“L’occhio della macchina”, il nuovo libro di Simone Arcagni.
Esce oggi in libreria L’occhio della macchina (Einaudi), il nuovo libro di Simone Arcagni. A partire dall’idea che le modalità della visione abbiano una propria storicità, l’autore prende in analisi l’occhio tecnologico contemporaneo, muovendosi tra l’Imaging, la Computer Vision, la Computer Graphics, la realtà virtuale e la realtà aumentata. Pubblichiamo un estratto del primo capitolo.
Abbiamo bisogno di una filosofia delle tecnologie informatiche che secondo Floridi «non modificano solo il modo in cui agiamo nel mondo; influenzano profondamente anche il modo in cui comprendiamo il mondo». E abbiamo bisogno, seguendo l’invito di Deleuze e Guattari, di un approccio «filosofico» alla tecnologia per indagare e rintracciare «il concetto filosofico che non è assolutamente dato nella funzione», in questo caso la logica dell’occhio della macchina. E allora partiamo da un semplice interrogativo: ma cosa vuole la tecnologia? E, nello specifico: cosa vuole la tecnologia dell’occhio computazionale? Se lo chiede, per esempio, Ed Finn nel suo volume Che cosa vogliono gli algoritmi?. L’autore ci introduce nel misterioso mondo degli algoritmi: ci mostra come l’uomo usi algoritmi per telefonare, per comprare, per guardare film e serie. Gli algoritmi sono una sorta di entità magica che sovraintende ai nostri processi culturali e alle dinamiche sociali che caratterizzano la nostra epoca. Un misto di Matematica e Statistica – “un metodo per risolvere problemi”, li definisce Finn – che fa andare il mondo… o meglio… che disegna il nostro mondo. Dagli algoritmi di Netflix a quelli di Siri, da Facebook alle app fino ai Bitcoin e Uber, Finn passa in rassegna, non solo una serie di tecnologie, ma soprattutto nuove pratiche che si disseminano nella comunicazione e negli spazi culturali e divengono logica culturale dominante. Viene allora da chiedersi: cosa vogliono gli algoritmi? Come ci vedono? Di cosa hanno bisogno? In fin dei conti già qualche anno fa Lev Manovich ci aveva introdotto nel mondo dei software avvertendoci che il nostro è un mondo di software che devono essere studiati, storicizzati, analizzati e conosciuti.
Ma quello che colpisce è anche l’idea che l’ingerenza tecnologica nella nostra società stia portando a uno sviluppo delle tecnologie tale non solo da determinare logiche culturali e immaginari nuovi, ma anche da imporsi con una volontà propria, come una sorta di indipendenza, quasi biologica, che nulla ha a che spartire con l’Intelligenza artificiale ma è quasi una “determinazione” delle tecnologie. Ciò che, in qualche modo, prefigurava il co-fondatore ed ex direttore di Wired Kevin Kelly con il suo What Technology Wants a cui, in qualche modo, il libro di Finn fa eco fin dal titolo.
Cosa vogliono allora le tecnologie di Kevin Kelly? E cosa “vogliono” le immagini del famoso saggio di William J. Mitchell What Do Pictures Want? The Lives And Loves Of Images… e cosa vuole il visivo computazionale? Intanto l’occhio del computer “vuole” perché respira la nostra aria, è presente, è il presente, è la dominante visiva, è lo specifico culturale. È l’occhio di quella che Floridi chiama “la quarta rivoluzione”, quella dell’Informatica che segna un cambio di paradigma, uno iato. C’è un neologismo che ben sottolinea questo scarto improvviso: disruption. Disruption . un termine che Clayton Christensen della Harvard Business School prende a prestito dal mondo della Biochimica cellulare, laddove Cell Disruption significa la produzione di cellule completamente nuove durante il processo di disgregazione cellulare. Disruption viene quindi a indicare qualcosa di persino più imponente di una semplice accelerazione o cambio di paradigma. Ritorniamo un momento a Floridi, quando afferma che:
[Le ICT] sono dispositivi che comportano trasformazioni radicali, dal momento che costruiscono ambienti in cui l’utente è in grado di entrare tramite porte di accesso (possibilmente amichevoli), sperimentando una sorta di iniziazione. Non vi è un termine per indicare questa nuova forma radicale di costruzione, cosicché possiamo usare il neologismo riontologizzazione per fare riferimento al fatto che tale forma non si limita solamente a configurare, costruire o strutturare un sistema (come una società, un’auto o un artefatto) in modo nuovo, ma fondamentalmente comporta la trasformazione della sua natura intrinseca, vale a dire della sua ontologia. In tal senso, le ICT non stanno soltanto ricostruendo il nostro mondo: lo stanno riontologizzando.(Luciano Floridi, La rivoluzione dell’informazione, Codice, Torino 2012, p. 13.)
L’occhio computazionale è all’interno proprio di questo processo. Non solo… dimostreremo che è l’elemento centrale di questo processo di «riontologizzazione».
Per rispondere, allora, alla domanda su cosa “vuole” l’occhio computazionale, dove per “volere” intendiamo quali significati esprime e quale impatto definisce, dobbiamo analizzarne i caratteri e spiegarne la logica intrinseca. L’occhio della macchina è, da una parte, la nuova logica entro cui si inscrive la stessa percezione del reale e, dall’altra, un fattore determinante nell’operazione di riontologizzazione del reale. Partendo dal fatto che metà del cervello sovraintende ai processi di elaborazione delle immagini e che circa il 70% dei recettori sensoriali sono presenti nella vista, la vista computazionale ha il compito di supportare questa immensa mole di dati visivi che il cervello elabora. E lo fa aumentando le capacità visive umane e inoltre affiancando un occhio sempre più potente e allo stesso tempo autonomo. Una vista che amplifica e che entra in simbiosi con quella umana e che è, inoltre, in grado di creare ambienti visivi multisensoriali di nuova concezione. La macchina che vede assomma a sé tutte le funzioni dei dispositivi ottici costruiti nel corso dei secoli, così come i canoni visivi elaborati nella storia, e inoltre guarda, riconosce, rielabora immagini in un sistema di tecnologie che evolvono in maniera esponenziale e di data che vengono implementati. La vista computazionale è anche lo strumento che permette all’uomo di maneggiare il visivo senza per forza doverlo vedere in prima persona, affidando questo sguardo “quantitativo” a macchine e algoritmi che lo funzionalizzano secondo le esigenze, limitando così il pericolo di un overload informativo. Dovremo, innanzitutto, definire la struttura concettuale storicamente determinata, indagare le logiche che determinano lo sguardo computazionale e mostrarne le articolazioni nel suo impatto con la realtà. E possiamo farlo iniziando il viaggio proprio dalla Visionica di Virilio, o meglio, dalla Computer Vision di David Marr.