Per un momento ho dimenticato. Letteratura in prigionia

Józef Czapski che fa lezioni su Proust nel campo sovietico di Grjazovec, Primo Levi che cerca di ricordare e insegnare Dante ad Auschwitz, Walter Benjamin che tenta di lanciare una rivista nel campo dove l’hanno internato, e la biblioteca di Guantanamo: che cosa significa parlare di letteratura in prigionia?

Qualche tempo fa, durante una visita al lager nazista della Risiera di San Sabba, a Trieste, una piccola scritta di quelle incise dai prigionieri alle pareti delle celle ha trattenuto la mia attenzione più di tutte le altre. Qualcuno aveva scritto, piccolo, in alto: «Cantami o diva del Pelide Achille l’ira funesta…»

All’incipit dell’Iliade seguono annotazioni sulla prigionia, iniziata il 21 settembre 1944. «Che Iddio protegga la mia famiglia – la madre». La didascalia del pannello si limita a informarci che era parte di un «messaggio lasciato sulle pareti di una cella da una famiglia di ebrei». La Risiera di San Sabba è un luogo di profondo impatto, dove gli orrori che raccontano quelle pareti non dovrebbero lasciare molto spazio ad altro, nella testa del visitatore. Eppure, quella citazione letteraria aveva assorbito la mia attenzione in maniera invasiva: pareva volesse sovrastare tutti gli altri pensieri e sentimenti del momento. Mi rimproveravo di perdere tempo a pensare a dei versi poetici, mentre ogni centimetro di quel posto non faceva che raccontare di orrore. Me ne sentii in colpa. In questo articolo vorrei interrogare fugacemente alcuni aspetti di quel senso di colpa, attraverso alcuni esempi di letteratura nei (e non sui) luoghi di concentramento.

L’occasione per riflettere su questo tema ci è data un piccolo libro da poco tornato in libreria, in una nuova edizione molto ben curata da Giuseppe Girimonti Greco: Proust a Grjazovec, di Józef Czapski (Adelphi). Colto militare polacco, Czapski venne rinchiuso nel campo di prigioni di Grjazovec, in Unione Sovietica. Era uno dei quattromila ufficiali polacchi arrestati. Di tutte quelle persone, fra deportazioni successive, morti di stenti ed esecuzioni, rimasero in vita prima quattrocento persone e poi solo settantanove, fra cui Czapski. Per aiutarsi a superare lo sconforto della dura prigionia, alcuni detenuti chiesero il permesso di tenere le lezioni su argomenti artistici, storici e letterari. Czapski, che a quel tempo era malato ed era esentato dai lavori più pesanti, nel 1940-41 si dedicò alla Ricerca del tempo perduto di Proust.

Czapski non aveva a disposizione nessun libro, ma solo carta e penna per prendere appunti in preparazione delle lezioni, che doveva tenere affidandosi ai soli suoi ricordi del testo. Questa situazione fa sì che le citazioni siano spesso imprecise e che alcuni degli episodi citati siano in realtà diversi da come li ha raccontati Proust. Ma non importa, e per fortuna l’edizione non corregge troppo quegli errori, perché, come vedremo anche con il caso di Primo Levi, le dimenticanze e gli sforzi di rimemorazione partecipano al senso che la letteratura assume in un luogo come un campo di concentramento. In queste condizioni, fanno quasi sorridere espressioni usate da Czapski quali «pagine indimenticabili», o quando a un certo punto parla di una pagina che «termina con un passo di sublime poesia, che non sono in grado di ripetervi con esattezza».

Parlare di letteratura in un campo di concentramento pare anche sospendere, nei minuti in cui se ne parla, il buon senso delle proporzioni delle condizioni di vita. Czapski, per esempio, dice a un certo punto che Proust «scrive nella posizione più scomoda che si possa immaginare, coricato, appoggiato sul gomito destro, e nelle sue lettere dichiara che scrivere, per lui, “è un vero e proprio martirio”». Se scrivere, per Proust, era un martirio, cosa doveva essere quello che stavano vivendo coloro che stavano ascoltando quelle lezioni in un campo di concentramento?

Poche pagine dopo, Czapski dice: «Vedo alcuni dei miei ascoltatori sorridere». Leggendo questo passaggio, si è tentati di concedersi l’esagerazione di pensare che allora tutta lo sforzo di Proust e tutti i volumi della sua opera sono valsi a qualcosa, se hanno saputo provocare anche un minuscolo sorriso nei volti di alcuni di quegli spettatori spaventati.

