Sulla didattica a distanza e gli impliciti universitari.
L’acceso dibattito attorno alla didattica a distanza, al quale il lavoro culturale sta dedicando ampio spazio, offre gli estremi per superare la vulgata binarista che oppone apocalittici (morte delle relazioni sociali, dei rapporti umani, del ragionamento collettivo, della comunità universitaria) e integrati (abbattimento di costi e spese per docenti, strutture e studenti, orizzontalità infine raggiunta, sconfinate possibilità di comunicazione e congiunzione di tutti con tutti). Credo sia impellente riaprire l’aut-aut e portare alla luce con forza, ognuno forte dei propri outeils à penser, la complessità di un discorso semplificato e livellato ben prima del Coronavirus e che oggi, sotto la spinta dell’emergenza sanitaria, rischia di ricacciare ancor più a fondo i propri impliciti, di spingerli al di sotto della soglia del culturale, ovvero di ciò che è relativo, costruito, e dunque trasformabile.
C’è un problema di gap – economici, sociali, culturali – che non ha certo creato il Corona, ma che la pandemia in corso ha messo spietatamente in luce. Rimanendo sul piano universitario, l’ha detto molto bene, e con grande onestà, Renata Pepicelli nel suo “L’università senza corpi”: la DAD richiede maggiore sforzo, ma questo maggiore sforzo grava in primis sui precari, in quanto non retribuito, come non è retribuito gran parte del lavoro che già facevano prima.
Il problema non è certo la tecnologia “spersonalizzante”. Il problema è che un docente a contratto è considerato lavoratore autonomo, e non parte integrante dell’Università cui afferisce. Beneficiario di una somma forfettaria, devoluta vuoi in un’unica rata, vuoi parcellizzata, tempo e energie necessari alla preparazione di lezioni bene fatte, ricevimenti, esami, sono affar suo; costi di alberghi, pasti e viaggi, sono affar suo; i vuoti fra un contratto (o un assegno) e l’altro, durante i quali persegue comunque i propri doveri verso l’istituzione, in mille forme, al fine di dare continuità alle funzioni di cui è incaricato, sono affar suo; le risorse impiegate a ideare e scrivere progetti di finanziamento, che come sappiamo sono un tiro di dadi, sono affar suo. Il problema è il progressivo ed esponenziale svuotamento delle istituzioni a favore dei “fornitori terzi di servizi”, la polverizzazione dell’identità lavorativa in miriade di prestazioni che insieme non fanno un lavoro, né dal punto di vista economico, né dal punto di vista dello status sociale, né dal punto di vista esistenziale, che non può che discendere dagli altri due.
Ugualmente, dal punto di vista degli studenti, lo scivolamento delle università, senza soluzione di continuità, da fucine di elaborazione e produzione dei saperi a sempre più asettici dispensatori di “competences & skills”, non è un problema sorto con la didattica a distanza. La vita universitaria in vivo soffriva di molti difetti e conflitti, alcuni esasperati dalla DAD, altri da questa paradossalmente smorzati: programmi serrati funzionali a laurearsi il prima possibile, con relativa contrazione di tempi e spazi per imparare a ragionare; corsi disomogenei, spesso decisi a tavolino al fine di mediare fra esigenze tra cui quella dell’efficacia pedagogica è solo una fra le tante, e mai fra le prime; piani di studio lasciati in toto alla scelta di giovanissimi, e dunque inesperti, con promessa di acquisire magicamente patentini per accedere a professioni brillanti e ben pagate; difficoltà dei fuori sede, inversamente proporzionali al tenore di vita delle loro famiglie, a sostenere i costi della vita studentesca, laddove le borse di studio sono sempre più ridotte e di difficile accesso e gli affitti, complice AirB&B e fenomeni annessi, sempre più rari e esosi (e qui il disagio è il medesimo dei precari).
Si tratta di una deriva della quale siamo tutti vittime, seppur ognuno proporzionalmente alla propria posizione. Ai vertici di Dipartimenti e Università ci sono entusiasti fautori dell’iper-produzione, oppure critici affranti e dispiaciuti: le responsabilità sono le stesse, questa volta di proporzione inversa al grado della scala che occupano.
