Abbagliati dalla luce

Pubblichiamo un estratto dal libro di Luca Giudici dedicato a Bruce Springsteen. 

In generale, nella musica moderna, almeno a partire dagli inizi del Novecento, il rapporto tra registrazione e live act è un indicatore molto preciso delle dinamiche esistenti tra opera, artista e fruitore.

Possiamo identificare il fulcro di questa relazione nello sviluppo della tecnologia necessaria a imprimere i suoni su un supporto, così da renderli riproducibili ogniqualvolta lo si desideri.

Il fonografo di Thomas Edison, che registrava su cilindri, e il disco rotante di Emile Berliner, suo diretto concorrente, nascono verso la fine dell’Ottocento. Entrambi gli inventori vedevano per la loro tecnologia un possibile futuro nel mondo degli affari e della comunicazione, piuttosto che nella musica. L’invenzione del fonografo avviene più o meno parallelamente ad altre – come il telefono, la macchina fotografica, il kinetoscopio e il cinematografo – globalmente definite come appartenenti a un unico processo, detto di esternalizzazione, attraverso il quale l’uomo delega a un mezzo meccanico una sua capacità o una sua funzione. Questo processo è tutt’altro che indolore.

Le testimonianze che ci sono pervenute circa le prime occasioni in cui furono fatte ascoltare al pubblico delle registrazioni su rullo di cera sono per noi – oggi – incredibili. Le persone erano terrorizzate e questi fenomeni venivano visti come il risultato di un’azione demoniaca. La possibilità di far rivivere la voce dei morti ne era sicuramente l’aspetto più scioccante.

Ho ascoltato il fonografo, e sono rimasto impaurito […]. L’uomo diventa troppo grande. Il cristiano si chiede con angoscia fino a quando la mano di Dio lo lascerà elevarsi? […] Con il suo fonografo ha trovato il modo di far durare la parola umana; egli fa parlare le creature insensibili, la cera e il metallo. Prodigio ancora più inquietante, una scienza empia può, anni dopo la sua morte, riprodurre la voce o il canto di un uomo al quale Dio ha tolto la vita: essa sa far parlare i morti. Il pensiero resta agghiacciato dallo spavento. […] Queste invenzioni diaboliche non sono il segno che annuncia la fine? 1

Per quanto riguarda la musica, fu solo nei primi decenni del secolo seguente che l’uso artistico e commerciale della riproduzione iniziò a diffondersi fuori dalla ristretta cerchia dei tecnici per raggiungere le platee più popolari, parallelamente alla nascita della radio e alla diffusione del cinema. Interessante è la ricostruzione che ne fanno i fratelli Joel e Ethan Coen nel loro film – del 2000 – O Brother, Where Art Thou?, ambientato nel Mississippi alla fine degli anni Trenta del Novecento. Vi si evidenzia il rapporto diretto tra la musica, la sua funzione e i suoi fruitori, proprio grazie alle prime trasmissioni radiofoniche e alle prime registrazioni. La musica è centrale per tutta la durata della pellicola, fondamentale nella vita di tutti i personaggi e in particolare nelle cerimonie religiose, nelle feste e in tutte le situazioni dove primarie sono le relazioni umane. La musica funge da catalizzatore delle emozioni e diviene salvifica quando è eseguita dal vivo, mentre – non a caso – quando è trasmessa via radio o registrata (pur avendo successo) rimane come anonima e scollegata dalla materialità quotidiana.

Già nel 1927 Theodor W. Adorno, riferendosi alle incisioni, lamentava la perdita di qualità e di precisione nelle registrazioni su ceralacca proprie di quel tempo:

Con l’impiego della plastica e dell’amido le registrazioni si perfezionano. Tuttavia, la finezza del colore, l’autenticità del suono della voce, si affievoliscono, come se il cantante fosse sempre più distante dall’apparato di registrazione. I dischi […] si logorano più rapidamente di quelli vecchi […].2

Sono parole incredibilmente simili a quelle che (nel 1982) segnarono l’avvento del compact disc e successivamente (dal 1995) dell’MP3 e del suono digitale. Si può quindi affermare che la storia della riproduzione sonora è la storia di una nostalgia, della distanza che s’interpone tra un’origine archetipica e un fruitore (forse troppo) stereotipato? La nostalgia è l’anelito per il suono puro, per un modello ideale e perduto a cui il suono registrato tende incessantemente. Questo fenomeno, questo sentimento che ci porta a rivolgere lo sguardo al passato è trattato dettagliatamente nel volume Retromania di Simon Reynolds. Il critico musicale britannico, amico dello scomparso filosofo Mark Fischer, sulla scia del suo pensiero collega la nostalgia che per ciò che è stato alla nostra capacità di riprodurlo e riproporlo. Secondo Reynolds, esercitiamo la nostra ossessione sul passato nel desiderio di mantenerlo sempre presente, impedendo così alla memoria di agire come filtro selettivo. Il risultato è un piano temporale infinito senza alcuna distinzione, che tutto appiattisce: un eterno presente, insomma, in cui la continua reiterazione del passato (continuamente attualizzato) tende a decretare la morte stessa del futuro, della costruzione di novum.