Czapski offrì queste lezioni su Proust per «la gioia di poter condividere uno sforzo intellettuale [che] ci dimostrava come fossimo ancora capaci di pensare e di recepire stimoli mentali completamente estranei alla nostra realtà contingente, e addolciva le ore trascorse nel grande refettorio dell’ex convento, sede di quella strana scuola clandestina in cui riuscivamo a far rivivere dentro di noi un mondo che allora ci sembrava perduto per sempre». C’è il conforto dello sforzo intellettuale condiviso e una comprensibile esigenza di distrazione, certo, ma che lo scrittore al centro delle lezioni fosse proprio Proust fa pensare che ci doveva essere anche dell’altro. La Recherche di Proust è un’opera che il tempo, o il passato personale, non insegna solamente a ricordarlo o ripensarlo, ma anche, in un certo modo, e reinventarlo, e a coglierlo alla nuova luce della scoperta del carattere indistinto di quello che siamo stati e di quello che siamo. E i prigionieri di Grjazovec avevano un bisogno disperato di quella nuova luce, per poter proiettarla verso un futuro che temevano di non poter vivere.

Oltre a Józef Czapski e Proust, uno dei casi più importanti e commoventi di lezioni di letteratura in un campo di concentramento è quella di Primo e Pikolo, in Se questo è un uomo. Nel capitolo Il canto di Ulisse, Primo Levi racconta del suo tentativo d’insegnare un po’ d’italiano al suo compagno di prigionia Jean, soprannominato Pikolo. Hanno a disposizione solamente un’ora, e Levi decide di prendere a esempio il canto XXVI dell’Inferno di Dante, il canto di Ulisse. Levi comincia a recitare e tradurre il canto, ma si accorge presto di ricordarlo solo in maniera frammentaria. «Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine». Le terzine dimenticate in realtà sono di più, e Nicola Gardini, nel suo Lacuna. Saggio sul non detto, ricostruisce il canto di Dante mostrando cosa Primo ricorda e cosa no.

Eppure, fra un vuoto di memoria e l’altro, Levi si accorge per la prima volta di certi aspetti di quei versi: «Dovevo venire in un lager per accorgermi che…». Pikolo si accorge che Primo è in difficoltà, ma si accorge anche di quanto quello sforzo di rimemorazione stia facendo bene a entrambi. Sia Jean che Primo trovano in quei versi un senso, per quanto fugace e volatile, alla loro presenza in quel luogo di morte: spinto da quelle parole, Primo ripensa alle montagne piemontesi che vedeva lontane mentre tornava a Torino in treno, Pikolo a quel mare in cui ha tanto navigato. Quei versi diventano per i due prigionieri allo stesso tempo un appiglio di salvezza e una reazione, quasi una protesta, alla situazione che stanno vivendo. Ne è valsa la pena, se Levi, a proposito di quell’episodio, arriva a scrivere: «Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono».

Tornano in mente anche altri casi di grandi studiosi che, nei campi di concentramento, decidono di offrire delle lezioni agli altri prigionieri. Per esempio Fernand Braudel, uno dei maggiori storici del Novecento, internato dai Nazisti nei campi di Magonza e Lubecca. A proposito di questa riflessione, colpisce come Braudel abbia deciso d’infarcire quelle sue lezioni con molti riferimenti letterari, in particolare Anatole France, Aldous Huxley e Paul Valery.

E poi il caso di Walter Benjamin. Il 9 settembre 1939 venne internato insieme a migliaia di altri tedeschi e austriaci in età di leva allora residenti in Francia. Venne condotto al Château de Vernuche, in prigionia. Lì, dopo un iniziale (e impossibile) assestamento, Benjamin cominciò a tenere delle conferenze, una delle quali sul senso di colpa. Tenne anche un seminario di filosofia per “studenti avanzati”, ma stavolta dietro compenso, con la valuta improvvisata nel campo. Benjamin, nel campo, tentò anche di fondare una rivista. Raccolse tutte le energie intellettuali fra i prigionieri e progetto il Bullettin de Vernuche: Journal des Travailleurs du 54e Régiment. La rivista non uscì mai, per ovvie ragioni, ma le bozze del primo numero esistono e sono conservate a Berlino. Il numero comprendeva anche un testo dal tema sorprendente, per questo articolo: le abitudini di lettura dei carcerati.

