Christian Boltanski, i fantasmi e il tempo

Animitas alla Biennale di Venezia.

I futuri del mondo sono stati il tema della Biennale di Venezia di quest’anno. Ma che cos’è un futuro e qual è la temporalità dell’arte? L’analisi di un’opera di Boltanski offre l’occasione per riprendere tali questioni e rilanciarle nell’ottica di una imprevedibile emancipazione che l’idea di avvenire porta con sé.

Rimane necessariamente ambiguo e sospeso il titolo della Biennale che si sta chiudendo a Venezia, All the World’s Futures, se non forse inteso come un’esortazione o una formula propiziatoria – o meglio come un semplice augurio – per un mondo in cui vi siano molteplici occasioni di senso che quanti più viventi possano percepire e condividere, piuttosto che rigide imposizioni di significato. Niente di più? Si potrebbe chiedere. Niente di più, ma anche niente di meno. Del resto, difficile è anche immaginare cos’altro possa venire dall’arte – ammesso che il solo chiederselo sia di una qualche utilità.

Ma è innegabile che, in questo titolo, vi sarà stato anche qualcosa come un’attesa e una promessa, che l’ostentato riferimento a Karl Marx lungo tutto il corso dell’esposizione lascia trasparire nella sua problematica potenza – perché è chiaro che è sempre di una qualche emancipazione che si tratta. Indeterminata, certo, ma nell’arte ne va sempre – in modi complessi, magari non immediatamente chiari e spesso contorti – dell’emancipazione. Andare oltre il dato, la finalità e il significato, allora, aprirsi e impegnarsi, oltre l’insopportabile e l’immondo, verso ciò che viene e che resta imprevedibile e indeterminato – non è questo che lega i futuri (auspicati) del mondo all’arte? E dunque, in termini diversi, a un certo modo (tutto da fare, tutto da pensare) di intendere la politica?

Il futuro richiama inevitabilmente una sorta di messianicità – e a maggior ragione, dunque, tutti i futuri del mondo. A patto, però, di aggiungere che «il messianico, ivi comprese le sue forme rivoluzionarie (e il messianico è sempre rivoluzionario, deve esserlo) sarebbe l’urgenza, l’imminenza, ma anche, paradosso irriducibile, un’attesa senza orizzonte di attesa».[1] E se l’angelo della storia – scriveva Benjamin – ha il «viso rivolto al passato», ma è spinto da una tempesta che spira dal paradiso verso il futuro, tanto da non potersi trattenere per «destare i morti e ricomporre l’infranto»,[2] su un altro piano la temporalità dell’arte è non meno paradossale, articolata, eterogenea, e ossessionata dai fantasmi.

Ne sa qualcosa Christian Boltanski che ha costruito tutto il suo percorso artistico attraverso i tempi della memoria, il recupero impossibile di chi non c’è più, l’unicità di ognuno che si smarrisce all’entrata nel novero dei morti, il perdurare della traccia, il dovere della testimonianza. In quest’edizione della Biennale, l’artista francese è presente, tra l’altro, all’Arsenale con Animitas (2014), una video-installazione della durata di ventiquattro ore. Ripresi da una videocamera posta a un metro da terra su una spiaggia cilena nel deserto di Atacama si vedono centinaia di steli metallici oscillanti, sui quali sono state poste delle piccole campane giapponesi; al battaglio, con un filo, sono appese delle strisce trasparenti le quali, mosse dalla minima variazione del vento e dell’aria, fanno tintinnare le campanelle. In lontananza il riflusso e la spuma delle onde e, prima, spiaggia e bagnasciuga sotto un cielo che s’indovina immenso, e ancora: colline color ocra che si susseguono senza soluzione di continuità in una terra arida di pietre, sabbia ed erbe secche. Nessun albero, nessun uomo. La minima variazione di luce è un piccolo evento. Il suono delle campanelle, il fragore del mare e il rumore del vento creano un’atmosfera ipnotica, ma non di sogno. Tutto in questa installazione sembra ancorare al reale lo spettatore, accantonando ogni motivo di distrazione. Una nudità quasi oscena della natura viene esibita in una resa poetica, sublime. Davanti a quest’opera, infatti, l’immaginazione non ha corso, subisce un arresto. È vero che gli steli e le campanelle sono manufatti, che dunque indirettamente richiamano la presenza dell’uomo, ma anche questi sembrano perdere la loro funzione di mezzi e diventare parte di ciò che li circonda, inghiottiti da forze geologiche, telluriche e meteorologiche. Un’estrema riduzione e lentezza s’innalzano a una strana fastosità. È un vuoto, nel contempo, splendido e inquietante. Da perdersi.

