «sono gli orrori di un mondo senza amore. E l’amore che è nel libro è amore contorto, sviato, diretto verso qualcosa di inumano.» È Tralala la guida di questa America infernale; dentro i bar a farsi d’eroina, a grattar sigarette, a derubare marinai ubriachi, e a palleggiare da sotto il golfino «il più bello e il più grosso paio di tette del mondo intero» fino a essere violentato da decine e decine di ragazzi; poi c’è Harry Black, il sindacalista buono che si scopre più attratto da un ragazzo effeminato che dall’erotismo della moglie; c’è Big Joe, operaio scioperante che scopre la figlia messa incinta da un fanatico di motociclette; c’è Georgette, imbottito di droga e travestito che le busca da tutti, anche dal fratello che lo vuole redimere. Sullo sfondo, come fissato in una polaroid sfocata, il mondo dello «stabile», l’inquilinato fatto di massaie sedute sulle panchine, a guardia dei mocciosi che si scaccolano il naso, rubinetti che sgocciolano e salse all’aglio schifose, kleenex, orrende Cadillac, elenchi di sfratti, lavanderie a gettoni e «neri bastardi e pidocchiosi»; un contraltare al primo mondo, ancor più lurido e disperato.

Un libro per stomachi forti. Ed è un peccato che il contenuto esageratamente trasgressivo (droga, alcol, stupri e pestaggi) abbia fatto passare in sottordine l’alta qualità stilistica che è barocca, incalzante, eccessiva, «tanto da sopraffare di verità il lettore».

96 – Guillaume Apollinaire, Le undicimila verghe

Figura sarcasticamente leggendaria quella dell’hospodarungherese Mony Vibescu, che attraversa i campi di battaglia della vita con la sua «lancia» in resta e fa strage di cocottes nei bordelli, incula paggi e deflora ragazzine, sculaccia natiche e si fa frustare a sangue, un eroe in quel genere di manovre d’assalto che includono persino la masturbazione come «una qualità militare».

Che a scrivere questo divertissement licenzioso fosse il poeta-vate Guillaume Apollinaire,insignito della Legion d’Onore e patriota ispirato nei Calligrammese ne Le mammelle di Tiresia,è ancora più spassoso. Non che Apollinaire non fosse un cultore del genere «erotico», avendo già avuto il merito di proporre a una generazione ignara «Maestri dell’Amore» come Sade e il veneziano Baffo; ma qui ribalta completamente l’operazione letteraria e infila «perle» di humour atroce nelle situazioni più perverse.

Omocannibalismo: «Uno sguattero di ristorante aveva fatto arrostire il sedere di un altro sguattero più giovane, e poi l’aveva sodomizzato tutto caldo e ancora a sangue, mangiando i pezzi rosolati che si staccavano via via dal posteriore dell’efebo».

Sexy treatment:«Il principe suonò per far salire il massaggiatore, che lo massaggiò e lo inculò come di dovere […] Fece ancora un bagno e suonò per il parrucchiere, che lo pettinò e lo inculò artisticamente. Poi salì il pedicure-manicure, che gli fece le unghie e lo inculò vigorosamente. Il principe si sentì alla perfezione».

Paternità: «Mony eiaculava urlando in una vagina ormai inerte. Cornaboeux, gli occhi fuori dalle orbite, lanciava il suo sperma nel didietro di Mony, dichiarando con voce sfinita: “Se non resti incinto, non sei un uomo!”».

97 – Norman Douglas, Vento del Sud

Norman Douglas è uno scrittore che fa della reticenza un’arte d’intrattenimento, e mai nomina «le inclinazioni» pur mostrandole in trasparente filigrana, ma le considera con l’occhio distaccato e curioso del naturalista.

In Vento del Sudmette insieme nello stesso contenitore – l’isola di Nepente – i Bulanga di Bampopo e il martirio di san Dodecano, i tic inglesi e i torpori indigeni, il nudismo e la processione di sant’Eulalia, e da impertinente affabulatore rimescola tutto dando la colpa al vento di scirocco (il vento del sud) che disorienta i sensi e le anime.

Così vediamo denudarsi alla luce della luna una rispettabile e molto alcolizzata signorina Wilberforce; scopriamo i tormenti e la foia amorosa di madama Steylin per il barbuto Pietrone della setta rasputiniana delle Piccole Vacche Bianche; la tranquilla signora Meadows si trasforma in tigre assassina e fa precipitare il marito, con una spintina, da un’altezza di trecento metri, mentre si commerciano false antichità («il fauno di Locri») e falsi processi camorristici in una falsa isola che è Capri, con un po’ d’Ischia, di Ponza e di Lipari, e l’addomesticata educazione inglese si lascia andare in una sbornia a un sommesso sospiro: «Siamo tutti alla mercé dei giovani, signor Richards». Così tanto understatementper chi frequentava Krupp e il conte Fersen e Axel Munthe e scorrazzava tra Ceylon e la Tunisia, non sottolineando niente per suggerire tutto.

