Battaglie, lotte, guerriere, vittorie e sconfitte: malattie, metafore… malattia.
«Come la definisco? Hai presente la Prima guerra mondiale? È una guerra di trincea. Avanzi, lanci un attacco lampo alla linea del nemico, e ti ritiri nel tuo buco, sperando che non sia tu, quello che deve retrocedere. È una guerra di trincea e il nostro esercito sta perdendo».
È un martedì di dicembre, sono di guardia, non sulla linea del fronte, non in missione, ma nell’ospedale in cui lavoro come chirurgo, in una grande città del nord Italia.
M. non è un soldato, M. ha 28 anni, ricoverato per carcinoma fibrolamellare, un tumore del fegato che colpisce soprattutto i giovani. Secondo trapianto epatico, il primo da bambino, resezioni epatiche multiple, nuove recidive, nuove resezioni, questa volta epatiche, diaframmatiche, ileali e polmonari. La prognosi non è buona, lo sappiamo tutti, lo sa lui.
Sono le sei di sera di un martedì di dicembre e il nostro esercito sta perdendo una guerra di logoramento che già ha logorato il logorabile, fisicamente e mentalmente. Lui sta perdendo. Io sto perdendo. Tutti stiamo perdendo quella guerra. Il paziente. I chirurghi. La famiglia.
Non abbiamo lottato abbastanza.
La malattia è un’entità misteriosa ai più, spaventosa per quasi tutti. Come parlare di una cosa tanto oscura e minacciosa? Che tu sia paziente o medico il discorso si riduce sempre a due paradigmi: lo strettamente tecnico o l’ampiamente metaforico.
Il tecnicismo riduce tutto a puro dato, e un dato, un numero, non urta, non può provocare sentimenti o dolore: fa male il 5% di sopravvivenza a 10 anni? Non fa niente: non riesci neanche a immaginarlo. Per il medico è un modo per semplificare il problema clinico, scomporlo e rendere più semplici diagnosi e terapia, ma anche, a volte, per crearsi una protezione, una giusta distanza tra sé, il paziente e la sua malattia. Per il paziente, l’incontro col dato spesso confonde, lascia tutto in una nebbia che può essere benefica, o per lo meno si è tentati a crederlo: se non so esattamente, posso fare finta che sia meno grave.
La metafora, invece, semplifica concetti che crediamo di non essere in grado di spiegare e aiuta a nascondere certi aspetti a cui anche solo pensare è insopportabile: occulta la parola, cela il nome della malattia, che diventa un brutto male, un «abbiamo trovato qualcosa». Qualcosa cosa? Qualcosa.
Per alcuni, invece, diagnosi precise, parole che indichino esattamente cosa c’è e cosa si farà, sono rassicuranti. Se il problema è individuato, concreto, nitido, ordinato – e quindi nominato – si può proseguire verso una soluzione. Ma quanti pazienti chiedono di non sapere? Quanti «non mi dica nulla di più, non voglio sapere niente» vengono pronunciati, ogni giorno, negli ambulatori?
La metafora come talismano: fino a che non la nomini, la malattia non esiste, fino a che ti comporti in un certo modo, hai il controllo. Ma quali metafore vengono usate? Tante, e diverse: la patologia come un viaggio, una punizione divina, o una prova voluta da qualche dio, un cambiamento, un fiume che scorre, e così via. Ma, fra tutte, quelle guerresche sono sicuramente le più pervasive. Da un lancio Ansa del 13 agosto scorso: «Addio a Nadia Toffa, la guerriera con il sorriso. A 40 anni perde battaglia col cancro».
Un giovanissimo medico condotto, al suo primo incarico nella steppa ad occuparsi, da solo, di tutto, col terrore di non essere capace a fare niente – terrore comune a chiunque alle sue prime guardie –, scriverà: «Mi sentivo vinto, distrutto, schiacciato da un destino crudele. Mi aveva gettato in questo angolo sperduto e mi aveva lasciato a combattere da solo, senza nessun aiuto o indicazioni». Il dottore come capitano scelto contro temibili nemici invisibili.
Ma non devi per forza essere un bravo medico e genio della letteratura come il sopracitato Mikhail Bulgakov (Memorie di un giovane medico, 1925) per avventurarti nel parlare di malattia come guerra. Anzi, il sopracitato bravo medico e genio della letteratura incappa qui in un errore che i bravi romanzieri non commettono e i medici invece sì, e spesso: utilizza una metafora trita, usurata, noiosa. Parole scontate, aggettivi prevedibili. Se sono batteri, sono nemici invisibili. Se è una malattia che non dà sintomi, è un killer misterioso. Se sei malato e reagisci, stai lottando: sei un guerriero. I farmaci sono sempre armi contro la patologia.
