Toglietemi tutto ma non “Mama Africa”.
La narrazione dell’Africa, delle diaspore e delle seconde generazioni nella commedia italiana.
Preceduto da tre teaser e non da un trailer tradizionale, distribuito in oltre 1300 copie, Quo vado? è nettamente primo nel box office stagionale, ha incassato in undici giorni oltre 50 milioni di euro (per più di 7 milioni di spettatori), e promette di scalare rapidamente la classifica nazionale dei film più visti di sempre, surclassando i precedenti hit della coppia Nunziante-Zalone, compreso Sole a catinelle (52 milioni) e incalzando persino la prima posizione di Avatar (65 milioni). A muoverci non è stata la smania di prendere posizione sul caso Zalone ma il nostro interesse crescente nei confronti dei modi in cui il cinema e la fiction italiana negoziano la narrazione dell’Africa, delle diaspore e delle seconde generazioni, grazie anche all’utilizzo di interpreti afrodiscendenti.
E l’Africa c’entra eccome in Quo vado?. Senza troppo spoilerare, come tutti sapranno, la cornice narrativa in cui si svolge questa quarta fatica cinematografica di Nunziante e Zalone è un villaggio tradizionale africano, ricostruito, con uno scenografo “dedicato”, in provincia di Latina. Zalone ci si trova — nel villaggio, non a Latina — accompagnato dall’autista Kato (Emmanuel Dabone), perché sta raggiungendo la sua compagna Valeria (Eleonora Giovanardi), sul punto di partorire in un ospedale. Catturato dalla «tribù molto pericolosa» (Kato dixit) dei Kasu, Zalone si ritrova al cospetto del re Dogon, costretto a raccontare la storia della propria vita: se non verrà considerato degno di attraversare il territorio della tribù, verrà bruciato vivo su un falò acceso ad hoc. Mancano solo il pentolone e l’anello al naso: siamo in un Paese africano immaginario e imprecisato, i Dogon sono un’etnia che vive perlopiù in Mali, capovillaggio e Kato a naso si parlano in lingue dell’area (Bambara? Dioula?), ma l’ospedale si chiama, anonimamente, “Mission Hospital” e il suo personale si esprime in inglese.
Checco Zalone (proprio così si chiama il personaggio) si autodescrive al re Dogon come un nostalgico della prima repubblica, educato fin da bambino nel mito del “posto fisso”, grazie ai genitori e alla complicità di un amico senatore (Lino Banfi), procacciatore di impieghi nella pubblica amministrazione. Felicemente impiegato nell’ufficio licenze caccia e pesca di una provincia nella regione Puglia, fatto oggetto di donazioni in natura dai suoi clientes, adorato dalla mamma con cui ha un rapporto poco meno che simbiotico, in virtù della sua posizione invidiabile Checco ha anche una fidanzata premurosa. Tutto cambia quando il governo — nella persona del Ministro Magno (Ninni Bruschetta) — emana una riforma della pubblica amministrazione che prevede l’abolizione delle province, e a capo dell’operazione viene posta l’arcigna dottoressa Sironi (Sonia Bergamasco).
Pur di tenersi l’ambito e irrinunciabile posto fisso, diversamente da molti suoi colleghi che hanno accettato un tfr “rinforzato”, Zalone accetta di farsi distaccare in un centro di ricerche al Polo Nord, in un’isola-CIE invasa da richiedenti asilo e infine in un paesino della piana di Gioia Tauro infestato dalla ndrangheta, facendo della resilienza richiesta al lavoratore precario tipo uno sport estremo. In virtù di questo spirito di adattamento, riesce a farsi ben volere ovunque vada e persino a conquistarsi l’amore di una giovane biologa giramondo, la citata Valeria, con tre figli da diversi compagni — fra cui Said (Adam Nour Marino), avuto dalla relazione con un collega africano — anche se poi, davanti all’impraticabilità della sua condizione, verrà messo proprio dalla donna con le spalle al muro.
Non voglio intrattenermi oltre sul plot che si srotola fra i vari frammenti di autonarrazione e i siparietti di dialogo, grazie alla mediazione linguistica dell’autista Kato, con il capovillaggio Dogon. Il barese Luca Medici alias Checco Zalone conferma in Quo vado? tutte le sue doti di interprete della doppia tradizione commedica italiana, quella del comico basso, carnevalesco e popolare, di matrice teatrale (la linea di Totò e Peppino, per intenderci) e quella della commedia all’italiana, dalle ambizioni sociologiche di riflessione e reinterpretazione dei vizi, vezzi e inadeguatezze dell’italiano medio davanti alle torsioni impostegli dalla contemporaneità. Come nei film precedenti, anche qui Zalone e Nunziante si misurano con questioni di una certa complessità, giocando di sponda fra le varie posizionalità del senso comune, negoziando il consenso sulla base di un ethos che si autodefinisce come inclusivo e progressivo.
