Banchettare con le pantere. La creazione letteraria in carcere

Alle carceri è legato più di un capolavoro letterario, e in occasione delle celebrazioni per la Giornata mondiale dei diritti umani è forse più legittimo che mai interrogarsi sul perché spazi così costrittivi abbiano indotto alcuni artisti a creare opere d’ingegno che perdurano nei secoli. Un breve excursus sulla creazione letteraria in carcere.

Possiamo considerare il tema che tratta Lorenzo Alunni nel suo articolo su letteratura e prigionia complementare a quello della relazione tra carcere e opere letterarie. Nel campo di concentramento non c’è alcuna pena da scontare, a meno di non considerare una colpa l’appartenenza a una data etnia, armata o ideologia. In prigione invece si entra – almeno in teoria – dopo aver commesso un delitto, e la considerazione di ciò che per una società è criminoso è ben più elastica e relativa (fortunatamente anche più complessa dal punto di vista giuridico) di quanto non siano le ragioni militari sulla deportazione di massa.

La relazione tra creazione letteraria e carcere mantiene un rapporto complesso con il male, l’interruzione della vita civile, la privazione della libertà e l’accettazione da parte del colpevole del delitto che gli si attribuisce. Oscar Wilde, nel De Profundis, sostiene che l’accettazione della colpa riporta lo spirito di chi vi è costretto all’umiltà predicata da Gesù Cristo nei Vangeli, ma è più probabile che, nella maggior parte dei casi, i fatti siano riconducibili a un più immediato riposo dalla vita in società, dalla dispensazione dagli obblighi che essa comporta e dalla conseguente possibilità di concentrarsi sui problemi che attanagliano le nostre coscienze.

Quelli che perseguitavano Emilio Lussu, l’autore di Un anno sull’Altipiano, per esempio, erano relativi all’irreperibilità del tempo necessario a scrivere il libro sulla Grande Guerra che aveva promesso a Gaetano Salvemini. Non sarebbe riuscito a risolverli se non fosse stato costretto a una convalescenza nel sanatorio svizzero di Clavadel, a causa di una malattia polmonare contratta in carcere; a testimonianza del fatto che i luoghi dell’inattività, non solo quella coatta, hanno uno stretto rapporto con la creazione letteraria.

Naturalmente non è necessario che siano tali dal punto di vista materiale: può anche trattarsi di posti dello spirito in cui l’artista si rifugia per sfuggire alle urgenze e alle incombenze della vita di ogni giorno, ovvero ai suoi doveri quotidiani, ma è un dato di fatto che Dante Alighieri scrisse la Commedia in esilio, lontano dalle persone care, che Gramsci scrisse i suoi quaderni (appunto) da un carcere e che il marchese de Sade non poté scrivere il suo Justine prima di essere imprigionato nella Bastiglia (almeno la prima versione), oltre a Le 120 giornate di Sodoma. Sia detto per inciso che la Rivoluzione Francese l’avrebbe svuotata dei suoi prigionieri di lì a poco, un’impresa storica che de Sade alimentò attivamente, infervorando gl’insorti con efficaci sermoni gridati alla folla dalla finestra della sua cella. Erano sermoni talmente infuocati che il governatore della Bastiglia, il marchese de Launay, non si considerò responsabile degli eventi se il facinoroso de Sade non fosse stato allontanato, come in effetti avvenne, nell’aprile del 1789.

La letteratura non ha niente a che vedere con la vita, anzi, ne è spesso una negazione. È pertanto facile da accettare l’evidenza che un luogo che obbliga alla non vita, come il carcere, può propiziare quel distacco dai casi particolari di ognuno di cui hanno tanto bisogno gli scrittori per volgere il proprio pensiero a ciò che la vita rappresenta, ma che non necessariamente incarna.

La prigione, come qualunque altra esperienza, può essere vissuta in diversi modi. Esistono scrittori che vi si sentono come a casa propria – è il caso di Jean Genet – che rivendicano il passaggio da quel luogo infame perché fa parte del lato oscuro delle loro vite, proprio il lato che riescono a trasformare in letteratura. Georges Bataille ha dedicato a Genet il quinto capitolo di La letteratura e il male, e spiega come, nel suo caso, la scrittura fosse una sorta di rivendicazione di esperienze che altrimenti l’avrebbero condotto alla rovina; o, meglio, che lo condussero in effetti a una rovina che Genet era, per così dire, fiero di raccontare nei suoi libri.

Ancora più interessante è l’esempio di chi, pur estraneo alle frequentazioni carcerarie, è riuscito a trarne beneficio. Su tutti spicca l’esempio di Oscar Wilde, che nel carcere di Reading, tra il 1895 e il 1897, scrisse una delle lettere più importanti della letteratura europea: il De Profundis è rivolto al suo amante, Alfred Douglas. Affranto per le umiliazioni alle quali viene costretto, per la perdita del proprio status sociale (quanto mai alto nel suo caso) e della propria biblioteca, Wilde si rivolge al ragazzo con il quale manteneva una sbilanciata relazione extraconiugale e a causa della quale era stato condannato. Non c’è esempio più alto di perdono e di arricchimento laico fondato sulla parola di Gesù di quello che dette l’ex studente di Oxford. «È come banchettare con delle pantere», dice riferendosi ai pranzi in refettorio con gli altri carcerati; ma grazie all’accettazione della propria esperienza e all’acuta conoscenza del dolore, Wilde sostiene che sia possibile trasformarsi in un uomo non migliore, che per lo scrittore irlandese non contava nulla, bensì più profondo («il peccato più esteso, tra gli uomini, è la superficialità»).

Wilde perdona non per far del bene al suo ex amante, ma in favore di se stesso; in questo fornisce un’insuperabile lettura individualista del messaggio cristiano. L’autore de Il ritratto di Dorian Gray capisce che se non è capace di preservare l’amore nel proprio cuore uscirà distrutto dai due anni di prigionia ai quali è stato condannato, e per proteggere la propria percezione della bellezza china il capo e si sottomette alle leggi dei filistei. Un grande sovversivo non si arrende mai davanti alla propria pena, ma la usa per ingrandire la propria dottrina di vita. «Un’idea pericolosa, certo, ma tutte le grandi idee lo sono», scrive Wilde.

È un cammino simile a quello di Paul Verlaine. Anche il primo poeta maledetto entrò in prigione per sodomia (nel XIX secolo era più grave andare a letto con Rimbaud che sparargli due colpi di rivoltella), anche lui apprese in carcere che la moglie aveva chiesto e ottenuto la separazione, e anche Verlaine si avvicinò in quel periodo a Gesù di Nazareth. Le similitudini sono talmente numerose che lo stesso Wilde ne rimase colpito, e omaggiò il compagno di sventure definendolo l’«unico poeta cattolico insieme a Dante». La raccolta di poesie che Verlaine scrisse in prigione non fu mai pubblicata, ma l’autore inserì i componimenti in diverse raccolte poetiche posteriori, e vi si nota una musicalità sottile e disperata. Povero e alcolizzato, Verlaine trova in carcere, almeno, un rifugio dalle ristrettezze in cui era costretto a vivere. Ristrettezze che pur lontane da una cella somigliavano inevitabilmente a una prigione.

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