Pubblichiamo un estratto da “Diversamente desideranti?”, il dialogo tra Stefano Ciccone, Cirus Rinaldi e Federico Zappino contenuto nell’ultimo numero della rivista “Leggendaria” , dal titolo “Ciao, maschi”.
Stefano Ciccone – Vorrei aprire questo confronto tra uomini che hanno un impegno politico e un percorso di ricerca che parte da differenti orientamenti sessuali e affettivi con una prima domanda: è possibile una riflessione critica e una pratica conflittuale che assuma l’esperienza maschile nella sua pluralità? È possibile, cioè, costruire un discorso e una pratica che assumano come terreno di critica, conflitto e trasformazione la mascolinità come contesto plurale e al tempo stesso comune?
Federico Zappino – Colgo favorevolmente l’occasione di questo confronto, e ne approfitto per porre a mia volta degli interrogativi che ruotano tutti attorno a una grande domanda, che mi posi già leggendo il libro di Ciccone, Essere maschi: cosa muove l’esigenza etica di una riflessione critica e di una pratica politica – antagonista? di resistenza? di trasformazione?– che assuma la “mascolinità” come esperienza plurale e al tempo stesso come terreno comune? Cosa si intende, inoltre, con “esperienza maschile”, pur nella sua pluralità? La “mascolinità” è per caso un’esperienza comune? Accomuna anche quei “maschi” che più o meno consapevolmente la rigettano (ad es. MtF, drag, froce effeminate, maschi – omo ed etero – ricettivi o non-penetrativi, maschi asessuali ecc.), anche quei “maschi” che preferiscono essere spettatori o fruitori, anziché attori, della mascolinità (anche – e soprattutto, io penso – intesa nella sua accezione eteronormata), così come quelle “femmine” che invece la incarnano (lesbiche butch, FtM, donne etero mascoline, alcune donne asessuali ecc.)? Siamo pronti ad accettare che la “mascolinità” sia qualcosa che attraversa i generi e gli orientamenti sessuali e che per quanto possa essere un prodotto storico dell’eteronormatività e del patriarcato, essa si ponga anche quale potente antidoto ad essi?
Cirus Rinaldi – Anch’io non riesco a pensare la maschilità come collante monolitico di un’esperienza collettiva o coerente. A partire dalla mia esperienza personale, la maschilità non dice granché di me ma è detta dagli altri, sia nel caso in cui diventa una perdita, un vuoto, sia quando invece viene rivendicata da altri come segno di un’incipiente e pericolosa normalizzazione. Se da un lato, alcuni decidono di «rifiutare di essere maschi», mentre altri ne reclamano il privilegio, io non riesco a comprendere la mia e l’altrui maschilità se non attraverso un suo dialogo con la razza, l’abilità corporea, la classe sociale, l’orientamento sessuale, l’età, le modalità attraverso le quali la incorporiamo (e, in tal senso, la possiamo incorporare tutti e tutte). Ciò non toglie che essa affascini e abbia degli effetti rassicuranti.
Ciccone – Il percorso di maschileplurale è quello di uomini che tentano di mettere in discussione la mascolinità; è un paradosso stimolante metterla in relazione con una prospettiva che tematizza, al contrario, la “mascolinità senza uomini” di cui parla J. Jack Halberstam. In che forma la mascolinità può essere “antidoto a eteronormatività e patriarcato”? Nel caso in cui è oggetto di una rappresentazione che la dissocia dal maschio etero? Ed è possibile “assistere” ad essa dall’esterno o “fruirne” senza esserne agiti?
Zappino – La mascolinità egemonica può secondo me porsi come antidoto all’eteronormatività e al patriarcato proprio in quei casi in cui è oggetto di rappresentazioni e desideri che segnano, se non una sovversione, quanto meno una variazione significativa sul tema dell’eterosessualità obbligatoria o del maschilismo. Se invece mi domandi se sia possibile limitarsi ad “assistere” alla mascolinità dall’esterno, o a “fruirne”, senza esserne “agiti”, la mia risposta è negativa, ma tale risposta non costituisce affatto la fine del discorso. Ne segna semmai l’inizio, gettando le basi proprio per una risignificazione della mascolinità. Segna infatti l’inizio di un discorso che riconosce come inaggirabile l’immanenza del desiderio alle norme sociali dominanti ma che, al contempo, non rinuncia a operare una distinzione (minima, ma utile) tra quelle forme che consolidano la mascolinità egemonica e quelle, invece, che la vogliono rendere vivibile, estremamente godibile, e che mirano alla sua trasformazione.