La malattia che più di tutte è stata sovraccaricata dalla bardatura della metafora è il cancro. E anche qui, fra tutte le scelte, il campo della guerra è quello più frequentato. Basta fare una rapida ricognizione degli articoli di stampa di questa estate: due malati oncologici, tante polemiche sul modo in cui è stata comunicata la malattia – polemiche che si riducono poi a una: è corretto parlare delle cure contro il cancro come una lotta? Si vince mai? E si può dire, vincere? È corretto dirsi o dire guerrieri? E quale e quanta attenzione dovrebbero utilizzare gli operatori sanitari, i medici, gli infermieri, ma anche i media, quando fanno ricorso al lessico militare discutendo di una malattia?
Metafore e cancro e guerra hanno inoltre una doppia associazione: non solo le parole del mondo militare sono usate per parlare di cancro, ma “cancro” diviene anche sinonimo di qualcosa di terribile contro cui bisogna combattere in altri campi: il cancro della droga, il cancro della cattiva politica e altri infiniti esempi.
Gli studi di linguistica, da Lakoff in giù, ci dicono che non solo la metafora esprime il pensiero e la forma dei nostri ragionamenti, ma può guidare le nostre azioni. Quali azioni guida una metafora violenta? Se il cancro diventa un’invasione, se tutto è una battaglia, se abbiamo armi da usare, siamo soldati, e poi vittime, e poi reduci o caduti.
Visto che il corpo è ritenuto oggetto di un attacco, l’unica cura è il contrattacco. In Malattia come metafora, Susan Sontag scrive: «Ogni medico e ogni malato conoscono perfettamente, e forse anche accettano, questo linguaggio militaresco».Che sia conosciuto, è vero. Ma accettato? Non è solo la Sontag stessa a rifiutare la metafora.
Non bisognerebbe fare classifiche, ma la signora C. è stata, ammetto, una delle mie pazienti preferite. Professoressa di lettere in un liceo pugliese, appassionata di arte moderna, tumore al colon plurimetastatico al fegato. Con quello spirito che a noi, dall’altra parte, facilita sicuramente il compito, lo rende meno gravoso. Passando a visitarla, avevamo tempo di parlare dei libri che stava leggendo, della vita nel reparto e anche di come si sentiva lei, della sua malattia e quindi di quello che leggevamo sui giornali.
«Se pensassi di essere una guerriera mi sentirei ridicola. Una guerra implica un vincitore e un vinto. Qui non vince e non perde nessuno, chi sta meglio o peggio sono solo io, non ho nessuno davanti. So che le metastasi possono tornare: in quel caso cosa sarei? Una perdente? Questa visione la rifiuto categoricamente».
I pazienti lo sanno, che può tornare il tumore, o progredire, possono comparire metastasi, o i marcatori positivizzarsi di nuovo. Sono possibilità che noi medici abbiamo sempre davanti agli occhi, a ogni controllo, a ogni TAC, a ogni esame del sangue.
Non abbiamo ancora compreso appieno i meccanismi che regolano la crescita tumorale. Questi processi sono, è vero, ormai per lo più conosciuti, ma il cancro – i cancri, i tumori, ognuno fa storia a parte – sono cellule che mutano, in continuo. Le terapie sono sempre più precise, ma non sono certe. Non saremo sempre in grado di dare una risposta. Non sarà sempre operabile, potranno non esserci altre linee di chemioterapia, altri trattamenti sperimentali. In tutte queste eventualità, non remote, pensare in termini di sconfitta, perdita, gara può essere, per una persona già provata dalla malattia – con tutto il carico emotivo, fisico, psichico che comporta –, tremendo.
Quanto deve essere dura non solo dover affrontare le cure e il terrore e la paura, ovvia, della malattia, ma anche sentirsi perdenti? Dover pensare «se solo avessi lottato di più»? Addossarsi una colpa. E per cosa alla fine? Per qualcosa su cui il nostro potere è limitatissimo?
E cosa dire di chi si ritrova, all’improvviso, con un tumore fortemente invasivo (nemmeno l’istologia si smarca dalla metafora, i tumori hanno gradi di invasività, di penetrazione), con poche possibilità e vie per la guarigione o il controllo? Contro cosa ha mancato di guerreggiare? Chi non ha affrontato?
Da anni un gruppo di linguisti dell’Università di Lancaster, guidati da Elena Semino, analizza la comunicazione su temi sensibili, in particolare, appunto, le metafore militari per parlare del cancro e come siano usate dal malato o dalla figura sanitaria. I risultati hanno rilevato ciò che ogni persona a contatto con tutto il percorso di un malato oncologico già immaginava: espressioni come «battaglia contro il cancro» murano il paziente nel ruolo del lottatore, un ruolo impari e aggressivo; suggeriscono la presenza di un nemico che poi è il corpo stesso del malato e legano inevitabilmente la mancata guarigione a una débâcle totale.
