Giulia Romanin Jacur intervista lo scrittore Marco Balzano.
Resto qui di Marco Balzano, uscito a febbraio per Einaudi nei Supercoralli, è stato finalista del Premio Strega. Il romanzo racconta di un paese del Sud Tirolo, Curon, messo a dura prova dal passaggio del fascismo, poi del nazismo, infine dalla costruzione di una diga della società Montecatini. Dove ora c’è il lago di Resia, un tempo sorgeva quel paesino di montagna.
Sullo sfondo dei passaggi della Storia vivono i protagonisti Erich e Trina, decisi a rimanere al di là di tutto. La voce narrante, quella di Trina, si rivolge a un tu che piano piano impariamo a conoscere: si tratta della figlia, la quale ha optato per un destino diverso. Marco Balzano, classe 1978 e già vincitore del Premio Campiello con L’ultimo arrivato (Sellerio Editore, 2014), partendo da fatti realmente avvenuti e riguardanti una zona d’Italia poco conosciuta, con una commistione tra lavoro di archivio e l’invenzione creativa del romanziere, dà vita ad una storia affascinante, con un messaggio che è quanto mai attuale.
Giulia Romanin Jacur: Partiamo da titolo e copertina, di grande impatto.
Marco Balzano: Inizialmente avevo intitolato questo libro Fino alla fine: mi sembrava che rendesse l’aspetto resistenziale della protagonista: una che fino alla fine resta, che fino alla fine pratica un’opposizione. Nelle mie intenzioni il libro è diviso in tre parti e queste costituiscono tre atti oppositori che si attuano attraverso la parola: una maestra clandestina, la fuga nelle montagne e la protagonista che diventa una sorta di ghost-writer del marito, per portare avanti la resistenza alla distruzione del paese.
Quando in Einaudi siamo arrivati alle fasi finali delle correzioni – lavori molto raffinati e non di sostanza –, mi hanno detto che secondo loro la parola chiave del libro era restare, e avevano proposto Io resto, ho tolto “io” e ho messo “qui”: Io resto qui mi sembra mio figlio che fa i capricci, mentre Resto qui fa sì che ad aprire sia il verbo. Dunque mi sembrava che il titolo fosse molto forte, anche perché da subito la copertina veniva di conseguenza, nel senso che ci doveva essere il campanile: è un’immagine troppo evocativa, troppo narrativa per non esserci. In casa editrice avevano proposto l’immagine del pontile che dà sul campanile, ma a me faceva “Baci Perugina”. Mi piace moltissimo il fatto che il titolo dialoghi con la copertina: il fatto che non ci sia un pontile, cioè un approdo, dà proprio l’idea di avere il coraggio di restare anche quando non c’e più niente. La copertina è affascinante perché se quel luogo lo conosci puoi dire: «bello, qualcuno che l’ha raccontato» e se non lo conosci non sai se l’immagine è un fotomontaggio o meno, e lì può scattare la curiosità di leggerlo.
G.R.J.: Un personaggio che rimane ancorato al proprio territorio suggerisce qualcosa al lettore, sembra parlare in modo particolare alla nostra generazione, quella degli anni Ottanta, come a dire, come a monito: «Guardate che c’è chi, in situazione di enorme difficoltà, è rimasto».
M.B.: Sono del ’78 e credo che il messaggio sia lo stesso diretto alla generazione degli anni Settanta come a quella degli anni Novanta. Questo è il mio quarto romanzo, gli altri tre hanno in comune i temi del lavoro, dei conflitti generazionali e soprattutto della migrazione: ci sono protagonisti che decidono di andarsene – scelta assolutamente legittima. La migrazione è un’invenzione dei media, non è una caratteristica esclusiva di questo presente, è una caratteristica propria dell’uomo che si sposta ed è la metafora dell’aspirazione ad andare dove si sta meglio e a poter mutare positivamente la propria sorte. Quindi, se andarsene e migrare è legittimo, è anche un gesto che attrae riflettori più di chi silenziosamente resta per cercare di cambiare le cose, faticosamente, dall’interno. A me andava per mille ragioni di cambiare, di esplorare la restanza, un po’ perché mi sembrava che i libri precedenti avessero chiuso un discorso sul tema dell’andare, un po’ perché volevo misurarmi con elementi diversi; pur rimanendo un’impronta civile, volevo scenari inediti: il Nord, la montagna, la figura femminile. Parlo dell’oggi anche quando racconto una storia che nell’oggi non è ambientata; credo che questo valga per chi ha l’ambizione di fare letteratura.
G.R.J.: La stessa Montecatini della miniera di Ribolla, che troviamo nei Minatori di Maremma scritto a quattro mani da Bianciardi e Cassola, minaccia le case degli abitanti di Curon nel tuo romanzo. Seppur si tratti di forma romanzo, mentre nel caso di Cassola e Bianciardi di forma saggio, si riscontra una grande attenzione alle dinamiche appartenenti alla Storia con la S maiuscola e a come queste abbiano avuto ripercussioni sulle vite delle persone.