L’Africa di cartapesta di Zalone — che sembra modellata sul filone transmediale di Tarzan e della letteratura di gusto esotico-coloniale, trionfante dagli anni Dieci del Novecento — entra in gioco proprio in questo snodo discorsivo, come luogo di un’alterità radicale, sospesa in un altrove spazio-temporale che affonda nei territori riconoscibili e familiari dell’immaginario imperialista novecentesco, e declinato in chiave parodica in vari filoni di commedia popolare italiana. Penso al Totò di Due cuori fra le belve (Giorgio C. Simonelli, 1943) e Totòtarzan (Mario Mattoli, 1950), ai Ciccio e Franco di Due bianchi nell’Africa nera (Bruno Corbucci, 1970), al tardo cinepanettone con De Sica e Ghini (in particolare Natale in Sudafrica, Neri Parenti, 2010). Quest’Africa senza tempo, o per meglio dire sospesa nello spazio-tempo piatto dell’immaginario coloniale, si sposa senza troppi problemi con quella, codificata dalla retorica umanitarista delle ONG, eternamente bisognosa di assistenze e competenze occidentali, celebrata attraverso il teatrino del Mission Hospital — rivisitata anche di recente da film come Io, loro e Lara (Carlo Verdone, 2009), Un altro mondo (Silvio Muccino, 2010) e La vita facile (Lucio Pellegrini, 2011) —, attraverso il quale perfino il tamarro campione della prima repubblica viene redento.
Certo, è tutto l’orizzonte diegetico del film ad avere un’architettura bidimensionale, da cartoon postmoderno anni Ottanta, ha scritto in proposito Christian Raimo su «Internazionale», rifuggendo volutamente da ogni spessore drammaturgico di matrice realistica. Probabilmente il buon Alan O’Leary potrebbe rimettere in campo il suo repertorio postbachtiniano di grimaldelli analitici tarato sui cinepanettoni, parlando di corpo grottesco (le “pugnette” agli animali) e di un approccio carnevalesco che mette in evidenza la banal whiteness del protagonista, il suo status di maschio bianco, italiano ed eterosessuale, messo a rischio davanti al confronto con un’alterità radicale e sottolineando l’ambivalente non coincidenza del discorso del personaggio (omofobo, razzista e sessista) con quello del film. Il film è attraversato da momenti (penso in particolare al provino dei calciatori nel CIE, con le lauree brandite inutilmente dai richiedenti asilo e alla lezioncina di comportamento razzista impartita a Said e “corretta” dalla voce fuoricampo del narratore) in cui, oltre a virgolettare il discorso del personaggio, Nunziante e Zalone inseriscono delle spie di straniamento ma, come detto, l’inclusività redentiva e consolatoria del finale nella Mission Hospital sembra studiata per mettere d’accordo proprio tutti, e risuturare ogni traccia di scollamento dall’ethos dominante, paternalista, razzista e autocelebrativo.
Ho ruminato e rimuginato per qualche giorno su quest’Africa d’accatto di Zalone e Nunziante, a cavallo fra esotismo e umanitarismo, alla ricerca di segni che potessero far pensare a una lettura contrastiva per non dire antiegemonica. Zalone ha sempre giocato a camminare sul filo, in bilico fra sovversione e consolidamento, con gli stereotipi delle retoriche razziste e xenofobe, inserendo nel plot e nel cast dei suoi film microstorie, personaggi e interpreti afrodiscendenti, da Cado dalle nubi (con il cameriere-manager Nicolas/Sereno Bukasa) a Sole a catinelle, (con l’operaia Sokaina/Juliet Esey Joseph) e soprattutto in Che bella giornata (con Farah/Nabiha Akkari e la sua improbabile cellula di terroristi).
Qui bisogna certo mettere in conto la verve di Kato/Emmanuel Dabone — assente lui, come tutti gli altri interpreti afrodiscendenti, dal cast artistico ufficiale, si noti—, autista sempre intento a intrattenere e rassicurare contro ogni evidenza, prendendosene sottilmente gioco, il proprio cliente di turno. Potremmo anche provare a mettere a valore lo scatto di saperi ancestrali in virtù del quale Dogon smentisce e sputtana Zalone, quando lui racconta di aver dato le dimissioni per amore della bella Valeria, ma al di là della battuta sugli africani ai quali nulla si può rubare (perché anche volendo…) e sul “simpatico” gesto dell’ombrello che chiude emblematicamente la palabre con i membri del villaggio, i quali aiutano per giunta pure Checco, spingendo la macchina perché riparta, risulta davvero difficile dare una lettura against the grain dell’ennesima riproposizione di un immaginario mai realmente sottoposto a revisione critica ed eternamente disponibile a nuove/vecchie riconfigurazioni.
Quest’Africa dei villaggi tradizionali, popolata di indigeni in blackface pure se neri, non solo perché ricoperti di pitture tribali e accessori esotizzanti, ma ricalcati su un’iconografia essenzializzante, quest’Africa degli ospedali delle missioni cattoliche, che campeggia in milioni di campagne di raccolta fondi e viene alimentata a ondate da telespettatori dalla lacrima e dall’sms facile, sempre pronta a soddisfare ai bisogni economici ed esistenziali dell’occidentale bianco di turno, resiste a ogni controlettura di segno eversivo, offrendosi invece come una sorta di bene rifugio, per un’Italietta neotelevisiva che ha aperto il nuovo anno, pensando bene di mettere in vetrina le bellezze naturali e antropiche millenarie di Matera, riattingendo a questo baule dell’immaginario esotico e razzializzante in cui il blackface —risdoganato senza problemi da Tale e quale show, come da La scuola più bella del mondo e Il ricco, il povero e il maggiordomo — ben si sposa con la tradizione della canzonetta africanista pre e postcoloniale (Bongo Bongo Bongo).
[Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su Cinemafrica. Africa e diaspora nel cinema]