Il secondo tempo di una riflessione sullo Stato.
Foto di Claudio Vesco
In questa seconda e ultima parte, Mastropaolo racconta il governo del disordine da parte dei moderni regimi rappresentativi. Qui la prima parte.
Il disordine contingentato dei regimi rappresentativi
Lo Stato è nato nel disordine e dal disordine. Dopo aver tentato di reprimerlo, la più geniale invenzione della politica moderna è consistita nell’inocularsi un vaccino: governare il disordine riconoscendolo, pacificandolo e convivendo con esso. Il regime rappresentativo è una tecnica di governo in virtù della quale una dose controllata di conflitto e di disordine è introiettata ai vertici dell’ordine statale. Ciclicamente, tramite le elezioni, e non solo, in parlamento e sulla scena pubblica, si concede al disordine l’opportunità di manifestarsi, purché nel rispetto di alcune regole fondamentali. I conflitti saranno trattati, oltre che con l’avvicendamento degli eletti a seguito delle scelte degli elettori, con l’assunzione delle decisioni a maggioranza. In compenso, se parte cospicua del disordine che in precedenza si manifestava tramite la violenza era rimossa, quanto residuava darà comunque luogo a accanite contese elettorali e a “una feroce, ma non sanguinosa lotta per le cariche pubbliche”.[1]
Le regole del gioco e le modalità di contenimento del pluralismo e del disordine saranno anch’esse perennemente all’ordine del giorno. Perché le regole del gioco condizionano gli esiti del gioco e sono pertanto sempre una posta del gioco. Quando nacque il regime rappresentativo, grazie alle tre grandi rivoluzioni «borghesi», era in atto una rivoluzione culturale di cui ha dato vivace rendiconto A. O. Hirschman, la quale riconosceva, e riteneva virtuosi, gli interessi e il loro pluralismo, opponendoli alle passioni.[2] Ma si trattava di una rivoluzione che pur sempre squalificava gli interessi politici, denominandoli passioni, e che valorizzava la passione per la ricchezza, denominandola interesse, implicitamente invitando la sfera politica a somministrare il vaccino pluralistico con parsimonia, curandosi di non turbare l’azione dello Stato in quanto tutore dell’interesse generale e dell’ordine, ovvero di quel disordine che esso provvedeva a riclassificare come ordine. Il che è stato fatto, per l’appunto, manipolando le regole del gioco.
Onde contingentare il pluralismo e governare il disordine sono state stabilite regole formali per accedere alla competizione, e per avanzare agli elettori un’offerta politica. Sono state introdotte regole relative allo svolgimento della competizione. Tuttora i regimi rappresentativi e democratici, che pure riconoscono la libertà di opinione, di associazione, di partecipazione alle elezioni, stabiliscono regole che distinguono interessi, conflitti, concorrenti e forme di lotta legittimi e illegittimi.
Non c’è legge elettorale che non stabilisca, in maniera visibile o invisibile, qualche esclusione. Per lungo tempo l’esclusione dall’elettorato attivo e passivo è stata palese. Si è fondata su barriere di censo, di capacità, di genere. All’alba del regime rappresentativo, il grande teorico della tolleranza, ovvero Locke, escludeva dalla sua applicazione i cattolici perché colpevoli di esser leali a un sovrano straniero. Il pensiero rivoluzionario fu una miniera ricchissima di argomenti e soprattutto di marchingegni restrittivi. A rivoluzione conclusa, Benjamin Constant riterrà che si dovesse riservare il diritto di voto unicamente a coloro che avessero interessi – proprietari – da salvaguardare.[3] Fattosi sostenitore di un pluralismo non restrittivo, del suffragio universale, e persino del voto alle donne, dunque della più ampia partecipazione democratica, attribuendo a quest’ultima la capacità di educare i cittadini, nell’Inghilterra vittoriana John Stuart Mill suggerirà, per non correre troppi rischi, l’attribuzione del voto multiplo alla minoranza dei ceti colti.[4] Da ultimo sono sopraggiunti i teorici della “governabilità”, i quali, trent’anni dopo le aperture democratiche del secondo dopoguerra, hanno raccomandato la potatura degli eccessi di pluralismo accentrando il potere nell’esecutivo a spese delle istituzioni rappresentative, non senza auspicare un incremento dell’astensionismo.[5]
Alla lunga, le tecniche di esclusione sono progredite avvalendosi di procedure che incoraggiano o scoraggiano l’esercizio del diritto di voto. Mentre, per condizionare gli esiti delle elezioni, basta anche solo, come insegna l’esperienza americana del gerrymandering, ridisegnare le circoscrizioni elettorali. L’istituzione dell’Unione europea e di un suo parlamento ha dato luogo a una sorta di mostruoso gerrymandering su scala continentale. La lieve propensione degli elettori dell’Europa occidentale per i partiti della sinistra è stata diluita incrociandola con la marcata preferenza per la destra degli elettori dell’ex-Europa socialista.
