E se il futuro delle sale passasse dallo streaming sociale?
Non si rischia molto dicendo che Amsterdam non è famosa per il cinema. L’edificio che accoglie il monosala dove lavoro, il Cinema of the Dam’d, è stato però importante per questa scena minore. Casa dell’accademia olandese di cinema, forse una delle meno blasonate scuole di cinema d’europa ma che ha comunque prodotto nomi come Paul Verhoeven e Robby Müller, l’edificio fu occupato nel 1999, solo un paio di settimane dopo che l’accademia si era trasferita nella sua nuova sede. Di lì a poco la lunga tradizione delle grandi occupazioni di Amsterdam si sarebbe spenta definitivamente ma in questo caso gli occupanti riuscirono a trattare con il comune e ad acquistare collettivamente l’edificio per ricavarne un rifugio per artisti, spazi per clubbing, una galleria e un ristorante. Quando nel 2017 ne affittammo una parte con un gruppo di amici, l’idea era di riportarci il cinema e di giustificare l’impresa con la costruzione di un salotto che sfumasse la divisione tra programmatori e spettatori. Niente che non si fosse mai visto prima, ma per due anni siamo riusciti a mettere insieme cinema canonizzato, millennial trash, karaoke, laboratori di cinema porno e tutto ciò che facesse dello stare insieme di fronte al grande schermo un piccolo evento. Ora da un mese ci chiediamo se si possa portare parte di questo online.
Sono passati pochi mesi da quando Martin Scorsese confidava di avere prodotto The Irishman su Netflix per disperazione, e comunque avendo la garanzia che sarebbe stato distribuito anche nei cinema. Pochi mesi, ma anche un’intera pagina di storia fa. Anni di dibattiti sulla minaccia di sostituzione rappresentata per i cinema dalle grandi piattaforme streaming sono stati superati in un paio di settimane, quando le porte per la visione collettiva in sala si sono chiuse ovunque nel mondo. Da quel momento, la ricerca di web designer capaci di creare vetrine on demand è ciò che ha unito cinema, case di produzione, distributori e festival nei loro salti digitali più o meno ambiziosi. Di certo il virus non ha cambiato la soglia critica di pubblico per rendere una piattaforma on demand sostenibile, e il rischio che solo i più forti avranno i numeri per andare avanti e che si ripeta quanto successo negli Stati Uniti post-1929, quando le sale più piccole furono acquistate dai grandi studios, è molto alto. Che il successo dello streaming non potrà salvare tutti, ammesso che salvi qualcuno, deve essere chiaro a chi ha la responsabilità di evitare che il settore scompaia, ma è impossibile non tenere conto di come la voglia di guardare film insieme stia cambiando lo streaming stesso.
Nel palinsesto infinito di streaming on demand si può scegliere un canale più classico per sostenere la propria sala locale, come il Beltrade sul sofà del Cinema Beltrade di Milano, oppure seguire uno dei tanti watch party su Facebook e Mymovies, dagli eventi bolognesi della Cineteca o del Biografilm Festival ai film muti con colonna sonora live trasmessi dal cinema Star & Shadow di Newcastle.
Queste sono iniziative relativamente semplici sul piano tecnico e organizzativo, ma che fanno intravedere la volontà di ripensare il cinema nei termini di una socialità virtuale che fino a poche settimane fa era considerata un po’ nerd e limitata al momento del commento (si pensi a Letterboxd, un social per amanti dei film dove ci si scrive rigorosamente dopo aver visto qualcosa). Insomma, streaming è bello, ma bisogna stare attenti al rischio di feticizzare l’evento sociale e di fraintendere perché è importante che i cinema riaprano quando sarà sicuro farlo. Cosa vuol dire poi guardare un film insieme?
