Sognando Novecento, il clandestino

Logistica del sommerso

Il sogno diceva che c’era Alessandro Baricco sulla Costa Concordia. Coi boccoli inargentati s’era attardato sul ponte – prendeva appunti sulla fattura di quel gigante del mare, nient’affatto dissimile da un transatlantico – quando la scossa aveva fatto vibrare la nave.

Lo rivedevo il giorno dopo sul molo del Giglio. L’aveva scampata. Una coperta di lana sulle spalle e tra le mani un taccuino. Faceva il gesto di avvicinarsi e poi con lo sguardo fisso mi sussurrava di Novecento, un passeggero, forse un membro dell’equipaggio: dicono che sulla nave si esibisse ogni sera un pianista strabiliante, capace di suonare una musica mai sentita, meravigliosa. Dicono che fosse nato su quella nave e che non fosse mai sceso. Dicono che nessuno sapesse il perché… Passavano i minuti e io ero perso in quel vortice di parole incantate: di lui che cresce, suona e non scende e non si sa perché.

Quello che Baricco non mi diceva – forse il pudore, forse il gusto del lirismo e il mistero – lo avrei appreso al risveglio da Franco Gabrielli, il capo della Protezione civile, tramite i giornali: non scendeva perché era un clandestino. Si trovava a bordo, e probabilmente non era il solo, senza documenti. Stipato, giù in fondo, che tanto la nave è fatta per stare nel mare e finché sei al largo nessuno ti chiede di te.

Al di là dei sogni e dei racconti che talvolta si incontrano con la cronaca, il bilancio attuale, che parla di quindici vittime accertate e ventitre dispersi, non tiene in conto di quanti potrebbero essersi imbarcati perché calpestare le strade d’Europa li rende illegali. Lavapiatti, cuochi, mozzi, camerieri in livrea. Con piena legittimità, il capo commissario di bordo della Costa Concordia Manrico Giampedroni ha prontamente smentito la presenza di clandestini o di persone non registrate: la Costa è una compagnia seria, non scherziamo. E a questo stadio delle ricerche e delle indagini – dove, in assenza di conferme, l’idea che vi fossero clandestini a bordo resta solo un’insinuazione – è opportuno dargli ragione. Ma le parole del responsabile della Protezione civile, il suo sbilanciarsi a formulare un’ipotesi tanto grave, fanno comunque pensare. Come in una vecchia leggenda, ambientata in una lussuosa nave da crociera nel cuore del Mediterraneo, forse imbarcarsi è ancora un modo per vivere facendo perdere le tracce di sé.

Umano, si è trattato di errore umano. L’errore umano ha causato una falla nella nave e quindi morte e disperazione. Ma l’errore ha anche aperto uno squarcio nel sistema di responsabilità diffuse di chi, non soltanto nel campo della navigazione marittima, pensa di arrotondare i profitti spingendosi fuori rotta, fuori controllo. Una crepa attraverso la quale osservare la logistica del sommerso, la forma di conduzione più tipica di questo tempo, nei più diversi settori produttivi ed economici. E così, di tutte le chiavi di lettura simbolica adottate negli ultimi giorni per leggere la tragedia del Giglio, la più efficace richiama la doppia natura della nave: il suo essere al contempo visibile e invisibile, emersa e sommersa, varata e naufragata. Tutti sanno, ma finché non capita l’incidente, che rovescia i piani, nessuno vede.

Novecento, il testimone di quanto avviene nel ventre del mostro marino, non potrà uscire che come cadavere. Eppure il suo corpo senza vita né nome dice ancora molto. Non solo di lui.

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