Aprendo Senza confini, l’etnographic novel di Francesca Cogni e Andrea Staid (Milieu 2018), la prima cosa che ci troviamo di fronte è una cartina del mondo ribaltata di centottanta gradi rispetto a come siamo abituati a immaginarla: coi paesi convenzionalmente situati a nord orientati verso il basso e quelli del sud verso l’alto.
La tavola funziona anche da indice presentando a destra l’elenco dei personaggi che parlano della propria storia nel libro, e illustra il senso dinamico del loro muoversi tra i continenti attraverso una fitta rete di tratteggi che rappresentano gli spostamenti tra i paesi attraversati. Ma questa tavola dice anche molto di più, esprimendo subito uno degli intenti degli autori: rovesciare le convenzioni e le gerarchie con cui è rappresentato il mondo per ribaltare anche molte narrazioni tossiche con cui è raccontato.
Senza confini racconta una decina di vite in transito e di lotte, forme di autorganizzazione ed esperienze di solidarietà collettiva. Storie sfaccettate che richiedono trattazioni pluridimensionali per non trascurare nessuna delle molteplici angolature delle questioni sociali che, come fasci di luce, illuminano il nostro sguardo. Leggiamo di Silver, pittore africano passato da Parigi e dal Belgio per arrivare a sperimentare la vita in comune a Casa di Betania, centro di accoglienza per rifugiati politici a Milano. Dell’italiana Sara, che attraverso il contatto e l’empatia con gli altri ha declinato il suo lavoro nel segno della solidarietà reciproca. Di Muhammed, giornalista gambiano che ha attraversato Senegal, Svezia e Milano, prima di arrivare a Berlino come videomaker e fotoreporter, testimone e animatore della lotta autorganizzata dei rifugiati a Oranien Platz, che in Italia per vivere ha dovuto raccogliere pomodori nel foggiano. C’è Nassi, milanese di seconda generazione nata da genitori marocchini e attiva nella militanza per i diritti. O la storia di Turgay, dissidente turco che ha passato quindici anni in prigione e poi è scappato per rifugiarsi a Berlino. Ascoltiamo Melissa, statunitense, con un passato familiare di violenza, che diventa artista e dj e, dopo aver girato l’Europa, si trasferisce in Italia. Ehsan, che racconta il via vai di persone trattate come pacchi postali, o Umar, il «rifugiato al quadrato», palestinese nato in Siria. Ma leggiamo anche di realtà collettive come l’International women space, nato a Berlino all’interno del movimento dei rifugiati per affrontare le lotte da una prospettiva di genere.
È un periodo storico di razzismo dilagante in cui problemi molto complessi sono affrontati con risposte semplicistiche. Stragi continue di persone annegate nel Mediterraneo sono giustificate in nome della difesa di sacri confini patri, millantate purezze etniche e nazionali sarebbero da salvaguardare da presunte invasioni di barbari portatori di contaminazione. Qualsiasi analisi più approfondita che interpreti gli spostamenti degli esseri umani nel mondo tenendo conto, oltre che delle scelte individuali, anche delle macroscopiche e interconnesse implicazioni di un’economia liberista globale, di scenari di guerra, di rapporti neocoloniali e di mutamenti climatici è bollata come “buonismo”. Sentimenti e valori come la solidarietà, la giustizia sociale e l’aiuto reciproco sono spazzati via da agghiaccianti rigurgiti di rancore e risentimento il cui unico contraltare nello scenario politico ufficiale sembra essere una carità pelosa, declinata tutta a scopo elettorale, altrettanto disumanizzante nei confronti delle persone che si muovono – per scelta o costrizione – lungo rotte transnazionali.
Uno dei modi per ribaltare i punti di vista semplicistici, decostruire le narrazioni convenzionali, è raccontare la complessità attraverso la complessità. Senza confini non è solo il titolo dell’opera, è anche la poetica che la innerva, costruita usando linguaggi diversi tra loro senza soluzione di continuità, senza confini appunto: il disegno e la parola, già di per sé ossatura dell’approccio plurilinguistico intrinseco alle graphic novel, si ibridano in questo lavoro con mail, foto, documenti, volantini, telefonate, giornali, locandine, che scandiscono il taglio a volte narrativo, altre da reportage, a volte da memoir, altre da diario, delle storie contenute nel libro.