Se la malattia viene rappresentata come un nemico potente, non è detto che la reazione sia quella di scatenare una resistenza eroica: ci si può anche sentire, semplicemente, inermi e senza scampo.
E se la remissione non avviene, e se il tumore ritorna, il senso di colpa diventa enorme: non è la terapia a non aver funzionato, sei tu ad aver fallito. Stai morendo, e sei un fallimento. Questo può perfino portare anche a voler rifiutare cure di accompagnamento e palliative che potrebbero migliorare la qualità della vita: non me le merito, non sono stato bravo abbastanza.
Questo sentirsi completamente in balia di qualcosa di più grande, indifesi, disarmati, si trasla da un essere solo nei confronti del tumore a esserlo anche di fronte a ciò che dovrebbe curarti. Senza voce di fronte alle parole tecniche, definitive, inesorabili del medico. Vittime anche delle cure aggressive, e vittime degli effetti della chemioterapia. Nota e funzionale strategia di guerra, ma terribile, quella che utilizza come armi i chemioterapici: si radono a terra le proprie città, sperando che il nemico che le assedia muoia di inedia, per poi poter ricostruire tutto dalle macerie.
Perché anche quello è: se deve essere guerra, è una guerra civile. Come si può affrontare il percorso – spesso lungo, spesso complicato – dei trattamenti, se pensi che questi trattamenti saranno rivolti esattamente contro una parte di te? Non c’è nessun avversario altro: le cellule mutate sono cellule tue. Giorgio Falco, ne L’ubicazione del bene (Einaudi, 2009), lo chiama «golpe cellulare» – anche qui, difficile uscire dalla metafora militare. Erano – sono – il tuo fegato, il tuo polmone, il tuo midollo osseo. Sono parte di te, solo che sono diverse. Capaci di riprodursi e sopravvivere praticamente in eterno, più forti del resto dei tessuti che le circondano. Per eliminarle bisogna eliminare una parte del paziente stesso: fisicamente – con la chirurgia – o spegnendole – con la chemioterapia e le altre terapie mediche.
Quanto è terribile essere il proprio, unico avversario? Soprattutto quando la malattia si stabilizza, e tu non sei guarito, ma nemmeno ti senti malato. Quando ci convivi.
«A un certo punto il cancro diventa parte di quello che si diventa, una cronicità. Mio padre è anche il suo mieloma». Chi me l’ha detto, E., rappresenta la terza parte del triangolo: non è un medico né un paziente, ma un parente. Una figlia. Suo padre è in cura da anni per un mieloma multiplo, tra remissioni e recidive. «Ma se c’è qualcuno a cui serve pensare che sta combattendo, va bene anche la lotta. D’altra parte, basta che funzioni». Basta che funzioni.
Nella sua conferenza stampa dello scorso 17 luglio, Sinisa Mihajlović ha detto: «Io rispetto la malattia, ma so che la vincerò. La guarderò dritta negli occhi, la affronterò a petto in fuori: non vedo l’ora di andare martedì all’ospedale, prima comincio e prima finisco… Ho spiegato tutto ai giocatori. La malattia si deve affrontare come voglio che loro affrontino le partite, ho detto loro: attaccare, pressare, aggredire, andare a fare gol, non stare ad aspettare».
Mihajlović, mi fa notare E., è uno sportivo. La sua vita, il suo modo di essere è, probabilmente, proteso verso una qualche forma di agonismo. È necessario prendere in considerazione anche questo argomento. Per qualcuno è naturale pensarsi in competizione, in lotta. O meglio, per qualcuno è un modo di funzionare, di affrontare le cose della vita e, quindi, anche la malattia.
Un primario con cui ho lavorato, grande amante della corsa e della montagna, trasmetteva queste forti passioni anche ad alcuni dei pazienti operati: se è un amore del luminare – e lo è davvero – che mi ha operato, allora diventa anche il mio. Di conseguenza, le pareti del day hospital erano piene di fotografie, disegni, poesie di persone in vetta alle montagne, in tenuta sportiva, alla fine di una maratona. E tutti, o quasi, con l’immancabile frase: ho battuto la malattia, adesso batto i miei limiti.
