Un caso esemplare di un paese piccolo piccolo: “con la cultura non si vive” né tanto meno “si mangia”.
di Francesca Polacci
Mai parole furono più profetiche di quelle dell’ex ministro Tremonti “con la cultura non si vive” né tanto meno “si mangia”… E in effetti sembra che il calo di 50.000 iscritti nelle nostre università negli ultimi 10 anni gli dia ragione. È scomparsa l’equivalente di una grossa università italiana come la Statale di Milano dal 2003 a oggi, così come si è ridotto il numero dei professori, in calo del 22%, per non parlare dei fondi di finanziamento alle nostre università, ridotti ben del 20% senza soluzione di continuità. In compenso abbiamo attrezzature obsolete, un numero di borse di studio progressivamente in calo e il nostro paese si distingue per essere il 34mo su 36 per numero di laureati (posizionandosi sotto la media Ocse)[1]. Un trend confortante, visto che di cultura non si vive.
Possiamo riconoscere che l’operato degli ultimi due governi (Berlusconi e Monti, giusto per non gettare lo sguardo troppo all’indietro) nelle macroscopiche diversità di orientamento (chi del resto non se ne è accorto?), quanto a tagli alla ricerca ha condiviso la medesima posizione, così che noi studenti, ricercatori precari, insegnanti et alii, abbiamo potuto godere di una continuità stupefacente che ci ha preservato da eventuali traumi. Evidentemente anche il “governo dei professori” è stato concorde nel ritenere che con la “cultura non si mangia”.
Dobbiamo supporre però che la frase dell’ex ministro Tremonti e i relativi tagli alla cultura (in tutte le sue differenti forme, non solo quella accademica ovviamente) escludesse di fatto una ristretta élite di persone che recentemente ha ben mostrato come potersi arricchire con la cultura, il tutto a danno della collettività e del patrimonio storico-artistico del nostro paese, ma questo è un dettaglio di scarso rilievo.
Pensiamo a quanto accaduto alla biblioteca Girolamini di Napoli per mano del suo ex direttore Marino Massimo De Caro, caso esemplare, ci pare, che fotografa senza sbavature lo stato di salute del nostro paese.
Benché la notizia abbia attraversato velocemente i nostri media, del resto stiamo parlando di un’istituzione culturale di alto prestigio che non può sottrarre indebitamente spazio ad altre notizie di ben altro rilievo, dunque benché l’attenzione dei media sia stata fugace pur tuttavia c’è stata. E a onor del vero, aggiungiamo, è stato grazie a un’inchiesta de Il Fatto che, già diversi mesi fa, sono iniziate le indagini grazie alle quali Marino Massimo De Caro è attualmente in carcere per aver saccheggiato la biblioteca di cui era direttore e il senatore Marcello Dell’Utri è indagato per concorso in peculato.
Non intendiamo ripercorrere nel dettaglio l’accaduto per il quale rimandiamo a più approfondite indagini e ricognizioni[1], ma vorremmo soffermarci sui tratti di esemplarità di questa vicenda.
In primis, il soggetto deputato a garantire e controllare il buon funzionamento dell’istituto, il garante del patrimonio culturale lì conservato, diviene il principale defraudatore dello stesso.
Il crollo di alcuni edifici di Pompei ci ha posto sotto gli occhi l’incapacità, la mancanza di volontà, da parte delle nostre istituzioni a preservare il patrimonio storico-artistico del nostro paese, il caso della biblioteca Girolamini va molto oltre: non solo non si fa niente per preservare, ma in un corto circuito istituzionale colui che deve garantire defrauda, sottrae indebitamente 4.000 volumi di inestimabile valore per rivenderli, arricchendosi lautamente, o “regalarli” al senatore Dell’Utri, senza che quest’ultimo ovviamente fosse a conoscenza della provenienza degli stessi.
Da queste poche righe emergono già alcuni tratti esemplari della vicenda, il medesimo canovaccio utilizzato in altri racconti che ci sono sventuratamente familiari, politici ai quali sono fatti “regali” a loro insaputa (l’“oggetto” regalato poi è un dettaglio), funzionari dello stato che abusano del loro potere per recare danno alle istituzioni che avrebbero dovuto garantire.
Altro dettaglio non privo di interesse è il curriculum di Marino Massimo De Caro: vanta laura, docenza in vari atenei, e molto altro ancora. Peccato che si tratti di titoli del tutto fasulli, inventati di sana pianta. Con nostra grande meraviglia scopriamo che né l’ex ministro Galan, il primo a nominarlo, né l’uscente Ornaghi che con sorprendente continuità l’ha confermato, si siano presi la briga, né loro né chi li assiste, di verificare la veridicità delle informazioni lì contenute. Un vero peccato. Del resto, a parziale discolpa dell’operato dei due ministri, possiamo dire che sarebbe stato difficile in Italia trovare qualcuno con i titoli necessari, visto che la maggior parte dei giovani e meno giovani dotati di lauree, dottorati di ricerca e specializzazioni varie, dal nostro paese scappa per emigrare all’estero, dove può trovare un lavoro che corrisponda alle proprie qualifiche.
In ultimo vogliamo tirare un sospiro di sollievo e pensare che si tratti di mele marce che avrebbero rischiato di corrompere il cesto delle mele sane, ma proprio perché individuate e isolate è stato sventato il rischio di contagio. L’istituzione è salva. E per dar credito alla saggezza popolare aggiungiamo che non bisogna far di tutta l’erba un fascio. Sarebbe scorretto e pericoloso.
Benissimo, cercheremo di non farlo.
In tutto ciò resta però aperto un dubbio: il Ministero dei Beni Culturali fino a oggi non si è costituito parte civile, per fugare ogni incertezza sarebbe forse auspicabile una presa di posizione in tal senso.
Note
[1] Dati riportati da La Repubblica.it.
[2] Si vedano, tra gli altri, l’articolo di T. Montanari; quello di G.A. Stella; e più recentemente.