Quando gli operai rischiano di morire due volte.
Sostanze tossiche. Industrie. Un numero sospetto di morti. Troppi. I famigliari dei lavoratori scomparsi e le associazioni denunciano, si mobilitano. Gli inquirenti partono con le indagini: raccolgono prove scientifiche, soprattutto epidemiologiche; sono necessarie per capire se può iniziare un processo penale a carico dei responsabili di aziende che quelle sostanze tossiche producono. È in questo modo che sono iniziati processi come quello dell’Eternit, dell’Ilva, della Franco Tosi di Milano, della Montedison di Mantova, Crotone e Brindisi, della Fincantieri di Palermo. In questo modo inizierà, forse, quello alla Tirreno Power di Vado Ligure. I processi per disastro ambientale e omicidio colposo plurimo sono però troppo spesso finiti in un nulla di fatto, cancellati dalla prescrizione.
Uno dei pochi casi in cui è stata fatta giustizia, è il processo per incidente sul lavoro conclusosi il 14 maggio scorso con la condanna di sei dirigenti della Tyssen Krupp di Torino. Sette operai erano morti dopo che un incendio scoppiato in fabbrica aveva provocato ustioni sul 95 per cento del loro corpo. In questo caso le indagini svolte da Raffaele Guariniello si erano concluse in soli 80 giorni. L’ex Pm è riuscito a provare che la morte degli operai era avvenuta a causa del completo stato di abbandono della fabbrica, ancora funzionante ma prossima a chiusura. I dirigenti, che si sarebbero presto liberati sia del sito industriale sia dei lavoratori, avevano deciso di non investire più neanche un soldo sulla sicurezza, rendendo prevedibile il rischio di un incidente anche grave. Prima di ottenere giustizia ci sono voluti otto anni e ben cinque processi ma alla fine gli imputati sono stati ritenuti responsabili di omicidio colposo plurimo con l’aggravante della colpa cosciente, per un totale di 45 anni di reclusione.
Nei casi di disastro ambientale invece, valutare le responsabilità è più difficile e richiede ancora più tempo. Prima di tutto bisogna dimostrare il nesso causale tra una determinata sostanza e una malattia come il cancro. La scienza e gli esperti in questo hanno un peso fondamentale ma è complesso risalire con certezza al momento in cui il killer silenzioso è entrato nel corpo di una persona, dato che questo male può insorgere anche dopo trent’anni. Durante il processo gli avvocati dei dirigenti sosterranno che il nesso causale non c’è o comunque che i dirigenti imputati non ne sapevano nulla perché all’epoca dei fatti non c’erano studi scientifici a dimostrarlo.
Nei processi in cui le prove scientifiche sono determinanti, la difficoltà del giudice è inoltre quella di elaborare il suo ragionamento senza farsi condizionare dalla presunta certezza della scienza.
Precisamente dieci anni fa si concludeva il processo al Petrolchimico di Porto Marghera. La tensione era tra diritto al lavoro e diritto alla vita ma anche tra diritto penale, scienza e verità storica. La Montedison aveva costruito a Porto Marghera un vero e proprio impero della chimica. Un colosso che ha causato gravissimi danni ambientali e la morte di almeno 157 operai. Durante il processo al Petrolchimico la società civile si è scontrata con i dirigenti Montedison e il presidente a capo dell’impero, Eugenio Cefis. È proprio tra 1973 e 1977, anni in cui Cefis tenta di diventare l’unico padrone della chimica italiana, che gli operai di Porto Marghera scoprono che il loro lavoro li stava ammazzando.
Nel 1972 moriva Simonetto Ennio, autoclavista del reparto CV 14-16, in cui veniva lavorato il CVM (monomero del cloruro di vinile). Gli operai entravano nelle autoclavi legati a una corda e dovevano togliere le incrostazioni battendole con gli scalpelli. Da quelle incrostazioni usciva una quantità impressionante di gas. Quando muore Simonetto nessuno collega l’angiosarcoma che lo ha ucciso a quella sostanza. Infatti, nonostante fossero in corso ricerche sulla pericolosità del CVM, non erano state rese note ai lavoratori. Gli studi sulla nocività della sostanza li aveva svolti prima il professor Luigi Viola per l’azienda Solvay e ora le svolgeva anche l’oncologo Cesare Maltoni, proprio per la Montedison. Fu Maltoni a confermare, durante un’assemblea dei lavoratori nel 1974, che Simonetto e gli altri autoclavisti avevano lavorato per anni immersi in una sostanza tossica e letale.
Gli operai di Porto Marghera però avevano raggiunto, soprattutto durante l’autunno caldo, non solo conquiste contrattuali: il polo industriale è stato una delle punte più avanzate del paese per le articolate forme di lotta che si sono levate dal basso. È dentro queste tensioni e sempre dal basso che si è fatta strada, proprio a partire dai reparti CV del Petrolchimico, una nuova rivendicazione: “La salute non si paga”.