Gli apocalittici preoccupati dalla smaterializzazione della comunità accademica apportano ragioni più che condivisibili ed esempi schiaccianti: docenti obbligati a inventarsi formati a cui non erano avvezzi e a fare molto più lavoro (e non meno, come potrebbe pensarsi) al fine di ottenere risultati spesso meno soddisfacenti; studenti che si sentono ancora più alienati e isolati, privati della possibilità di fare comunità e godere appieno dell’esperienza esistenziale e sociale che è quella universitaria; genitori esasperati dal ruolo di assistenti alla docenza di cui sono gioco-forza investiti, dalla mancanza di PC e dispositivi sufficienti a soddisfare insieme le esigenze di congiunti in smart-working con figli a gradi di formazione diversi, e infine spesso – chi l’avrebbe mai detto – dall’assenza proprio di quei dispositivi, o della connessione internet necessaria alla loro utilità.
Tali evidenze necessitano però di confluire nella constatazione che si tratta di una degenerazione di lungo corso – cui hanno concorso riforme nefaste, crisi economica, incapacità politica e intellettuale di frenare lo schiacciasassi turbo-capitalista – che le tecnologie possono avallare o contrastare. Il punto di partenza sono i gap che gravano sui lavoratori tutti e che l’università, per il semplice fatto che è l’ambiente che meglio conosco, mi spiattella ferocemente, da anni, di fronte agli occhi. Ci sono ricercatori, professori e amministrativi protetti da contratti pubblici a tempo indeterminato che, eccezion fatta dell’ultima istanza, il fallimento dello Stato, garantiscono loro serenità e decoro. Ci sono precari della ricerca, della docenza e dell’amministrazione perennemente umiliati e ammalatisi per via dell’incertezza e dell’angoscia di non sapere che ne sarà di loro dopo un anno, sei mesi, un mese.
E qui, di nuovo, grava l’ombra della logica binaria, da sfatare immediatamente. Non si tratta di fomentare l’ennesima guerra fra poveri o comunque intestina: questa sì sarebbe la piena vittoria della macchina capitalista, che lavora appunto per polverizzazione dei collettivi. Si tratta invece di elasticizzare i due corni, perfettamente speculari, che gravano sulle istituzioni tutte: assoggettamento al mercato e burocrazia ottocentesca. Si tratta di pretendere con forza che le stesse – università, scuola, ma anche azienda – si assumano in toto il dovere e la responsabilità di pensarsi e costituirsi come soggetto unico con obiettivi comuni, piuttosto che come eterogeneità disparata di singoli ognuno alla mercé delle proprie risorse individuali (o abilità competitive). Un soggetto all’interno del quale tutti hanno pari diritto alla serenità economica (poco o tanto ma certo e dovuto, e non estenuantemente elemosinato), a prendere parola e incidere tramite le proprie risorse e idee ai destini di quel “tutto” di cui sono un ingranaggio come gli altri.
Oggi è sotto gli occhi di tutti come la privatizzazione della sanità, i tagli sempre più ingenti al pubblico, la gestione personalistica se non spesso mafiosa delle cariche di rilievo abbiano messo in ginocchio un Paese intero: ricchi e poveri, senza medicina del territorio, si ammalano e muoiono soli come cani. Anche qui proporzionalmente a reddito e posizione, ma tutti, tutti son danneggiati dalla dissoluzione della cosa pubblica. E proprio in un momento in cui la politica naviga a vista, per improvvisazione e disarmante incompetenza, paradossalmente è forse possibile incunearsi fra maglie che mai son state così sfrangiate, far presente come lo stesso destino, e con effetti meno acuti ma altrettanto devastanti, grava sulla formazione e sulla ricerca.
Appuntiamoci un paio di cose, evitiamo che spariscano sotto sterili opposizioni, ripromettendoci di tentare di farne un progetto.
Prima di tutto, riportare al centro del dibattito universitario i diritti: al lavoro, alla casa, allo studio. Ricordare che l’università, come qualunque funzione sociale, è cosa pubblica, e che l’asticella non può e non deve scendere sotto quei diritti basilari. Ripartire i sacrifici proporzionalmente alle possibilità e responsabilità di ognuno, per il bene di tutti.
