Le armi della critica. Ancora sulle parole di destra

Una proposta di discussione sulle parole di destra, a partire da una lettera alla Fondazione Feltrinelli che abbiamo ospitato alcune settimane fa. 

Se la libertà di parola non è il solo diritto costituzionale che siamo obbligati a difendere, allora ci troviamo senza dubbio in un altro tipo di dilemma 

(J. Butler, Limiti alla libertà di parola?, 2017)

 

Tempi moderni

Alcune settimane fa abbiamo ospitato una lettera elaborata e firmata da un gruppo di studiosi che lavorano e fanno ricerca sulle destre e le destre estreme. 

Nel testo si esprimeva forte rammarico e indignazione per la decisione da parte della Fondazione Feltrinelli di invitare Florian Philippot e Alain de Benoist. Il primo, fino al settembre dell’anno scorso vice presidente del Front National e fra i principali consiglieri di Marine Le Pen; il secondo scrittore, giornalista ed esponente di punta della cosiddetta Nouvelle Droite.

Si sosteneva, in quella lettera, come fosse un grave rischio – specialmente in piena campagna elettorale – offrire spazio a teorici che promuovono ipotesi nativiste, “una visione del mondo secondo la quale gli stati dovrebbero essere abitati solo da ‘nativi’ e, dunque, ogni persona (o idea) diversa sarebbe problematica per la sopravvivenza delle comunità nazionali. Una visione così omogenea ed escludente della società è in contraddizione con il pluralismo che caratterizza la democrazia”.

La Fondazione Feltrinelli ha deciso di sospendere l’incontro previsto con Alain de Benoist e questo ha suscitato alcune prese di posizione polemiche da parte di giornalisti e intellettuali vicini alle posizioni dei due invitati; ma anche altri, più distanti politicamente dal saggista francese, hanno espresso perplessità1.

Non è mancato un certo refrain sulla necessità di superare “certi steccati ormai logori di destra e sinistra”, come se ciò non avesse implicazioni precise, come se non conoscessimo i rischi storici di questo mantra2.

Il punto principale della questione polemica, comunque, è stato fatto ruotare intorno al nodo della libertà d’espressione: un nodo cruciale, su cui si giocano condizioni rilevantissime per la vita politica, per la tenuta del pluralismo delle idee, per la stessa democrazia e su cui abbiamo di recente proposto un’importante riflessione di Judith Butler. In un testo che proviene da un intervento tenuto in un’istituzione universitaria, Butler ne discute criticamente l’autonomia e la relazione con gli altri diritti costituzionali nel contesto americano, fornendo ulteriori stimoli anche per il nostro continente e il nostro sistema di garanzie e diritti. Attraverso l’analisi del cosiddetto hate speech la docente americana si domanda quale sia la relazione (e se vi sia gerarchia) fra la libertà di parola e «qualsiasi altro principio costituzionale e ogni altro principio della comunità».

Sulla libertà di espressione occorre però fare subito una precisazione: un conto è vietare per legge a qualcuno di dire qualcosa, come nel caso delle norme sul negazionismo, ad esempio, che hanno suscitato forti resistenze da parte della comunità degli storici e, in particolare, proprio di coloro che si sono occupati per decenni e con grande impegno della Shoah.

Questi storici, fra i più importanti del panorama italiano e non solo, hanno chiarito in modo convincente quanto sia rischiosa una tale decisione politica che prevede il costituirsi delle verità di Stato e ripone negli strumenti giudiziari e repressivi quanto invece dovrebbe essere un investimento nella scuola, nella ricerca, nella liberazione degli archivi, nelle battaglie culturali di lungo periodo nella società. Altro conto è fare pressione dall’interno della stessa società per porre un problema di connessione fra le idee, i discorsi, le retoriche e gli effetti concreti che questi possono avere sul dibattito pubblico e sulla concreta vita sociale in un momento storico specifico, che vede la recrudescenza di certi temi ideologici e di fatti violenti che a quei temi si ispirano.

È un nodo essenziale, rilevante tanto quanto la libertà d’espressione, che ha a che fare con le ricadute delle parole, dei proclami, delle teorie che si pongono al di fuori del patto costituzionale.

Fornire spazi e consentire la diffusione di forme di pensiero che producono sistemi di esclusione o che aiutano a legittimare soggetti che fomentano in forme dirette o indirette l’odio razziale, e che giustificano o offrono il destro a strumentalizzazioni di gruppi neofascisti pone, in definitiva, dei problemi che non possono essere sussunti nella semplificazione di un’irenica libertà di espressione. Si tratta di affrontare la questione interloquendo sul livello orizzontale della linea editoriale che anima le iniziative di un’istituzione culturale “di peso” come la Fondazione Feltrinelli. Non si tratta quindi di chiedere divieti di legge, di avanzare veti o limitare alcunché.