Come in uno dei tanti Biglietti da visita(Adelphi, 1983): «… e Michele si innamorò di me disperatamente, come solo può farlo un ragazzo meridionale di quell’età […] Fu come un fulmine a ciel sereno, e non gli importava che la gente se ne accorgesse. E la cosa più strana (strana, cioè, per la nostra mentalità inglese) è che non sorprese minimamente né sua madre né sua sorella; la giudicarono la cosa più naturale del mondo. ‘L’avete svegliato’ mi disse la madre». Ah, il vento del sud!

98 – Denton Welch, Viaggio inaugurale

Un ragazzino scappa dal collegio; una fuga di pochi giorni che però sancisce definitivamente la sua voglia d’autonomia. Nell’Inghilterra imperturbabile di fine Ottocento, tra chicchere e teiere e tante zie verginali, tra punizioni che lasciano segni sulle natiche e scherzi pesanti che alludono al sesso; in un clima dichiaratamente misogino e cameratesco, tra finte esercitazioni militari e allievi torturati – «A un disgraziato tolsero i pantaloni e appiccicarono una gomma da masticare tra i peli del pube. Egli gettò un sacco di strilli, ma credo che in realtà fosse lieto di tanta pubblicità» – Dentonva incontro alla vita e il viaggio d’iniziazione è la partenza per la Cina, dove lavora il padre. Opulenza da fine Impero, con parata forsterivorianadi personaggi eccentrici che viaggiano in panfili rivestiti di lacca antica rubata ai templi, e smorfioseggiano tra servi cinesi e cani al guinzaglio pechinesi, un grande trafficare di anticaglie e pezzi pregiati, coltivazioni d’oppio e scorrerie di predoni; e in mezzo a questo defilé vittoriano, ecco l’epifania di un corpo virile (un militare con la cicca tra i denti, annoiato e senza donne; un pugile muscoloso avvolto in un accappatoio sporco), che scandisce i turbamenti erotici di un diciassettenne, ingenuo ma dotato d’una promettente e irrequieta sensualità.

99 – Frederic Prokosch, Voci

Che cos’è che spinse, fin da ragazzo, Frederic Prokosch ad annotare, parola per parola, ogni suo incontro con i grandi nomi della letteratura e dell’arte? L’ammirazione per Thomas Mann che fu la prima di queste «voci»? Il desiderio d’emulazione? L’enigma affascinante che sottende ogni caso d’artista? O, come confessa con civetteria, tutto era causato da quella strana malattia, «la memoria totale», che lo impressionava come una lastra fotografica?

È diabolica la costanza e l’abilità con cui Prokosch, in tutto l’arco dell’esistenza, va a stanare i suoi «esemplari». È una corsa mozzafiato sulle montagne russe della letteratura, tra una Gertrude Stein che consiglia «di adattarsi in Francia alla fragranza dell’orinatoio» e un Joyce gelido che tratta come una scempiaggine l’idea dello stream of consciousness.A tratti timido, a tratti perfido, Prokosch è un grande orecchio che ascolta tutto: dal chiacchiericcio salottiero alla raffinata disquisizione; evidenzia le rivalità, i gusti personali, i silenzi e i balbettamenti. Di Sinclair Lewis, premio Nobel, traccia un ritratto feroce e impietoso; così come del taccagno Maugham; aTom Wolfe fa confessare di voler essere come il Niagara, con quelle rapide potenti e irresistibili, mica «un ruscelletto snob come Fitzgerald». Anche di Forster mostra l’anima volubile «alessandrina» quando lo vede cucinare l’amato Kavafis a mo’ di spezzatino; e pure Gide è colto a darsi zappate sui piedi, quando afferma perentorio, a proposito dell’omosessualità: «Per l’artista è essenziale che questa anomalia […] non si trasformi in una cause célèbreo in una Weltanschauung…»Per più volte, nel libro, transita l’anima irrequieta di Wystan Auden che sembra poco in sintonia con il Nostro, ed è forse l’unico a sfuggirgli perché tutti gli altri, da buon lepidotterista, Prokosch li cattura con la retina, l’infilza e li mette in scatola. Ognuno con la sua etichetta. Anche il più temibile concorrente, in questo genere di hobby: l’imprendibile e sornione Vladimir Nabokov.

100 – Raymond Queneau, Zazie nel metrò

Pubblicato nel 1959 e reso celebre anche dalla versione cinematografica, è davvero un romanzo folle ed esilarante dove una piccola peste, Zazie (variante di zazou: teppista), affidata momentaneamente dalla madre a uno zio che si guadagna la vita facendo il travestito in una cage aux follese balla «la morte del cigno» in tutù come all’Opera, mette a soqquadro mezza Parigi, adescando e ricattando pedofili, perché vuole a tutti i costi fare un giro nella metropolitana chiusa per sciopero. Non ci riuscirà, ma ha fatto danni irreparabili in un crescendo di crudeltà e pirotecnia verbale: «Perché vuoi fare la maestra?» «Per rompere le balle alle bambine […] Voglio essere carogna. Gli farò leccare l’impiantito, mangiare la cimosa della lavagna. Gli metterò i compassi nel culo».

Così, tra pappagalli chiacchieroni, negretti della Martinica che ballano la carumba, vedove e poliziotti innamorati, scazzottata finale, saltano in allegria tutti gli stereotipi della convenzionalità e dell’innocenza delle bambine. «“L’hai visto il metrò?” “No.” “E allora cos’hai fatto?” “Sono invecchiata”».

 

 

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