Servono a selezionare e censurare pure le tecniche di voto – segretezza, cabina e scheda elettorale, personalizzazione o spersonalizzazione delle candidature – le quali incoraggiano e scoraggiano selettivamente la partecipazione, con conseguenze diverse per le forze politiche e per gli interessi che rappresentano. Da qualche decennio il finanziamento pubblico dei partiti premia i concorrenti established rispetto agli outsiders. L’obiettivo è sempre il medesimo: circoscrivere i possibili esiti della competizione politico-elettorale, unitamente alle possibilità d’impiego del capitale statale.
In definitiva, le partite del potere nei regimi rappresentativo-democratici si giocano con carte truccate, distribuite dai giocatori più forti. Che siano libere è solo il principio con cui si legittimano. Ma anche le contese elettorali più oneste nascondono qualche trucco. Nemmeno i paramenti della sovranità popolare sono stati sufficienti a redimere una volta per tutte il racket che lo Stato era in origine. Il bello, o il buono, dei regimi rappresentativo-democratici è che essi di quando in quando riservano qualche sorpresa. Per quanto ci si adoperi per limitare il loro grado d’imprevedibilità, non è stato possibile precludere né esiti elettorali inaspettati, né la comparsa di outsiders non graditi.
L’esigenza di arruolare cittadini in vista della competizione elettorale, e in genere della lotta per il potere, che non si restringe alle elezioni, ma che si conduce anche in altre forme – come la protesta organizzata – ha inoltre consentito al popolo di divenire qualcosa di più che un astratto principio di legittimazione o un destinatario, più o meno accondiscendente, dell’azione di governo. Dacché i concorrenti per il potere hanno avuto bisogno del suo sostegno, l’hanno mobilitato, organizzato e trasformato in soggetto politico, o in una pluralità di soggetti.[6] I pretendenti al potere si sono fatti portavoce delle non-élites, le hanno interessate alla vita politica, le hanno convinte a parteciparvi, più o meno attivamente, le hanno integrate. Hanno proposto loro magari “traguardi irraggiungibili”,[7] persuadendole a crederci. La sorpresa è che la fiducia in tali traguardi ha sì mobilitato il popolo per farne una risorsa nella lotta politica, ma gli ha pur tuttavia concesso una ristretta, ma non trascurabile, porzione di potere, i cui ingredienti sono appunto il diritto di voto, la libertà di pensiero e d’opinione, quella di associarsi, di manifestare, di aderire a partiti e sindacati, di scioperare.
Il conflitto e la contesa per il potere, che sono onnipresenti dentro e fuori lo Stato, costituiscono dunque il presupposto delle sue vicissitudini. Gli addetti allo Stato si sono scontrati con moti continui di resistenza. Ha resistito l’aristocrazia, i suoi rappresentanti, ma anche i rappresentati. Hanno resistito le borghesie e le plebi cittadine, i contadini, la classe operaia e la classe media. La violenza, la miseria, la carestia, le malattie, e le ribellioni popolari, contadine e urbane, sono effetto dell’imperfetta azione dello Stato, delle spoliazioni perpetrate dai suoi eserciti in guerra, delle pretese dei suoi esattori, delle sentenze pronunciate dai suoi giudici, dalle leggi approvate dai parlamenti a beneficio di alcuni e a danno di altri. Ancora nel XIX secolo rivolte sanguinose, suscitate dalla carestia, dalla fiscalità, dalla coscrizione, saranno all’ordine del giorno. Deflagravano spontaneamente, o venivano sobillate da attori interessati a guadagnare posizioni di potere. Le grandi lotte sociali del XIX e del XX secolo sono state la premessa della democrazia di massa e dello Stato sociale. Senza dimenticare i conflitti interni tra le molteplici istituzioni in cui si articola lo Stato e tra i loro addetti, ciascuno dotato di specifiche risorse: i burocrati le pratiche, i magistrati le sentenze, i militari le armi, i politici professionali il consenso degli elettori. L’ultimo tratto del ‘900 è stato segnato dalla fioritura e dalla combattività di quella forma politica, meno originale di quanto sembri, che chiamiamo i movimenti. Mosaico, bricolage, ibridazioni, adattabilità, ma anche manipolazioni, liturgie, illusioni, sono il segreto tanto della durata dello Stato, quanto della sua provvisorietà.