La nostalgia, quindi, è una narrazione di protezione, una strategia messa in pratica per placare quest’ansia, la paura della perdita del controllo sulla nostra vita, il dissolversi dell’identità nella moltitudine degli archivi.3

Il testo di Reynold è complesso ed estremamente ampio nella sua indagine: limitiamoci qui a questo spunto che riguarda il concetto di nostalgia, perché in effetti si applica perfettamente al rapporto tra versione live e versione in studio, tra originale e remix.

Nel 1982, quando Bruce Springsteen registrò Nebraska da solo a casa sua su di un Teac 4 piste,4 il tecnico del suono e produttore Chuck Plotkin disse:

Il problema era che il demo era buono, e la maniera in cui noi lavoravamo in studio al materiale di Nebraska era quanto di meglio si potesse fare, eppure i pezzi perdevano smalto. Erano meno toccanti sul piano emotivo, risultavano meno sinceri. Non c’era niente da fare, toglievamo qualcosa all’originale, lo sminuivamo.5

Lo stesso Springsteen commenta:

Tutti gli artisti famosi si trovano a dover decidere se fare dischi o fare musica. A volte, se va bene, non c’è differenza. Quando impari a registrare i tuoi pezzi, da un lato ci guadagni, ma dall’altro ci perdi. La spontaneità di una voce disinibita cede il passo alla formalità di una presentazione. Con certi album rischi di distruggere l’essenza di ciò che hai fatto.6

Ecco dunque che la distanza tra il momento della registrazione e quello della fruizione, dell’ascolto, si traduce psicologicamente e sensibilmente in un vuoto, una mancanza. La nostalgia non è solo per il suono archetipico, ma anche per la tecnica, per i sistemi riproduttivi di un passato più o meno recente. Quando il vinile fu soppiantato dai CD non era affatto un mezzo sfruttato da lungo tempo e ormai esaurito nelle sue potenzialità, aveva appena venticinque anni di vita, essendo stato inventato nel 1957 e commercializzato negli anni a seguire. Lo stesso si può dire per i CD che scompaiono travolti dallo streaming audio, così come sta succedendo a VHS, DVD e BR surclassati dallo streaming video, dalla nascita di Netflix e delle TV on demand. Assistiamo però oggi al ritorno del vinile e dei suoi estimatori. Il trend beneficia di un mercato che va ben oltre l’estetica vintage, con numeri in continua e costante crescita.

Nel 2006 negli Stati Uniti sono stati venduti novecentomila dischi in vinile […]. Da allora […] le vendite in vinile sono aumentate del 20 per cento ogni anno, per arrivare ai venti milioni del 2015.7

Nel solo 2015 le vendite sono aumentate di oltre il trenta percento rispetto all’anno precedente e ogni anno si registra un ulteriore incremento a due cifre. Il fenomeno non è limitato ai collezionisti, è esploso anzi tra gli adolescenti (nonostante costi decisamente alti, per questo target) ed è diventato addirittura un brand da edicola. È quella che David Sax chiama The Revenge of Analog, e si riscontra in molti settori: tecnologia, abbigliamento, arredamento eccetera. È l’attuazione del concetto di Retromania di cui parla Reynolds, che sostiene la storicità di questo processo, e quindi la sua contingenza. A questo punto è chiaro che, nel rapporto tra musica e utenti, sono determinanti non tanto la forma e i supporti della riproduzione quanto la registrazione, la riproducibilità stessa, che ha cambiato in modo irreversibile il rapporto tra le persone e il mondo dei suoni: attraverso poi le differenti modalità di trasmissione (radio, televisione, internet), vi si aggiunge anche la possibilità di una diffusione mondiale. Un suono che prima poteva essere ascoltato solo nel momento in cui era emesso dallo strumento (la voce umana è chiaramente il primo degli strumenti), e che rappresentava in quella sua epifania un’emergenza unica, ora è fruibile, riproducibile e trasmissibile a piacimento.

La storia della notazione musicale, ovvero dell’idea di poter memorizzare e comunicare un suono, è antica quanto l’uomo. È però l’avvento della registrazione a far sì che non sia più neppure necessario saper leggere una partitura, o suonare qualsivoglia strumento per produrre il suono. È sufficiente ascoltare, e magicamente di fronte a noi avverrà il miracolo, e la relazione emozionale legata a ogni particolare sonorità tornerà ad agire e a far presa sul nostro cervello di ascoltatori, ripetendosi ogni volta, sempre identica a sé stessa. Il potere di influire sulla nostra vita che è contenuto nelle note di uno strumento transita così da un individuo reale, il musicista, a un supporto che replica ad libitum i suoni che decidiamo di sentire. Si ha perciò l’introduzione di una distanza sia spaziale che temporale tra chi suona e chi ascolta, e questa frattura è sempre più incolmabile. Di fronte a questa potenza della tecnica ci dobbiamo quindi chiedere se davvero si conclude così, con questa cesura irrimediabile (dal preciso carattere mitologico) la relazione tra musicista e ascoltatore? Davvero non esiste altro ascolto che l’eterna nostalgia di una musica originaria?