Detto questo, dal mio punto di vista, “maschilità”, “mascolinità” ed “esperienza maschile” sono tre concetti che richiedono una spiegazione. Come sapete, mi muovo all’interno della teoria queer e assumo come valida la teoria della performatività del genere, secondo cui il genere produce l’idea di un sesso che lo precede sul piano di immanenza dell’eterosessualità obbligatoria. Ciò non significa che non vi sia un corpo a precedere le determinazioni eteronormative; significa, piuttosto, che quel corpo è reso intelligibile, comprensibile e operativo da quelle determinazioni, e fuori da quelle determinazioni non vi sarebbe significazione del corpo. Alla luce di questo quadro teorico, come dobbiamo intendere la maschilità, la mascolinità e l’esperienza maschile, specie se dobbiamo individuarle al fine di immaginare un discorso e una pratica politica? Quand’anche “maschilità” potesse assurgere a tratto comune in grado di compattare un fronte politico, che tipo di fronte sarebbe? Il fronte dei portatori di pene? E dei portatori di pene che decidono di agire e di desiderare secondo schemi e modalità differenti rispetto a quanto hanno fatto egemonicamente, fino a oggi, gli altri portatori di pene (il classico maschio bianco, eterosessuale, riproduttivo, sano, proprietario)? Ciò sarebbe senz’altro di rilevanza cruciale per tutta una serie di questioni, quali, tra le altre, la violenza degli uomini sulle donne o la violenza omotransfobica: in entrambe queste forme di violenza, d’altronde, gioca un ruolo non irrilevante proprio il pene, nel primo caso usato (o minacciato) come arma per lo stupro, nel secondo caso temuto, in quanto potenzialmente usabile per la penetrazione dell’ano maschile da parte di chi per primo ha rotto il tabù della propria impenetrabilità, o della propria possibilità di penetrare altri corpi maschili.
[…]
Rinaldi – Anch’io credo non sia semplice sottrarci dall’essere agiti dalla maschilità e, sebbene ci si voglia illudere di posizionarsi metodologicamente all’esterno, rischiamo di diventare spettatori disillusi del suo spettacolo. Quando penso ai suoi effetti di realtà, il mio immaginario mi rinvia al consumo e all’uso della maschilità nella sua forma iperbolica che solo i gay normali riescono a costruirsi (quelli neo-liberisti che hanno tanto voglia di essere “accettati”). Le forme di normalizzazione riprodotte dall’economia del desiderio eterosessista e interiorizzate, tra gli altri, anche dai maschi gay, corrispondono a quel processo di materializzazione consistente nella «acquisizione di esistenza attraverso la citazione del potere, citazione che stabilisce una complicità originaria con il potere nella formazione dell’io» (J. Butler, Corpi che contano. Sui limiti discorsivi del “Sesso”, 1996). Se guardiamo, per esempio a siti web come Straight acting, ad alcune produzioni pornografiche (Zeb Tortorici), social chat e applicazioni per smartphone (come Grindr o GayRomeo), realizziamo quanto questi prodotti culturali invochino un soggetto volontarista e individualista che utilizza i regimi regolativi e normativi per auto-rappresentarsi nell’estenuante sforzo di distanziarsi dall’abietto (Julia Kristeva) e dell’altro femminilizzato. Il successo di questa modalità performativa – una maschilità rassicurante – non dipende dalla sua contrapposizione ai modelli normativi ma, al contrario, risiede proprio nella ripetizione e citazione di un insieme di pratiche autoritative, dall’idealizzazione del legame eterosessuale.
Ciccone – Le domande di Federico mi pare centrino un problema politico che si ripropone da tempo. In fondo la domanda è sempre la stessa, sin da Mario Mieli, in Elementi di critica omosessuale: ha senso, è credibile un posizionamento di maschi eterosessuali critico verso l’ordine patriarcale? O l’unica soggettività conflittuale possibile è di chi “fa esperienza della soggezione” e della discriminazione? Siamo certi che, pur a fronte delle permanenti disparità di potere e cittadinanza, l’esperienza maschile eterosessuale sia “libera”? Se anche questa è frutto di una costruzione, è possibile pensare percorsi di soggettivazione a partire da un’esperienza maschile eterosessuale? La prospettiva queer nasce essenzialmente su una critica al rischio di inclusione e normalizzazione del movimento lgbt (ridursi alla richiesta di diritti e forme di cittadinanza in un contesto di cui non si mettono in discussione i fondamenti), ma anche per contrastare una sua deriva identitaria. È possibile andare oltre la prospettiva di una semplice “moltiplicazione di differenze” e frammenti che non si interrogano reciprocamente ma si limitano alla (necessaria) rivendicazione di diritti senza riconoscere la sessualità e il nesso tra corpo e soggettività come terreno politico conflittuale, di trasformazione, mai risolto?