Proprio il tema delle abitudini di lettura dei carcerati ci dà lo spunto per allargare brevemente il discorso alla letteratura nei campi intendendo, il campo nella sua accezione trasversale di spazio di sospensione dell’ordine giuridico, concentrandosi sul paradigma politico di quella nozione e facendo certamente attenzione alle debite proporzioni, per esempio in termini di costo di vite umane. Una prigione-campo come quella di Guantanamo, per esempio.

A Guantanamo c’è una biblioteca. Le informazioni sono piuttosto contrastanti. Il Pentagono, attraverso il documento Ten Facts about Guantanamo, ha comunicato che si tratta di una biblioteca con 3.500 titoli in tredici lingue. Il titolo più richiesto è la serie di Harry Potter, ma anche Agatha Christie, le poesie di Khalil Gibran e Cinquanta sfumature di grigio. Nel 2013, pare che i titoli siano diventati oltre 18.000. Uno dei detenuti racconta però che il suo avvocato gli ha spedito una copia di L’arcipelago Gulag di Solzenicyn, ma che le autorità non glielo hanno mai consegnato. E c’è poi la voce di un detenuto, rinchiuso lì non si sa perché, che, in una lettera afferma che la biblioteca è composta solamente da due contenitori, con vecchi libri e riviste perlopiù in inglese, e che la scelta dei titoli è parte integrante dell’umiliazione a cui sono sottoposti i detenuti.

Un’interessante torsione del caso della biblioteca di Guantanamo è avvenuta quando, il 28 ottobre 2010, durante il processo a Omar Khadr, la lista di libri presi in prestito dal detenuto è stata chiamata in causa per difenderlo. Michael Welner, psichiatra forense, lo aveva accusato di essere un jihadista irrecuperabile che leggeva solo il Corano e che non era interessato ai libri occidentali. Ma la lista di libri presi in prestito e letti (con tanto di annotazioni) includeva l’autobiografia di Nelson Mandela, I sogni di mio padre di Barack Obama, i volumi della serie Twilight, qualche titolo di John Grisham e di Danielle Steel.

Il paradosso è che la biblioteca di Guantanamo è stata utilizzata dal Pentagono come argomentazione principale per dimostrare quanto le condizioni di vita il quel campo siano buone. Promemoria: molti di quei detenuti non sono mai stati accusati di nessun crimine, ma sono tenuti lì preventivamente. Per tacere della questione della tortura nel campo.

Sulla biblioteca di Guantanamo esiste anche una pagina Tumblr, realizzata da un giornalista del New York Times che vi ha avuto accesso. Fra i libri che si vedono in quelle foto, spunta un’edizione tascabile francese di Finzioni di Borges. Viene da chiedersi cos’avranno pensato i detenuti che lo hanno letto delle infinite possibilità del racconto, lì contenuto, La biblioteca di Babele, o di quello su Pierre Menard, che scrisse anche lui il Don Chisciotte. E scorgiamo in uno scaffale anche l’Odissea: quella stessa Odissea del canto di Dante che Primo tenta d’insegnare a Pikolo, in quel momento in cui ha «dimenticato chi sono e dove sono».

Delle lezioni della mia prima media ricordo bene solo due cose. La professoressa d’italiano, allora già prossima alla pensione, che declama con passione quello stesso verso inciso nella parete della cella della Risiera di San Sabba, e quella stessa professoressa che ci diceva che, fra le varie ipotesi sul nome dell’autore di quell’opera, ce n’era una che diceva che Omero significa “O me oron” (ὁ μὴ ὁρῶν), “colui che non vede”, e che infatti si trattava forse di un aedo cieco.

Durante la visita alla Risiera di San Sabba, leggevo e rileggevo quei due versi di Omero, forse per distrarmi dalla tempesta che sentivo su di me, accanto a me. Era come se, in quel momento, “colui che non vede” fossi io: mi trovavo in mezzo a un luogo in cui si sente ancora l’eco delle grida, da quanto sono state numerose e forti, ma mi facevo distrarre da due versi poetici. Quei due versi erano per me distrazione dalla vita, ma, per chi l’aveva raccontata nei campi di concentramento, la letteratura era invece distrazione per la vita. «Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono».

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