A essere senza confini non sono solo le storie e l’ibridazione di generi e linguaggi, ma anche quella delle discipline. Come evidenziato dal sottotitolo, «etnographic novel», il lavoro si avvale del metodo della ricerca etnografica dell’antropologia culturale mescolato alla pratica artistica e letteraria. Ne viene fuori un lavoro di non fiction, un’«integrazione avvenuta sul campo», dove anche l’osservazione partecipante è ripensata. Autore e autrice scardinano il confine osservato/osservatore per trasformare questo rapporto in un legame di scambio reciproco che, a sua volta, è a disposizione del nostro sguardo terzo. Cogni e Staid si mettono direttamente in scena, l’ibridazione dei linguaggi permette loro di comparire dentro le illustrazioni, perché ciò che è riportato non è il prodotto della ricerca ma il processo che vi sta dietro e la relazione che si instaura tra persone diverse messe su uno stesso piano. Come spiegato nella postfazione, oltre a esporre la propria vicenda i protagonisti hanno contribuito attivamente alla costruzione del libro. Prima partecipando alla rilettura e alla selezione del materiale raccolto, poi contribuendo direttamente con disegni e documenti, infine sono entrati attivamente in scena, nel volume, raccontandosi, e non venendo raccontati. Un metodo che non è “dare la parola”, pratica che «resta sempre focalizzata sull’asse gerarchico di un soggetto che si arroga il diritto di concedere uno spazio di parola a un altro soggetto, ancora subalterno», ma un “parlare insieme” che cerca di ribaltare rapporti coloniali di potere e oppressione troppo spesso interiorizzati anche da chi, animato da buone intenzioni, prova a combatterli.
Questo processo non si concretizza solo nel metodo di indagine ma anche nell’espressione artistica. Con il suo disegnare fatto di grandi campiture di colore e abbondanti spazi bianchi Francesca Cogni costruisce delle tavole dinamiche in cui il ritmo è scandito da una molteplicità di presenze, sparse su più piani prospettici che intrecciano diverse temporalità e movimenti spaziali. Disegni e voci si intrecciano andando oltre una semplice rappresentazione, raggiungendo un’animazione carica di tensione narrativa che esplode in frequenti tavole a doppia pagina, piene di colore, che approfondiscono singoli soggetti, luoghi o situazioni.
Intrecciare discipline e linguaggi per andare oltre la mera testimonianza, raccontare identità, vite, e non astratte figurine di migranti o rifugiati. Due grandi tavole illustrano questo movimento e in entrambe sono raffigurati dei giochi. Una, nell’episodio di Muhammed, paragona la vita dei migranti al gioco dell’oca, con percorsi cosparsi di imprevisti e probabilità. Un’altra, in quello di Turgay, è una grande scacchiera su cui i pezzi sono i migranti in transito, gli attivisti solidali, i manifestanti da una parte, la polizia, i trattati e le agenzie di frontiera europee dall’altra. Queste facili metafore di vite in cui, come in un gioco, si alternano protagonismo e possibilità di scelta, ma anche fortune e sfortune, casualità, imprevisti, ostacoli, decisioni da prendere e da subire, tuttavia rendono – in una maniera che salta agli occhi più palese che mai – una complessità che troppo spesso è ridotta solo o a slogan o a numeri e cifre disumanizzanti.
Senza confini non è né la favola bella o la storia di successo dello straniero integrato, né il racconto strappalacrime di vite ai margini. Non vi sono estetizzazioni del migrante come figura tragica o eroica, né pietismi desoggettivanti. Vi è sempre un tipo di movimento diverso: non ci sono autori che ritraggono ma personaggi che prendono parola e di quegli autori, fatti si strumenti nelle loro mani, usano penna e matita per parlare da sé. In un momento in cui l’occidente affronta i fenomeni migratori quasi esclusivamente attraverso due soli approcci, quello razzista dei nazionalismi e populismi che parlano agli stomaci fomentando guerre in cui i poveri se la prendono con i più poveri, o quello assistenzialista che tratta esseri umani non come soggetti attivi ma come figure astratte prive di volontà o tuttalpiù su cui fare business; fermo restando la necessità fondamentale che i subalterni prendano sempre parola autonomamente; la creolizzazione espressiva di pratiche e linguaggi sperimentata in Senza confini è uno dei modi in cui noi, fortunati bianchi occidentali, senza dimenticare la nostra condizione di privilegio ma anche senza nessuna volontà di pulirci semplicemente la coscienza, possiamo ricominciare a parlare senza ipocrisie di diritti e solidarietà tra esseri umani.