Rinaldi – Continuo a sostenere che c’è poco da rivendicare e ho una posizione che non mi contrappone alla rappresentazione normativa delle sessualità e dei generi, ma che mi spinge a pensare a una ri-articolazione in e attraverso questa. Rispetto alla frocialità, mi pare necessario interrogare in modo più profondo le intersezioni tra strutture della razza, della classe sociale e degli assetti della vita intima con l’omosessualità, e le modalità assimilazioniste attraverso le quali i gay sviluppano istanze congruenti con gli assetti socio-economici e di potere esistenti, perdendo ogni opportunità di inventare modalità relazionali inedite in grado di offrire alternative ai sistemi (eteronormativi) esistenti. Stiamo perdendo tutte e tutti noi, di fatto, ogni caratteristica indecorosa, perturbante, disturbante. Mi sento rassicurato ma profondamente inquieto. Il dibattito pubblico si rende ancora più necessario soprattutto se dovremo, come credo sia inevitabile, confrontarci sui rischi e le opportunità che contrappongono la prospettiva di un costruttivismo neutralizzante alle strategie politiche neo-essenzialiste di analisi e definizione delle identità.
Ciccone – Quello a cui penso è un percorso di maschi (anche etero) che metta in discussione non solo l’eteronormatività ma anche il simbolico fallico che a mio parere costruisce e imprigiona l’esperienza maschile del corpo e le relazioni degli uomini tra loro e con le donne. Mi colpisce che Federico, per individuare un elemento comune, cerchi un dato “preesistente” alla costruzione sociale (mentre mi convince il suo riferimento a un corpo materiale che diviene intellegibile e dunque “costruito” socialmente) e che lo individui nell’avere qualcosa (un pene) che rischierebbe di stare dentro una costruzione che ha rappresentato le donne come quelle che non hanno (un pene).
Mi sembra invece interessante fare i conti con un dato che è il limite della mia esperienza come uomo, che accomuna anche uomini gay o trans MtF, ed è il fatto che io non potrò mai avere un figlio dal mio corpo e che non potrò mai avere figl* senza una qualche relazione con una donna (altro è scegliere di non farlo, perdere questa possibilità o semplicemente non concretizzarla). […] Affrontare questo nodo ha una rilevanza politica. Se questa asimmetria non ci fosse, sull’aborto donne e uomini avrebbero la stessa titolarità a decidere su un processo che avviene, invece, nel corpo della donna. Io credo che gli uomini, a prescindere dal loro orientamento sessuale e affettivo, condividano il fatto di essere immersi in un contesto di aspettative, in un immaginario dei corpi e della sessualità che ne costruisce l’esperienza, nella sua pluralità. Il corpo di ogni uomo, etero o gay, non può prescindere dalla storia dei corpi in cui è immerso. Questo vale anche per me per Cirus o Federico, perché la storia dei corpi maschili, associati a un modello di soggettività, ci riguarda.
Zappino – Comprendo solo in parte lo stupore di Stefano per il fatto che io identifichi il tratto comune della maschilità, e non della mascolinità, nell’avere un pene: mi sembra uno stupore parzialmente strutturato dall’”ansia del fallo”, se posso definirla così, che è una cosa che riscontro in molti eterosessuali che scoprono di occupare una posizione egemonica. E mi sembra innervata da questa stessa ansia l’allusione a quella che secondo Stefano sarebbe una “costruzione per difetto” delle “donne come coloro che non hanno il pene” – allusione innervata da un inconscio che accorda disvalore al fatto di non averlo.