La lettera delle studiose e degli studiosi delle destre e delle estreme destre si pone in questo quadro e la nostra decisione di ospitarla è motivata dalla necessità di aprire una discussione – che evoca storici precedenti, su ben altri piani, di polemiche durissime3. Una discussione aperta, non tetragona, liminare. Sappiamo bene che vi sono gradi diversi e temi non sovrapponibili. Sappiamo che ci sono differenze tra gruppi politici esplicitamente razzisti e neofascisti e soggetti (individuali o collettivi) che non oltrepassano, a parole, i confini del dicibile.

Molti sono ormai i teorici che usano anche esponenti della sinistra storica, come Antonio Gramsci, per convergere con altre forze su posizioni gentiste4, sovraniste e rossobrune. C’è anche qualche giovane pensatore televisivo di successo,  di un marxismo immaginario e molto amato dalle destre, in prima linea nella difesa di tutti i nemici dell’imperialismo americano plutocratico-massonico, ma soprattutto fieramente in lotta contro il «plusgodimento cinico».

Nasce da questo mondo, per fortuna residuale, ancorché attivissimo e ospitato da case editrici importanti e reti televisive, il dialogo diretto o indiretto con diversi rappresentanti di destra, estrema destra, nuova destra e neo-populismo che abitano lo spazio politico contemporaneo in una saldatura tra identitarismo di destra e di sinistra che richiama cupamente altri tempi, e va preso sul serio.

Siamo di fronte ad una riedizione distorta, viziosa, della nozione di circolo ermeneutico. Un dispositivo che comprende discorsi strategici, elementi di senso comune, analisi dei dati su una certa materia, aspettative preconcette che alimentano le nostre idee in un circuito, appunto, che spesso si autoconferma: chiuso ad apporti esterni o al massimo pronto a recepirli in una cornice molto rigida, in cui tutto si pacifica con le premesse e va a posto. In particolare, ci riferiamo al circolo che informa le strutture discorsive del razzismo e dell’esclusione nel senso comune quotidiano. Le direzioni di provenienza di questo tipo di retoriche sono molto eterogenee e, talvolta, inaspettate.

Ecco, noi sappiamo bene che Alain de Benoist, così come altri pensatori riconducibili all’estrema destra, affronta in modo complesso una miriade di problemi filosofici e storici, di cultura religiosa e di riflessione sociologica. Ma come tanti altri intellettuali compie delle scelte a cui accosta i suoi discorsi che, come tutti i discorsi, hanno un grado di apertura, un potenziale di piegatura e di uso anche a seconda del contesto politico.

Le parole e i contesti

Danilo Zolo, che a de Benoist ha concesso una lunga intervista sui temi del Mediterraneo come spazio politico, sostiene, nel suo La giustizia dei vincitori, che l’ideologo francese della nuova destra «ripropone un’idea imperiale che si richiama direttamente alla elaborazione schmittiana» e, «pur in un netto rifiuto del nazionalismo e del liberalismo, in nome di un europeismo culturale e un pluralismo localista», sostiene la valorizzazione di una cultura pagana «che fa risalire alle origini indo-europee» del vecchio continente. Dice de Benoist che l’impero è «nel senso più tradizionale del termine il solo modello che possa conciliare l’uno e il molteplice».

Nella sua sintesi del pensiero di de Benoist, Zolo conclude che «il paradigma imperiale […] comporta una concezione anti-egualitaria e assolutistica del potere, anche se tollerante e compatibile con il pluralismo etnico-culturale» e si chiede se l’idea di impero proposta da de Benoist «sia compatibile con una strutturazione egualitaria dei rapporti tra le diverse cittadinanze europee e quindi con l’eguale tutela dei diritti fondamentali dei cittadini europei, tematiche entrambe relativamente estranee alle elaborazioni della nuova destra francese».

Oltre a spingerci alla domanda se questo tipo di proposte teoriche possa aspirare a un’apertura della nostra società o a un’ ulteriore chiusura, il punto naturalmente non è solo cosa si sostiene, ma anche con chi si decide di instaurare un dialogo pubblico. Entro quale cornice tali iniziative vengono inserite, da chi sono coordinate, in quale contesto politico culturale e con quali possibili conseguenze5.

Non si tratta di confondere i piani o addossare a un soggetto della cultura responsabilità di terzi, ma certo non può essere considerata neutrale e ha degli effetti la scelta di affiancare con una certa continuità, forze politiche che, ad esempio, propongono la mistificazione del problema storico delle migrazioni. Forze politiche che si espongono pubblicamente proponendo “qualche calcio in culo a qualche giornalista servo infame” per dargli “almeno un motivo di dire che siamo cattivi”. Le stesse forze politiche che non rinunciano a incitare all’odio, sfruttando condizioni materiali di povertà, martellando i cittadini italiani che si trovano in uno stato di disagio sociale, economico e lavorativo e imputando ai migranti le loro condizioni attraverso le retoriche più retrive: “aria condizionata, tv satellitare, palme in giardino, negozi di foto, mercatini, servizi wi-fi, ristoranti etnici e menù internazionali. E ancora: giardini, sigarette di contrabbando. Il tutto a disposizione dei clandestini sbarcati sulle coste italiane”.