M.B.: Il libro ha l’obiettivo di raccontare la dinamica tra progresso e popolazione, tra progresso e paesaggio. Questo tema attraversa tutto il libro e occupa esplicitamente la terza parte. In sostanza la domanda è: in democrazia ci interessa un progresso che passa così sulla testa delle persone? E quello che chiamiamo «progresso», sappiamo che non è mai progresso per tutti?
In questo caso c’è stata una distruzione totale per un progresso relativo e limitato nel tempo. A me come narratore interessa porre delle domande, non dare delle risposte, ma evidentemente la questione dialettica c’è; una storia in cui si racconta di una violenza e di un progresso che si attua in maniera molto subdola e scorretta, immorale. Penso che la gente, in quel preciso momento storico, non solo abbia subíto una distruzione e una minaccia fortissima, ma sia stata così stanca e prostrata da non reagire: a parte il parroco, Trina e suo marito non reagisce nessuno; questo lo trovo una metafora straordinaria: succede la stessa cosa quando, la maggior parte delle volte, ci sottraggono diritti, luoghi metaforici o reali e noi, soprattutto la nostra generazione, nel mentre twitta o sta su facebook. I contadini di Curon in qualche modo non si comportano diversamente, danno per scontato che anche quella volta la faranno franca, tanto c’è il prete, c’è dio, c’è la dittatura, c’è la guerra.
G.R.J.: Questo messaggio è stato recepito dalla critica e dai lettori?
M.B.: La critica ha accolto il libro molto bene e quella più attenta ha senz’altro colto questo aspetto; mi pare che il messaggio implicito sia passato a una buona parte di lettori. È forse una delle cose più belle che sono successe.
G.R.J.: Quindi in qualche modo non abbiamo fatto ancora i conti con il fascismo e il nazismo?
M.B.: Questa storia è la prova di come non abbiamo fatto i conti con nazismo e fascismo. Basta pensare che non sappiamo niente dell’Alto Adige, del Friuli, e qui si sono consumati fatti come le Grandi Opzioni. L’Alto Adige è l’unico luogo in Europa dove si sono susseguite entrambe le dittature; in Friuli ci sono state le foibe, di cui sappiamo sostanzialmente poco e quel poco è semplificato. Nei libri di storia su cui abbiamo studiato e su cui studiano e studieranno i nostri figli non se ne parla, è una parte rimossa e questo ci dà l’idea di quale forza abbia il fascismo e di quale difficoltà si abbia a farci i conti fin da dopo la sua caduta: se in Germania hanno avuto il tribunale di Norimberga, noi non abbiamo avuto niente di tutto questo: abbiamo fatto i conti con i coltelli, conti privati o le rese dei conti, abbiamo impiccato il duce a Piazzale Loreto, ma non ci siamo messi carte alla mano a prenderne atto. Questo romanzo racconta un po’ tutto questo e mi pare che l’agenda politica di oggi dimostri che non fare questi conti è molto pericoloso.
G.R.J.: La protagonista, Trina, che ha studiato per diventare insegnante di tedesco e durante il fascismo ha insegnato la lingua di nascosto a piccoli gruppi di bambini, percepisce la lingua italiana come la lingua del nemico, la lingua dei fascisti, al contrario di quella tedesca.
M.B.: Se pensi all’accoglienza che in tutto l’Alto Adige ha avuto Hitler, dovuta all’odio che hanno installato i fascisti, i quali con il primo dei provvedimenti hanno limitato a una determinata parte della popolazione di parlare la propria lingua, di insegnarla e di praticarla, capisci immediatamente perché evidentemente tutto ciò fa guardare invece con favore anche un dittatore come Hitler; fa molto male ma è fondamentale raccontarlo. Del resto qualsiasi dittatura si è sempre occupata di lingua, di estetica, di cultura.
G.R.J.: La protagonista è una donna che parla a sua figlia. Perché questo punto di vista?
M.B.: Per me è difficile razionalizzare la ragione, so spiegare più questa scelta come desiderio: da tempo volevo provare a scrivere un romanzo con una protagonista femminile in prima persona, quindi dire «io» ed essere una donna, perché ero convinto che questo mi avrebbe dato accesso a uno sguardo sulle cose costruttivamente diverso: materno, ancestrale, radicale in senso ampio. Andando più nel profondo si va a parare in regioni psicanalitiche: evidentemente l’idea di non avere accesso alla maternità, al parto, l’idea di raccontare tutto questo era un modo per me di mettermi alla prova, di esplorare, che è la cosa più divertente e che ti mette più a rischio.
G.R.J.: Sei partito anche da materiale d’archivio per creare un personaggio così reale e riuscito, quello di Trina?
