Ospitare la follia. Intervista a Pier Aldo Rovatti

Pubblichiamo un’intervista a Pier Aldo Rovatti comparsa su “QLibri”, maggio-giugno 2014 a cura di Barbara Scapolo, uscita in occasione della pubblicazione di “Restituire la Soggettività. Lezioni sul pensiero di Franco Basaglia” (Alpha beta Verlag, 2013).

Barbara Scapolo: Con la sua opera e il suo insegnamento, Rovatti ha soprattutto cercato di approfondire la questione della soggettività nel pensiero contemporaneo mediante un approccio spiccatamente critico e con un preciso riferimento alle dinamiche di potere. Inoltre, egli si è occupato in modo continuativo dei rapporti tra filosofia e psichiatria e, da protagonista, dell’esperienza di Franco Basaglia, che proprio a Gorizia e Trieste ha fatto la sua rivoluzione. Per iniziare, potremmo citare il titolo di uno dei suoi lavori, “La follia, in poche parole” (ediz. Bompiani, 20083), e chiederle di indicarci se davvero la follia s’intrecci strettamente, indissolubilmente, alla nostra essenza…

Pier Aldo Rovatti: Sono arrivato a Trieste nel 1977. Conoscevo Basaglia soprattutto attraverso L’istituzione negata (cfr. ediz. Baldini & Castoldi). Enzo Paci, con cui mi ero formato a Milano, lo teneva in grande considerazione. Seguii da vicino quegli ultimi anni, gli anni della Legge 180 e dei suoi primi effetti. Basaglia morì troppo presto e io mi rammarico di non averlo potuto conoscere meglio di persona. Attraverso “aut aut”, la rivista di cui ero diventato direttore nel 1974, ho poi sempre cercato di valorizzare un’esperienza, pratica ma anche di pensiero, che ancora oggi ritengo decisiva per la cultura contemporanea e che, tuttavia, non è stata ancora metabolizzata. Successivamente ho sempre mantenuto un rapporto di collaborazione con il Dipartimento di salute mentale di Trieste, cioè con coloro che avevano proseguito l’opera di Basaglia.
La follia in poche parole nasce proprio da un seminario con un gruppo di operatori dentro quel contesto. “Non so”, avrebbe potuto intitolarsi, ripetendo il dubbio di Basaglia di fronte alla domanda “Che cos’è la follia?”. Attraverso Foucault, Derrida, Bateson e anche Laing, io volevo mostrare la sorprendente e inindagata presenza della questione della follia nel pensiero contemporaneo. Non parlavo in ogni caso di “essenza” dell’uomo, ma di qualcosa che appartiene alla dinamica stessa del pensare, alla nostra capacità di sregolarci, pur con tutte le contraddizioni e le paradossalità che ciò porta con sé, e senza neppure dimenticare i costi (anche di sofferenza) che occorre pagare.

B. S.: È recentemente apparso un’altra sua opera,“Restituire la soggettività. Lezioni sul pensiero di Franco Basaglia” (ediz. Alphabeta 2013), che, come indicato dal titolo stesso, presenta al lettore le lezioni sul pensiero di Basaglia che lei ha tenuto all’Università di Trieste nel semestre invernale 2008-2009 nell’ambito del suo corso di Filosofia teoretica. Con quest’opera non ci troviamo di fronte al tradizionale saggio accademico, quanto piuttosto ad una narrazione critica a caldo, in dialogo continuo con gli studenti ed alcuni testimoni eccellenti della rivoluzione operata da Basaglia (quali Mario Colucci, Peppe Dell’Acqua, Giovanna Gallio, Maria Grazia Giannichedda, Franco Rotelli, Ernesto Venturini, Michele Zanetti). Il nucleo dell’opera riguarda il problema della soggettività e, più specificamente, cosa significhi e come sia possibile “restituire” la soggettività a coloro ai quali è stata sottratta, come gli ex internati in manicomio. Tema articolato e complesso, che le chiederei di presentare anzitutto spiegando ai lettori di QuiLibri cosa sia da intendersi per soggettività e come sia possibile venirne privati.

P. A. R.: Sono molto contento di avere rilanciato con questo libro il lavoro di gruppo che facemmo in quelle lezioni alquanto inusuali (un corso di “teoretica” su Basaglia?) e forse anche un po’ provocatorie nei confronti dell’istituzione accademica. Finalmente – dopo un relativo silenzio – si tornava a parlare di Basaglia senza ridurlo in schemi stretti e senza stigmatizzarlo con etichette fasulle! Il titolo (“Restituire la soggettività”) è assai meno ovvio di quel che può sembrare, poiché non si tratta di una semplice restituzione, né di dare per scontata la stessa posta in gioco, e cioè la soggettività. La chiusura dei manicomi riapre, grazie all’esperienza vissuta dagli ex-internati, la questione stessa del soggetto. La sua misura non è certo una “normalità” ritrovata – anzi Basaglia parla addirittura di una “patologia” di questa normalità –, piuttosto è l’idea di un oltre, proprio un superamento dell’idea di un soggetto cosiddetto normale.