Un altro autoclavista era Gabriele Bortolozzo, che nel 1982 era stato spostato proprio al CV 14-16. Ostinato e testardo, fu lui a portare sul tavolo dell’allora Procuratore della Repubblica Felice Casson le denunce da cui partirà il processo. Bortolozzo aveva raccolto con enorme fatica un’infinita serie di dati sui troppi colleghi che aveva visto morire. In fabbrica era solo, mal visto sia dai sindacalisti sia dai dirigenti, ma ad affiancarlo c’era Luigi Scatturin, esponente dell’associazione Medicina Democratica, fondata da Giulio Maccacaro.
Atto primo
Il processo inizia nel 1998 e tra i 28 dirigenti Montedison imputati ci sono anche Cefis e un medico: il responsabile sanitario centrale Emilio Bartalini. Nella fase di raccolta delle prove il processo ruota attorno a perizie, studi, statistiche volte a individuare o meno un nesso causale tra CVM e carcinogenesi. Il Tribunale in I° grado accettava come probanti solamente i dati che dimostravano la correlazione tra sindrome di Raynaud e CVM. Per quanto riguarda i tumori al fegato e ai polmoni, gli studi epidemiologici portati in aula non venivano ritenuti sufficientemente significativi.
Inoltre, i giudici ritennero che i dirigenti prima del 1974 non potevano conoscere il nesso di causalità tra la morte degli operai e la sostanza in questione. Infatti il Tribunale sostenne che “l’adeguamento del datore di lavoro alle nuove conoscenze scientifiche deve essere tempestivo ma sarà esigibile nel momento in cui le stesse abbiano raggiunto un grado adeguato di consistenza e di solidità, cioè allorquando sia stato conseguito un patrimonio scientifico consolidato, alla luce degli organismi internazionali operanti in materia”. Quando nel 1974 divenne certo che il CVM era nocivo, la Montedison avrebbe applicato tutte le precauzioni necessarie. Così, il Tribunale di I° grado assolveva tutti. Il giorno della sentenza l’aula tremava, al grido di “Vergogna! Vergogna!”.
Atto Secondo
In Corte d’Appello e in Cassazione anche l’angiosarcoma che aveva causato la morte di Simonetto e altri 6 operai, veniva riconosciuto come correlato al CVM. Per tutte le altre 150 morti il nesso causale non venne ritenuto sufficientemente provato. La sentenza del 2006 ribalta però il ragionamento dei giudici di I° grado e l’assoluzione diviene condanna: «le conoscenze rilevanti non sono solo quelle diffuse nella cerchia degli specialisti, e tanto meno le conoscenze avanzate di taluni centri di ricerca, bensì sono le conoscenze che costituiscono un patrimonio diffuso a partire da una certa data». Secondo la Cassazione, non c’è bisogno di aspettare che una cerchia ristretta di scienziati sia certa di aver individuato l’esistenza del nesso causale. I dirigenti del Petrolchimico inoltre erano al corrente del rischio che correvano gli operai da molto prima del 1974: “i documenti aziendali Montedison sul finire degli anni ’50 riconoscevano la tossicità di queste sostanze; l’imputato Bartalini ha riconosciuto l’epatotossicità del CVM in anni risalenti ai suoi studi universitari”. Secondo la Cassazione, «fu proprio la Montedison a voler approfondire gli studi del dottor Viola (a conferma della serietà dell’ipotesi), dando l’incarico all’oncologo Maltoni». Infine, la natura tossica o nociva di quella sostanza era stata riconosciuta dalla legge nel ’56 (D.p.r. 303) e quindi,
ben da prima dell’epoca della prima contestazione (1969), dovevano già ritenersi prevedibili gravi danni alla salute dei lavoratori esposti al CVM e doveva ritenersi sorto l’obbligo di adottare le cautele necessarie […], perché la tutela della salute umana costituisce obbligo primario di salvaguardia di un diritto costituzionalmente protetto (art. 32 della Costituzione).
Atto Terzo
Cinque dirigenti Montedison furono condannati a un anno e sette mesi perché responsabili di non aver fatto la giusta prevenzione. Alle cinque condanne se ne sarebbero poi aggiunte altre due se Eugenio Cefis ed un suo alto dirigente non fossero nel frattempo deceduti. I dirigenti avevano provato a difendersi nascondendosi dietro i tempi di cui ha bisogno la scienza prima di arrivare a delle certezze. Invece di investire capitali nella sicurezza aspettavano di essere sicuri di doverlo fare, ma intanto gli operai morivano. Tra le cinque condanne quella del medico Bartalini, potrebbe risultare la più agghiacciante dato che la struttura sanitaria deve salvaguardare proprio la salute dei lavoratori. Invece, raccontavano gli operai, se qualcuno lamentava un piccolo fastidio al fegato i medici di fabbrica ripetevano sempre di bere meno.
Dieci anni fa la giustizia e la verità storica venivano a coincidere. Le condanne avvennero per un solo caso di angiosarcoma non ancora caduto in prescrizione. Tutti gli altri omicidi colposi, tranne quello dell’operaio Tullio Faggian, erano stati azzerati. Nonostante la marea di prescrizioni il valore del diritto alla salute veniva ripristinato perché venivano individuati una colpa precisa e i responsabili. Una sentenza che non ha riportato in vita nessuno ma che almeno, come invece è accaduto nel caso dell’Eternit, non ha ucciso gli operai due volte.