È la partecipazione innata e istintiva che tutti proviamo per la musica che ci spinge a contrastare il tecnicismo eccessivo, e difatti è sempre maggiore l’apprezzamento che riscuote la musica dal vivo. Già il nome stesso è indicativo del valore che le è attribuito. Il concerto è live (vivo), in opposizione alla registrazione che è – evidentemente – morta, oltre che mortifera: questo, come si è visto, era stato chiaramente percepito dai primissimi che sono venuti a contatto con gli strumenti di registrazione, e quanto più il pubblico percepisce questa specificità, questa anomalia, l’eventualità di ciò che sta accedendo, tanto più vi partecipa e se ne appropria. È per questo che la dimensione live nella musica di Springsteen (ma il principio vale per qualsiasi tipo di musica e di artista) non è soltanto un valore aggiunto, ma le è sostanziale, ne è fondamento. Springsteen ne ha piena coscienza e in un importante passo dell’autobiografia – mentre racconta del suo stato d’animo prima e durante il famoso concerto all’Hammersmith di Londra del 1975, il suo primo in Europa, suggello del riconoscimento mondiale che andava conquistando – fa emergere proprio questa relazione tra l’identità dell’artista e il suo costituirsi nella relazione con il pubblico:

È come se in un determinato istante sentissi la tua vita sotto scacco: il tuo piccolo castello di carte, l’«io» artistico che ti sei costruito con tanta meticolosa cura, la maschera, il costume, il travestimento, la tua identità da sogno, tutto questo rischia di sfaldarsi, di crollare. Un istante dopo, eccoti volare alto, profondamente immerso nel tuo «io» autentico, elevando la musica della tua band al di sopra della gente qui riunita. La distanza tra questi due io è spesso infinitesimale. È ciò che lo rende così interessante, è per questo che il pubblico paga il biglietto, ed è per questo che si dice: «DAL VIVO». Per tutta la vita ciascuna performance conserverà una traccia di questo arco, insieme alla possibilità di un fallimento catastrofico o di un successo clamoroso. Ogni sera, o quasi, ti aggrappi al punto di incontro tra il vertice e la base dell’arco… ma quando la parabola è troppo ripida… devi tenere duro, perché può succedere qualsiasi cosa, e non è una sensazione rassicurante.8

Gli elementi che ritroviamo qui in una singola frase ruotano tutti intorno ai temi che stiamo trattando: l’illusione, la maschera, l’identità, la musica dal vivo, l’irruzione dell’attimo, il desiderio e la sua mercificazione, ma soprattutto l’inquietudine estrema che tutto ciò comporta, il senso di perenne tensione ed equilibrismo a cui l’artista si sente soggetto, vittima e trionfatore di un gigantesco meccanismo. La musica dal vivo perciò – come conferma egli stesso – riproduce l’istante kierkegaardiano in cui l’eternità irrompe nel tempo, in cui la storia (il tempo lineare) non è più semplice successione di eventi ma mitologia: e così, la vita spezzata di ogni Mary no flowers no wedding dress diventa l’epifania di ogni donna, e permette all’ascoltatore di riappropriarsi di un rapporto autentico e originario, perduto nel tempo, con il mondo e la vita stessa. Con le parole che gli poteva dettare la musica, piuttosto che la riflessione filosofica, nell’autobiografia scrive:

Il Tempo. Non avevo tempo per il tempo, preferivo il meraviglioso mondo atemporale che avevo costruito dentro la mia testa e dentro lo studio! Oppure sul palco, dove il tempo io lo domino, lo allungo, lo accorcio, avanti e indietro, lo accelero e lo rallento, il tutto con un cenno della spalla e un colpo di rullante.9

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Note

  1. A. Leroy-Beaulieu, La Révolution et le Libéralisme, Hachette, Paris, 1890, pg. 326 cit. in Mario Costa, L’uomo fuori di sé. Alle origini dell’esternalizzazione. La fotografia, il fonografo e il telefono nella Parigi del XIX secolo, Mimesis, Milano 2018, p. 92.
  2. Theodor W. Adorno, Volteggi della puntina, in Long Play e altri volteggi della puntina, a cura di Massimo Carboni, Castelvecchi, Roma 2012, p. 15.
  3. Francesco Guglieri, La nostalgia per curare il mal d’archivio, “IL Magazine”, marzo 2017.
  4. Gli aspetti aneddotici di quelle registrazioni, così come quelli tecnici, sono stati raccontati in diverse pubblicazioni. In particolare, faccio riferimento a Greg Milner, Alla ricerca del suono perfetto. Una storia della musica registrata, Il Saggiatore, Milano 2016, pp. 209 – 210.
  5. Cit. in Nebraska. Bruce Springsteen, a cura di Leonardo Colombati, Sironi, Roma, 2012, p. 13.
  6. Bruce Springsteen, Born to Run, Mondadori, Milano 2016, p. 318.
  7. F. Guglieri, La nostalgia per curare il mal d’archivio, op. cit.
  8. Bruce Springsteen, Born to run, op. cit., p. 245.
  9. Ivi, p. 290.
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