Non dimentichiamo quelli che al cinema puntano il ginocchio sulle sedie, scartano caramelle avvolte in quella che sembrano essere molti strati di stagnola o russano epicamente. Commenti e battute sono stati per molti parte integrante dell’andare al cinema. Il regista sudafricano Richard Stanley ha scritto recentemente che delle molte notti passate da giovane al The Scala di Londra ricorda soprattutto la partecipazione del pubblico e i commenti alle scene, al punto da includere nei suoi film, una volta diventato regista, pause per permettere al pubblico di rispondere alle battute degli attori. Ha vissuto qualcosa di simile chiunque sia andato a ballare in autoreggenti e lanciare carta igienica a uno spettacolo del The Rocky Horror Picture Show. Quando ci chiediamo come salvare i cinema possiamo quindi lasciare perdere l’ “esperienza autentica” che abbiamo in mente, e parlare piuttosto di cosa ci fa divertire di una sala con altra gente dentro e di come averne di più. Solo a quel punto potremo pensare a come apprezzare alcune delle cose che stanno succedendo oggi online e a come riaprire le sale quando sarà possibile, con eventi che davvero aggiungano qualcosa al guardare i film che magari non avremmo trovato da soli.
Per coltivare in quarantena il piacere scomodo di condividere un film si può anche fare a meno degli specialisti. Netflix Party, TwoSeven, Metastream sono tutte applicazioni o siti che permettono di sincronizzarsi con gli amici per vedere film o video che sono già online. Condividere i film che amiamo, cercare di indovinare gusti e reazioni o esporci a letture completamente diverse su quello che crediamo di conoscere è la via più sicura per assicurarci che la visione collettiva non scompaia. Immaginare una visione diffusa non deve mettere paura a noi addetti ai lavori sempre così attenti a dimostrare l’importanza del nostro gusto e delle nostre scelte, anzi, dobbiamo sperare che sempre più persone si prendano la responsabilità di raccontare cosa hanno visto, a esempio, in The Tiger King. In questo fiorire di visioni collettive pubbliche non si forse cela un bisogno di condivisione a cui la maggior parte delle sale tradizionali non sa bene ancora come rispondere? È il momento giusto per una discussione su come rendere il pubblico più attivo, fuori dalla retorica dell’experience economy o di un collettivismo astratto.
Talking About Trees di Suhaib Gasmelbari è uno dei documentari più belli usciti l’anno scorso, ed è anche una delle testimonianze più vivide sulla dimensione pubblica del cinema. Il film segue un gruppo di registi sudanesi in pensione che cerca di riaprire un vecchio cinema all’aperto nonostante i cinema nel paese siano vietati da decenni. Quando fanno un sondaggio tra gli abitanti della zona per scegliere il primo film da proiettare e ovviamente vincono i titoli più trash della storia, i quattro cinefili non fanno una piega. In quel momento il cosa guardare è irrilevante perché qualsiasi film racchiude la promessa del cinema come esperienza sociale.
Rispetto all’impresa di far avvicinare un’intera generazione al cinema per la prima volta persino la ripartenza dopo una lunga quarantena è poca cosa, ma cerchiamo di non dare per scontato cosa vogliamo salvare. L’epidemia per il mondo del cinema non è opportunità, è un disastro, ma la traiettoria della ripresa dipenderà anche dalle responsabilità culturali e sociali che i finanziatori e gli organizzatori degli spettacoli vorranno prendersi. La popolarità degli streaming sociali, così come la fascinazione vintage-modernista per possibili drive-in urbani quest’estate, nutre un ottimismo per il futuro che forse è molto meno ingenuo di quanto si possa pensare. Non darà da mangiare a noi gestori ma ci rafforza il fatto che il cinema come luogo di condivisione di cultura ma anche di quella cosa imperfetta che chiamiamo socialità, sia un bisogno vivo che ancora non abbiamo finito di esplorare. Sperando che il settore pubblico prenda nota, noi possiamo iniziare a pensare a cosa troveranno le persone in una sala piena una volta superata la paura. Il cinema è sempre stato il mondo delle finestre sul cortile di altre vite, e forse questo è il momento di seguire l’invito di Nick Cave a riflettere su come raggiungerle con quello che facciamo.