M.B.: Per caratterizzarla, una testimone mi ha fatto vedere una foto di questa donna che si chiamava per l’appunto Trina, una donna di 84 anni che è stata una delle ultime a lasciare il paese (o perlomeno la leggenda dice così); in questi mesi è uscito un docufilm su questa vicenda e in realtà il regista, che ha scartabellato molto più di me, mi ha detto che la leggenda si è creata proprio a partire dalla foto. Dunque la testimone mi ha fatto vedere la foto di questa donna di 84 anni, una contadina con il fazzoletto in testa; nella foto c’è già il paese tutto allagato, c’e Trina in ginocchioni sul tavolo – l’acqua quasi al livello del tavolo, la foto è scattata dalla barca perché la stavano andando a prendere – con le mani arcionate al cornicione della finestra, con i vestiti bagnati. Quella era il personaggio che serviva, quella donna sta dicendo: «Resto qui». Un personaggio che doveva avere questa forza di restare a prescindere fino all’ultimo e doveva, pur essendo radicata al proprio luogo, avere radici forti e credibili che vengono dopo le sue radici affettive, che consistono in sua figlia: fino all’ultimo dice che se la figlia fosse tornata, lei se ne sarebbe andata.
G.R.J.: La presenza della figlia è nel vissuto reale del personaggio o è nella fiction?
M.B.: È assolutamente inventata, per ragioni tecniche: un espediente narrativo che mi sembrava forte e capace di superare le dinamiche da romanzo storico tradizionale con la narrazione alla terza persona e la cronologia; era una modalità che mi dava la possibilità di instaurare un discorso intimo ed epistolare. Se siamo io e te, genitore figlia, io ti racconto quello che voglio, come voglio, con la lingua che voglio, quindi tutto cambia.
G.R.J.: Come scrittore credi di avere affinità o comunanza di intenti con altri scrittori contemporanei? Penso a Giorgio Falco, per lo stile e l’attenzione rivolta alla dinamica tra progresso, territorio e personaggi, o a Cognetti, forse per un discorso generazionale e per la scelta di raccontare la montagna.
M.B.: Gli scrittori che hai citato sono due scrittori che mi piacciono; ma quella sul sentirsi in compagnia o soli è una domanda esistenzialmente e culturalmente molto impegnativa, perché in questo mondo iper-connesso si aprono molte porte e ci sono tante possibilità di connessione. C’è un territorio comune che è dato dal saper auscultare il proprio tempo e forse, dico forse, da un background culturale di riferimento che è parzialmente simile.
G.R.J.: La tua esperienza del Premio Strega?
M.B.: Mi hanno sempre fatto sorridere quegli scrittori che hanno partecipato al Premio Strega e dopo che hanno perso si sono messi a criticarlo, perché se sei in questo mondo sai che cos’e lo Strega e come funziona, sai che il peso maggiore è dato da ragioni extra-letterarie; sono contento che, per quello che riguarda le ragioni letterarie, il libro abbia avuto un grande successo tra i votanti e di essere stato l’autore che ha preso più voti da biblioteche, librerie, istituti italiani di cultura. Il libro è in classifica da quando è uscito e lo stanno traducendo in tantissimi paesi; queste sono per me una serie di grandi conferme.
G.R.J.: C’è qualche lettura che ha accompagnato la scrittura di Resto qui?
M.B.: Un libro che è stato alle spalle di Resto qui è L’Agnese va a morire di Renata Viganò, perché e un libro che non solo rimette in gioco il tema della Resistenza facendo sì che si che si irradi da una donna, ma è proprio un libro di cui sappiamo sin dal titolo, come Resto qui fin dalla copertina, che l’Agnese morirà, che il paese verrà distrutto. Dunque non ci interessa la fine, ci interessa il percorso; lei sa di morire ma va; e non è un’Agnese, ma è l’Agnese, esattamente questo. Il Neorealismo è una stagione letteraria che racchiude i più grandi nomi del Novecento e li abbiamo archiviati tutti molto in fretta, perché evidentemente avevano aperto una discussione su cos’erano stati il fascismo e il nazismo; alcuni li abbiamo molto ingiustamente dimenticati, penso per esempio a Pratolini, Cassola; altri li stiamo faticosamente rimettendo in gioco – penso a Bianciardi, anche se spostato un po’ più avanti nel tempo –, o alla Ginzburg, o ancora a un determinato Calvino che è stato oscurato da un solito Calvino, che ha avuto la meglio semplicemente perché generalmente uno degli ultimi libri che hanno letto i professori di 50, 60 anni.
Dunque nel presente c’è chi ha portato avanti dei lavori di questo genere, o chi lo sta facendo; mi interessa riabitare e ri-esplorare il Neorealismo, perché così come per i neorealisti il periodo da attualizzare era quello che stava alle loro spalle, lo stesso procedimento può valere per adesso: per prendere tutto un periodo che va fino alle soglie del duemila e la generazione precedente non ha assolutamente guardato. L’interesse a considerarlo è ovviamente per vedere che legami ha con l’oggi e come rimette in gioco l’oggi, perché una storia che non ha collegamenti con l’oggi non è una storia che secondo me ho interesse di raccontare: è il passato e non è la memoria. La memoria ha ricadute evidenti, il passato è archiviato.