È un tratto persistente dello Stato l’ambizione ordinatrice che gli viene attribuita e che tra i suoi principi di legittimazione è forse il più duraturo. Nessuno Stato ha mai promesso il disordine. Eppure, lo Stato è lo Stato solo in quanto, mentre la pratica lo obbliga a smentire questo principio, riesce comunque a coltivare e mantenere la sua immagine di ordine, di coesione, di coerenza. Nel mondo reale, lo Stato non mostra mai il medesimo volto, e lo stesso modo di operare, al centro e in periferia. Molto pragmaticamente, li cambia da un luogo all’altro. Così come li cambia a seconda dei suoi interlocutori. Un po’ per calcolo, un po’ per necessità. Ad alcune situazioni si arrende, di altre profitta. Come dio e come il diavolo, il potere, o i poteri, dello Stato si celano nei dettagli.
Anche il regime rappresentativo è una tecnica di governo. In nome di essa il monismo imputato allo Stato sovrano è accantonato riconoscendo, con prudente e strumentale parsimonia, la varietà della vita collettiva e l’esistenza della lotta politica, dentro e fuori lo Stato. Capita pure che le istituzioni con cui lo Stato interagisce, si compromette e si ibrida, covino ambizioni espansionistiche a sue spese. La chiesa cattolica ha sovente influenzato la politica e fornito sostegno ai partiti confessionali, insediando ai vertici dello Stato deferenti nei suoi riguardi. A spiccare maggiormente, quanto a mire espansionistiche, sono però le istituzioni dell’economia, o, come si preferisce dire ultimamente, del mercato, che è peraltro anch’essa un’etichetta semplificatrice. Cosa sta perciò accadendo allo Stato?
È fuori luogo classificare come declino la condizione attuale dello Stato. Rispetto alla stagione precedente lo Stato è cambiato, sono cambiate le pubbliche amministrazioni ed è venuto meno il robusto supporto che i partiti avevano costituito per oltre un trentennio. Anche la sociologia dei loro addetti si è aggiornata, così come le strategie e le tattiche del governo degli esseri umani. Nuove ibridazioni e nuovi bricolage hanno sostituito quelli escogitati in precedenza. Ma lo Stato rimane quello che è sempre stato: un mosaico, un assemblaggio – di fazioni, istituzioni, interessi – assediato da altri interessi, istituzioni, fazioni e per ciò stesso vulnerabile, precario, cangiante, contraddittorio.
Fa parte del gioco, o della storia dello Stato, che gli addetti al mercato rivendichino, con formidabile azione promozionale, la propria autosufficienza e supremazia. Né è scandalosa l’accondiscendenza degli attuali addetti allo Stato e alla politica. Difendono la loro quota di potere al cospetto di un’offensiva travolgente. Magari un giorno o l’altro troveranno i mezzi per reagire. Non sarebbe scandaloso neppure se lo Stato fosse spodestato. È destino di qualsiasi potere e prima o dopo accadrà. Converrebbe perciò interrogarsi piuttosto su chi vinca e chi perda nel disordine che lo Stato attualmente consacra quale ordine. I panni dello Stato democratico mascherano il fatto che le vittime di tale disordine sono, con intensità variabile di sofferenza, la stragrande maggioranza degli esseri umani: della popolazione dello Stato e persino del pianeta. Neanche questo è tuttavia scandaloso per chi tenga memoria della genealogia dello Stato, ovvero del racket da cui ha avuto origine. Non basta la tonaca a fare il monaco.
Note
[1] L. B. Namier, The structure of politics at the accession of George III, MacMillan, Basingstoke, 1957, p. 16.
[2] A. O. Hirschman, Le passioni e gli interessi. Argomenti politici in favore del capitalismo trionfante, Feltrinelli, Milano, 1979.
[3] B. Constant, Principes de politique (1815), in De la liberté cbez: les moderncs.. Ecrits politiques, Paris, Librairie Générale Française, 1980, pp. 316-7.
[4] J. S. Mill, Considerazioni sul governo rappresentativo (1861), Editori Riuniti, Roma. 1997
[5] M. Crozier. S. P. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia (1975), Angeli, Milano, 1977.
[6] S. Hayat, La représentation inclusive, in «Raisons politiques», 50, 2013, p. 115-135.
[7] R. Simone, Come la democrazia fallisce, Bompiani, Milano, 2015, p. 40.