[…]
Al contempo, non so dire se il dato costitutivo dell’esperienza maschile sia il limite del non poter generare. Se una donna vuole mettere alla luce un* figli* potrà anche farlo in totale assenza di rapporti sessuali con un uomo, ma dovrà comunque avvalersi degli spermatozoi prodotti da un qualche corpo (un donatore, uno sconosciuto, un amico, siano essi etero o omosessuali, o transgender…). Dunque perché dovrebbe essere incontestabile che il corpo maschile non possa generare? Certo: credo di aver chiara la differenza che intercorre tra il momento dell’eiaculazione e il doversi sobbarcare una gravidanza (pre e postpartum), ma credo anche che esistano molti modi per neutralizzare il peso culturale, o per redistribuire il carico sociale di questa partizione ineguale della vulnerabilità – a partire dalla dismissione di ogni discorso che ne alimenti, direttamente o indirettamente, l’afflato normativo, indiscutibile o naturalizzante. Poi, sono d’accordo sul fatto che “il corpo di ogni uomo […] non può prescindere dalla storia dei corpi in cui è immerso”, purché si abbia presente che questa storia non è storicamente e culturalmente uguale per tutti i maschi – ritorno alla distinzione tra uomini e maschi, per dire che mi sembra di confermare la mia ipotesi di rintracciare nell’avere il pene l’elemento comune per un “fronte” maschile, anche in chiave di alleanza tra omo ed etero). La questione del pene, tra l’altro mi sembra particolarmente utile a porre un altro tipo di domanda: e se ci concentrassimo sulla paura degli uomini di subire una penetrazione, o sul disagio degli uomini nei confronti di relazioni corporee – anche non necessariamente penetrative – con altri uomini? Io trovo molto importante questa focalizzazione sul pene, non solo perché sono un appassionato fruitore del dono che esso può fare di sé, ma anche perché proprio a livello simbolico il dominio del fallo – e forse l’intero potere maschile – è reso possibile proprio dall’occultamento materiale del pene (a fronte, ad esempio, dell’iper-esposizione spettacolare del corpo femminile), potenzialmente in grado di svelare l’oscena finitudine, l’oscena vulnerabilità del fallo. Dire il pene, nella sua molteplicità, instaurare con esso un rapporto meno ansioso, mi sembra un ottimo modo per decostruire il simbolico fallico.
Rinaldi – Dubito che la simbolica del dominio del fallo coincida con l’occultamento materiale del pene esclusivamente rispetto alla maschilità eterosessuale. Nelle occasioni spettacolarizzate dell’iper-consumo di sesso gay, il pene non può (e non deve) svelare alcuna vulnerabilità nella sua visione oscena: è il «cazzo» del maschio per maschio, MxM, la «minchia» del maschile “cerca pari” e del “no a checche, no a femmine, no a isteriche, no a grassi, no a pelosi, no a vecchi”. Come se l’economia eteronormativa del desiderio, interiorizzata anche dagli omosessuali, ritrovi la sua propria fattezza nella riproduzione di gerarchie: il maschio etero, al pari del gay maschile, è a rischio costante di essere insidiato dal gay femminile. Sei sicuro che il maschio omosessuale (sempre meno frocio), non contribuisca con l’iper-esposizione del suo pene a non interrogare ciò che rimane nascosto (la sua prostata?)? Il pene ti permette di neutralizzare, come tutti gli altri maschi, ogni forma di insoddisfazione emotiva, di massimizzare profitti, di amplificare la tua maschilità nell’efficientismo della prestazione, di auto-alienarti in modo razionale.
[…]
Zappino – Comprendo le obiezioni di Cirus, ma mi preme sottolineare di non essere d’accordo con la riduzione del problema che pongo all’esibizione che già viene fatta del pene (del cazzo, della minchia, autenticamente del fallo…) all’interno di chat chiuse, e che richiedono credenziali di accesso: anche senza dover riesumare la nozione di “spazio pubblico”, in piazze virtuali ben più pubbliche delle chat, e frequentate per fini molteplici, come Facebook, vengono costantemente rimosse le immagini che ritraggono corpi maschili nudi. D’altra parte, per agganciarmi alla domanda di Stefano, devo ammettere di non essere sicuro che il problema si esaurisca con il simbolico fallico. Non è qui in questione l’indiscussa egemonia del fallo; mi preme però mettere nuovamente in guardia dalle derive essenzialiste insite nella denuncia del simbolico fallico, specie quando assume le forme di una sorta di autocastrazione da parte di alcuni uomini. Si può operare nell’ottica della trasformazione anche senza ricorrere all’autocastrazione. Il punto è de-normativizzare il fallo, ossia scongegnare la fatticità maschile dal dover-essere e dal dover-fare, e ciò significa relativizzarla nell’ambito della sessualità così come viene vissuta, oltre che a livello di immaginario e di simbolico. Se infatti non possiamo prescindere dalle norme e dai dispositivi che producono le condotte, allo stesso tempo non possiamo prescindere dalle condotte per sovvertire le norme e i dispositivi: sono il nostro unico terreno