Un intellettuale è esposto consapevolmente a letture diverse, e questo non deve mai limitare la sua ricerca, ma la società e i responsabili dei luoghi della cultura possono porsi interrogativi e compiere delle scelte, specialmente se lo studioso accompagna nelle sue uscite pubbliche esponenti di forze politiche interessati a legittimare le proprie posizioni e la propria autorità, altrimenti relegabili nell’oscurantismo e in un identitarismo senza futuro.

Su questi aspetti è singolare come – nonostante vi sia un riconoscimento delle differenze fra gli stessi esponenti di area nazionalista o identitaria, dove de Benoist è collocato fra i “moderati” – riesca a filtrare, dagli stessi ambienti nativisti e identitari dell’estrema destra europea, il funzionamento di quel dispositivo complesso, di quel circolo ermeneutico che ha una chiave nella saldatura fra posizioni apparentemente diverse.

Nella lettura che si ricava da uno studio sull’ambiente identitario on line a cura di Thomas Hoffman e Göran Larsson, per esempio, de Benoist ricorre spesso come punto di riferimento e termine di paragone. Per alcuni avrebbe “abbandonato l’idea di un’Europa esclusivamente europea” spostandosi su una posizione molto più sfumata. Convivono, infatti, sue affermazioni antiglobaliste sul grado maggiore di minaccia per l’identità europea attribuito a un fast food o a supermercato rispetto a una moschea, con “una sorta di teoria segregazionista come soluzione della massiccia immigrazione non europea già realizzata” riconosciuta come un fatto.

A chi lo critica da destra per aver accettato l’immigrazione risponde un altro esponente dell’ambiente identitario raccontato dal testo di Larsson e Hoffman. Egli afferma, rispondendo a un suo lettore, che se effettivamente è vero che alcuni degli ideologi identitari esplicitamente anti-immigrati sono più letti dagli attivisti e dai militanti “de Benoist nondimeno raggiunge il politicamente corretto che tramite lui può diventare ricettivo a certi aspetti della nostra visione del mondo”6. Insomma, inserito in un certo contesto e attraverso l’uso di determinate parole d’ordine, il pensiero “moderato” ha il vantaggio di non essere squalificato nell’immediato dai benpensanti e di veicolare una cornice interpretativa del mondo che gradualmente può inglobare, non confliggere o preparare, discorsi e programmi più avanzati.

La discussione che proponiamo dunque, alla luce di queste osservazioni, verrebbe viziata fortemente da una richiesta di attenzione al diritto di esprimersi liberamente che non si misuri con questi aspetti, a nostro parere altrettanto centrali. Come precisato in apertura qui non si sta sostenendo di mettere fuori-legge le idee, ma si sta  sottolineando un rischio e affermando la legittimità di fare pressione sui luoghi del dibattito culturale. Specialmente su quelli legati a una tradizione progressista, dove si auspica una particolare attenzione ai temi e alle pratiche dell’inclusione, della partecipazione, dell’anti-assolutismo. 

La legittimità che si rivendica è di chiedere che si possa valutare con attenzione e responsabilità l’impatto politico-mediatico di certi modi di descrivere il mondo basati sui concetti di purezza e identità – per quanto raffinati filosoficamente – in un momento storico in cui la strada più facile è quella del muro e proprio nei luoghi in cui queste idee si dovrebbero contrastare con le armi della cultura e della critica. La discussione è aperta.

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Note

  1. Ne dà conto David Allegranti in due interventi su Il Foglio (del 6 e del 9 febbraio), mettendo a disposizione dell’autobiografia di de Benoist buona parte dello spazio del primo e delle riflessioni di Massimo Cacciari sul tema, buona parte del secondo. G. Caldiron sul Manifesto del 9 febbraio prova a entrare in modo più analitico nel pensiero di de Benoist.
  2. Si veda l’intervento di Wu Ming sulla frase “Né di destra né di sinistra” . Una critica a questa impostazione, a nostro parere non convincente (anche perché non tiene conto di questo pezzo), si trova qui
  3. L’affaire Faurisson-Chomsky data 1980, cui seguì la decisa e opportuna presa di posizione di Pierre Vidal Naquet che si può leggere oggi in P. Vidal-Naquet, Gli assassini della memoria, Viella, Roma 2005 (ma 1987).
  4. Recente è l’uscita del bellissimo La Gente. Viaggio nell’Italia del risentimento di Leonardo Bianchi, per Minimum Fax.
  5. Sebbene si assista oggi a una fase in cui la Lega lascia sullo sfondo i suoi aspetti localisti e anti-nazionalistici, diventando sempre più destra e sempre più nazionale, spacciando questo carpiato per federalismo maturo. Lo slittamento strategico non mette in discussione quell’immaginario secessionista in molta parte della base che, comunque, non rinuncia all’enunciato Prima il Nord. Sono aspetti di un dispositivo circolare, apparentemente contraddittori, ma invece funzionali a un risultato che arriva comunque, per vie diverse, a segnare confini, tracciare muri, consolidare l’idea di gerarchia.
  6. Thomas Hoffman, Göran Larsson (a cura di), Muslims and the new information and comunication technologies. Notes from an Emerging and infinite field, Springer, Berlin, 2013.
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