«Quello che ci frega è l’orgoglio. Preferiamo vederci come dei Rambo invece che come dei poveri malati […]. Tutto pur di negare la nostra immagine allo specchio. Quello spettro con le occhiaie e i capelli arruffati non sono io. Io sono un atleta, sono un eroe, sono un combattente. Se cado, cadrò con la spada in pugno, non con la boccetta degli antidepressivi e un blister di sonniferi sul comodino», scrive Sergio del Molino in Nell’ora violetta (Sellerio, 2013), in cui racconta la malattia e la morte per leucemia di suo figlio di pochi anni. Pensarsi forti, fortissimi, indistruttibili, per diventare forti, fortissimi, indistruttibili. L’immagine che ci costruiamo diventa chi siamo.
Poi, oltre ai pazienti, oltre ai parenti, ci sono i medici. Sempre il gruppo di Lancaster ha individuato come negli ultimi anni ci sia una tendenza, da parte dei curanti, a cercare, in ogni modo, di evitare le metafore militari, probabilmente consci dei danni che possono procurare. Ed è anche un’autodifesa. Come mi diceva M., il mio paziente, se è una guerra il chirurgo, l’oncologo, il radioterapista sono i comandanti del battaglione. Se si perde, perdiamo anche noi dottori. Se si perde, non siamo stati abbastanza bravi. Non si può resistere a lungo con questo peso, paziente dopo paziente, caso dopo caso. Non per nulla, i chirurgi e gli oncologi sono tra i medici con il tasso più alto di burnout, quella sindrome indotta dallo stress che provoca esaurimento emotivo e spersonalizzazione, atteggiamento cinico e mancanza di entusiasmo per il proprio lavoro, fino alla depressione, con elevati rischi di suicidio.
Di una delle colleghe che stimo di più, A., chirurga oncologica con molta esperienza, mi ha sempre colpito non tanto la bravura tecnica, che è al pari di qualsiasi ottimo chirurgo di questo ospedale, ma l’incredibile capacità che ha di entrare in sintonia coi pazienti, seguirli, rassicurarli. Non ho mai sentito A. parlare di battaglia, armi, trincee. A. parla di percorso, di affrontare, di riprendere le forze, di una vita dopo. I suoi pazienti riescono in qualche modo a guardare dentro e oltre le cure, il cancro, l’operazione. Io la studio e cerco di imparare.
Ma nessuno sfugge alla corruzione della banalità. Tantomeno io. Sono un chirurgo oncologico. Mi occupo, prevalentemente, di patologie del fegato e delle vie biliari. Ma sono stata parente. E sono stata, anche, paziente. Quanto del me dottoressa, consapevole e attenta all’uso, abuso, e tossicità di certe metafore, rimane nella me paziente?
Quando mi è stato annunciato che era il caso di ricominciare con controlli più stringenti, rispetto a quelli a cui ero ormai abituata, mi sono ritrovata a pensare che mi sentivo come il tenente Drogo nella fortezza Bastiani, in attesa di un nemico che non sai quando arriverà, ma arriverà. E intanto, passi il tempo in attesa, con i fucili pronti.
Ne parlo con C., un’amica con cui discutiamo spesso di come il tempo che passa renda i corpi più fragili. Mi dice: siamo una bomba a orologeria. E io mi sento senza armi, inerme, indifesa, tic tac, lo senti? È la bomba. Sono le mutazioni. Non mi serve a nulla ora essere una sportiva, una competitiva: anzi. Sto perdendo – sto perdendo di nuovo – potrei perdere ancora. Dov’è il nemico?
Non mi serve essere un medico, un chirurgo oncologico, una che è al corrente, razionalmente, delle possibilità, il tasso dell’80% di sopravvivenza a 10 anni. Non voglio essere un cliché, ma in qualche modo divento un cliché. Non voglio tornare al melodramma di serie B che ho già vissuto, le attese, i controlli, la sensazione di essere clamorosamente soli. Ci torno. E poi un giorno i controlli, la routine, le TAC, le visite diventano parte di me. Sono anche le mie cellule che potrebbero tornare, da un momento all’altro, a fare gli zombie.
The dead don’t die: cos’altro sono, dopotutto, le cellule cancerose? Forse per me la metafora The walking dead, le mie cellule pronte a diventare immortali e feroci come in un film di Romero o di Jarmusch, funziona di più. Mi trovo anche io a cercare conforto in qualche rappresentazione della mia fisiologia che non sia solo mutazioni, DNA, spessore della lesione.
E forse sta proprio qui il lavoro che dobbiamo fare, come medici, infermieri, parenti, ma anche chiunque si trovi a parlare di quell’ancora oscura entità multipla che sono i cancri, i tumori: buttare sul tavolo tutte le carte e tutte le parole, e lasciare che il paziente scelga da sé, aiutandolo a eliminare gli aspetti che potrebbero fare più soffrire. Dopotutto, basta che funzioni.