di sperimentazione, l’unico terreno in cui trovarsi letteralmente corpo a corpo con la norma. E per me ciò significa sperimentare anche andando contro i propri desideri, se si vuole agire politicamente: la sperimentazione di forme di piacere sovversive della norma (la norma eterosessuale, il simbolico fallico) non può certo trarre nulla di utile dall’ipostatizzazione di un desiderio che si è costituito simbioticamente con quella norma. Da questo discorso non sono chiaramente immuni le soggettività non eterosessuali. Penso, ad esempio, alla stigmatizzazione della ricettività maschile posta in essere, spesso, dagli stessi maschi omosessuali penetrativi e “attivi”. E non è da sottovalutare, allo stesso tempo, quanto da questa stigmatizzazione dipenda l’intelligibilità della stessa “passività”. Tutto ciò mostra chiaramente quanto nella stessa omosessualità vigano elementi di eteronormatività, e quanto nella stessa omosessualità viga lo stesso occultamento – o meglio, la stessa valorizzazione differenziale – del corpo maschile, funzionale a una certa regolamentazione eteronormativa del genere. La stigmatizzazione della ricettività da parte dei maschi gay penetrativi (del tutto simile a quella operata dai maschi etero, con la differenza che nelle relazioni con le donne non è necessario sottolinearlo, poiché non in discussione chi deve penetrare chi) ci parla, da un lato, dell’intangibilità del corpo maschile attivo che può penetrare ma non essere penetrato, ma ci parla anche di una invisibilizzazione del piacere prostatico, potenzialmente in grado di introdurre una variazione significativa nella significazione del corpo maschile, poiché trasforma l’ano da luogo di una passività a luogo in cui si ridiscutono sia la passività sia l’attività (ne sto scrivendo in questo periodo, L’uomo anale e l’uomo prostatico). E, tuttavia, la prostata è qualcosa di estremamente maschile!
[…]
Rinaldi – Non credi che l’uso della prostata, in quanto pratica, debba tuttavia essere analizzata rispetto al contesto, a chi la mette in atto e ai suoi fini espressivi/comunicativi? Una serie di pratiche in uso nei college o alcuni giochi goliardici di iniziazione in contesti militari utilizzano il modello penetrativo (l’elephant walk di cui parla Jane Ward), tuttavia le identità pure implicate (bianchi ed eterosessuali) assegnano significati eterosessuali ad attività «omosessuali»: in questo caso il privilegio (e il potere) di essere etero e bianchi permette di normalizzare e di rendere «eccezionali» quelle condotte sessuali che potrebbero risultare discordanti. In definitiva, alcune pratiche non normative se messe in atto da soggetti normativi vengono utilizzate per rafforzare genere, razza e classe sociale e diventano «casuali», «senza alcun significato», «sciocchezze». In breve, l’eterosessualità normativa può parodiare il queer, frocizzarsi, per mantenere i suoi privilegi.
[…]
Ciccone – Per la mia prospettiva politica è decisivo distinguere tra pene e fallo, e recuperare la corporeità e vulnerabilità del pene. Nessuna deriva essenzialista, dunque, ma al contrario, decostruzione del fallo come produzione simbolica e linguistica rispetto alla realtà corporea del pene. La messa in discussione del simbolico fallico non corrisponde a una castrazione ma al tentativo di costruire una soggettività fondata su un presupposto differente che vede il pene come parte del proprio corpoda riscoprire e risignificare. Come vediamo esiste un immaginario fallico, che associa cioè la sessualità a un atto di potere e rappresenta il corpo non come parte di una soggettività relazionale, vulnerabile ma come strumento e simbolo di dominio che segna anche l’esperienza omosessuale maschile. Dobbiamo recuperare una dimensione fallica anche nella sessualità femminile e lesbica associando a questo l’espressione di una soggettività non muta o dobbiamo liberare la sessualità – maschile eterosessuale innanzitutto, ma non solo – dal richiamo del simbolico fallico? […] È una costruzione simbolica quella che fa corrispondere la penetrazione anale a un atto di sottomissione passiva. L’angoscia di noi maschi eterosessuali per la penetrazione è per la sua corrispondenza alla passività e alla femminilizzazione. Una corrispondenza da decostruire e non da confermare associandola all’orientamento sessuale. Proprio per questo è utile una riflessione sul corpo maschile, sul desiderio e la sessualità che attraversi orientamenti sessuali diversi leggendo differenze ma anche la continuità di rappresentazioni pervasive. Recuperare il pene come corpo, superare la scissione alienata con un pene ridotto a strumento fallico, ad arma, superare una classificazione della sessualità (etero o gay che sia) in “attiva e passiva”, vuol dire recuperare anche per gli uomini eterosessuali un’esperienza del piacere più profonda e meno scissa, una sessualità più relazionale, meno schiacciata nell’ansia da prestazione e di conferma identitaria.
…continua su Leggendaria. https://zp-pdl.com