In secondo luogo, ricordare che non si danno tecnologie senza pratiche, e solo queste ultime sono buone o cattive, virtuose o deleterie. Anche i microfoni sono tecnologie, come le lavagne e tanto più i proiettori. Le lezioni e i convegni virtuali non sono un’alternativa a quelli de visu: questo sì sarebbe avvallare il trend atomizzante e alienante che non è certo la rete ad aver inventato. Sono invece un eventuale supporto, e a mio avviso prezioso, a format spesso stanchi, rigidi e inutilmente dispendiosi di risorse e energie.
Io non ho corsi durante questo semestre, e ho avuto solo due esperienze pertinenti al tema, una come relatrice e l’altra come auditrice, del tutto e pienamente positive. La prima è stata fra le più appaganti degli ultimi anni: enorme partecipazione, osservazioni e critiche costruttive, intenso scambio con e fra studenti durato quasi un’ora più del previsto, con virate che hanno attraversato antropologia e filosofia, esperienze personali e massimi sistemi, in un regime dialogico così serrato che alla fine era impossibile stabilire chi fosse il relatore, chi l’uditore, chi il moderatore. La seconda, idem. Da parte dei relatori, massima economia di etichette, formalità e tecnicismi, a favore di pensieri chiari, concetti puntuali, dialogo produttivo. Da parte mia, concentrazione e interesse alle stelle. In entrambi i casi, non ho potuto fare a meno di paragonare un simile senso di “rilassamento”, delle persone e delle loro modalità di rapportarsi, con la tensione che mi procurano convegni stipati di relazioni spesso ingessate, il cui ritmo serrato abbassa la mia soglia dell’attenzione al punto che a fine giornata provo solo insofferenza e rifiuto.
Credo che la riuscita felice della mia relazione e del convegno che ho seguito a distanza dipendano dalla congiuntura fra stato d’eccezione e tecnologia: il primo ha sollevato ognuno da formule e ruoli vissuti come incontrovertibili, la seconda ha offerto a tale miracolosa sospensione uno strumento d’espressione. Credo sia, più di tutto, l’esperienza d’arresto dell’ineluttabile che dobbiamo conservare e tentare di iniettare nell’imminente quanto incerto “ritorno alla normalità”. L’esperienza del fatto che quelle formule e quei ruoli non sono una seconda pelle, da accettare con rassegnazione, ma abiti stretti, rigidi e scomodi, che come tutti gli abiti, quando non sono né funzionali, né belli, né economici, si possono dismettere a favore di qualcosa di meglio.
Lo sforzo, il disagio e il surplus di lavoro richiesti a un docente per approntare la propria lezione online non sono di natura diversa da quelli richiesti a un comunicatore, in un qualsivoglia convegno, per confezionare una relazione sensata, puntuale ed efficace in un formato di dieci minuti, conscio peraltro che se sforerà e arriverà a dodici o quindici, il già scarso tempo di discussione con i colleghi verrà ulteriormente decimato. Problema di tempo, problema di spazio. Oggi sappiamo che non c’è niente di necessario in quei tempi e quegli spazi, in quella violenza alle persone, alle ricerche e ai saperi perpetrata da dispositivi che depotenziano tutti, a prescindere dalla posizione occupata nella piramide accademica.
Fra gli spunti propositivi emersi durante la tavola rotonda che il lavoro culturale ha dedicato al tema, c’è stato quello di pensare a una “didattica aumentata”, ovvero a una didattica (come a una ricerca) che attinga a tutti gli attrezzi della sua cassetta (reali e virtuali, materiali e immateriali) al fine di raggiungere i propri obiettivi nel modo più efficace possibile. Ciò che più di tutto dobbiamo rinegoziare sono questi obiettivi: docenti in condizione e in diritto di svolgere al meglio la propria funzione; ricercatori con finalmente accesso alla maggiore età, emancipati dall’ombra di un potere vago, fluido, poco collocabile e per questo tanto più annichilente; studenti accolti come soggetti attivi a tutti gli effetti all’interno della comunità che nutrono e da cui sono nutriti; istituzioni rimodulate al fine di facilitare, e non osteggiare, nobilitare, e non umiliare, il lavoro e l’esistenza di tutti.