Questo è quanto si può vedere. Poi si aggiungono altre informazioni da fonti diverse. Anche dallo stesso artista, ma non solo. Dove inizia e finisce un’opera d’arte? Basta a se stessa? Oppure le notizie ulteriori sono anch’esse parte dell’opera? Cos’è dentro e cos’è fuori l’opera? Che cosa permette al fruitore di fruire senza sovra-determinare di un significato altro quanto si dispiega con l’opera? Ci viene detto, ad esempio, che Boltanski ha lavorato a stretto contatto con i membri della comunità indios del luogo (Talabre, San Pedro de Atacama), e precisamente nei pressi del vulcano Láscar, il posto dove l’inquinamento luminoso è praticamente inesistente e le stelle sono di conseguenza più visibili. E ancora: che gli steli non sono conficcati a caso sul terreno, ma che intendono riprodurre la posizione delle stelle nell’emisfero australe la notte in cui è nato l’artista, il 6 settembre 1944 (per inciso, a quella data stava volgendo al termine la Seconda Guerra Mondiale con tutto il suo carico di morte); e che è proprio nel deserto di Atacama che Pinochet gettava i corpi degli oppositori torturati e uccisi dal regime perché nulla restasse di loro; i familiari torneranno molti anni dopo in quei luoghi alla ricerca delle ossa dei loro congiunti. Non a caso, animita («piccola anima», in spagnolo) è un termine utilizzato in Cile per indicare un luogo popolare di venerazione, di memoria e di culto situato solitamente lungo le strade dove sono accaduti incidenti. Riaffiora, dunque, ma questa volta in una modalità meno immediata e diretta, una delle costanti dell’intera opera di Boltanski, e cioè l’ossessione per l’autobiografia ogni volta mia e altra, dove verità e finzione si mescolano inestricabilmente, e inoltre il ricordo e la paziente ricostruzione delle tracce del passaggio sulla terra di chi è morto, ciò che rimane di chi se n’è andato travolto dalla violenza ottusa della storia. La video-istallazione, dunque, si riempie di spettri, la musica delle campanelle è, insieme, armonia delle sfere e canto non vivo e non morto di chi ritorna in modo appena percettibile dall’oblio. Ecco, come afferma lo stesso artista, che questo luogo si fa carico di un duplice peso al limite del tollerabile per un essere umano: l’idea dell’infinito e l’idea della morte.

Si riallacciano dei fili che si credevano irrelati, distanti. Il cielo dall’immensità inumana cortocircuita con la configurazione stellare della notte natale di un individuo unico. Una data collega un deserto sudamericano, dove la natura regna sovrana, all’Europa e al mondo della guerra e della Shoah. Il presente sempre uguale e sempre diverso della ciclicità naturale viene attraversato dalla linea di un passato prossimo che porta con sé i misfatti di una dittatura. La bellezza selvaggia si unisce all’orrore. Non c’è un significato riconoscibile alla base di quest’opera, ed è questo a renderla, appunto, un’opera. Piuttosto, diversi sensi e livelli entrano qui in un conflitto che disloca costantemente la certezza di un significato univoco e acquisito. Tempo naturale, tempo cosmico, tempo umano e tempo storico sono uniti senza costituire alcuna sintesi. Un desiderio di riscatto e un’impossibile redenzione aleggia nel vento che muove queste campane.

È di questi giorni la notizia che il fenomeno climatico detto El Niño, solitamente causa di inondazioni e siccità in gran parte dei paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico, ha provocato invece nel deserto di Atacama un’improbabile quanto prodigiosa fioritura. La siccità che si vede nella video-installazione è stata trasformata per un periodo limitato in una distesa vegetale dai colori vivaci. Il fiorire dell’arte avviene così, sempre altrove. Non è la natura che imita l’arte, né viceversa. È la vita che, nonostante tutto, non cessa di sorprenderci.

Note

[1] Jacques Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, trad. di Gaetano Chiurazzi, Raffaello Cortina, Milano 1994, p. 211.

[2] Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, trad. e introd. di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1962, Tesi 9, p. 80.

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