B. S.: Secondo la sua lettura, il fondamentale impegno teorico e pratico di Franco Basaglia (promotore della riforma psichiatrica in Italia, conosciuto soprattutto quale padre della Legge 180 del 1978 – la prima e unica legge quadro che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio istituendo i servizi di igiene mentale pubblici), è stato proprio quello di restituire la soggettività a tutti coloro che erano stati indelebilmente stigmatizzati come folli e quindi rinchiusi nei manicomi. Egli affermerà esplicitamente che non può chiamarsi “civile” quella società che non è capace di ospitare la follia o, detto altrimenti, che “la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia”. Ed è proprio sulla necessaria ospitalità della follia, anche nella sua forma più estrema, che le chiedo di spendere qualche parola:

P. A. R.: È un’affermazione che, a mio parere, sta al centro del progetto di Basaglia. La troviamo nelle Conferenze brasiliane del 1979 (cfr. ediz. Raffaello Cortina), il suo ultimo testo, e non possiamo tralasciarla o sminuirne l’importanza. È un’affermazione politica: Basaglia si rivolge alla società, la nostra o quella che vorremmo fosse la nostra. Vogliamo essere “civili”? Non vogliamo restare nella barbarie? Allora, nel nostro progetto di democrazia, ci deve essere un posto per la follia. Non basta cessare di emarginare i folli o quelli che, con la lingua della medicalizzazione, chiamiamo “malati mentali”. Dobbiamo far posto a quella parte di sragione che è in ciascuno di noi.
Qui Basaglia incrocia Foucault: follia viene chiamato tutto ciò che non rientra nei binari, negli schemi della “razionalità”. Binari e schemi rigidi, escludenti, punitivi: un tribunale della ragione che è stato codificato nel corso di tutta la modernità, un vero letto di Procuste in cui ciascuno di noi deve sdraiarsi per venirne mutilato, e che nessuno vorrebbe far diventare lo specchio della propria soggettività.

B. S.: Ma chi è il malato mentale per Basaglia? In “Restituire la soggettività”, lei riporta una considerazione di Erving Goffman (autore, tra l’altro, di “Stigma. L’identità negata”, ediz. Ombre Corte 2003): egli diceva che uno psichiatra può recarsi senza alcun disagio, anche senza conoscere la lingua, in qualunque manicomio del mondo perché la scena e le quinte non cambiano mai. Possiamo approfondire tale affermazione?

P. A.R.: Credo che Basaglia avesse soprattutto in mente le pagine di Asylums sull’istituzione totale (cfr. E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi 2003). Quando parla della fissità del teatro della malattia mentale non siamo più a Gorizia ma già alla fine del periodo triestino. Un giovane psichiatra (Peppe Dell’Acqua, che diventerà uno dei protagonisti del dopo-Basaglia) gli fa leggere un libro che sta pubblicando (si tratta di Non ho l’arma che uccide il leone, nella sua prima versione, ora in ed. Stampa Alternativa 2007) e Basaglia reagisce con alcune note: “Stai attento – gli dice – gli psichiatri sono delle brutte bestie e rischiano ogni volta di diventare i registi di quelle scene bloccate che si ripetono in ogni manicomio e in ogni dispositivo di contenimento”.
Insomma, Basaglia avverte il bisogno di una dislocazione o almeno di una sospensione del mandato sociale dello psichiatra. Con il che ritiene necessaria anche una dislocazione della malattia mentale che, fissandosi, immobilizzando i soggetti, paradossalmente snatura e cristallizza la follia stessa, annullando ogni sua carica o riserva di vita. Sedandola. Altro che “ospitalità”!

B. S.: Profondamente critico nei confronti del proprio stesso sapere, Basaglia infatti afferma: “È sempre stato un luogo comune che non è una buona cosa mettersi nelle mani di uno psichiatra. Questo luogo comune sembra essere la vera storia della psichiatria e dello psichiatra. Visti i risultati ottenuti dalle istituzioni psichiatriche, fuori dai luoghi comuni, non è proprio il caso di mettersi nelle mani dello psichiatra”. Vi è stata, in quegli anni ma forse anche oggi, una resistenza formidabile da parte degli stessi colleghi psichiatri al lavoro di Basaglia, e i veri e propri detrattori non sono mancati. L’accusa principale rivolta al suo operato è stata addirittura quella di “anti-psichiatria”. Vogliamo parlare di questa resistenza?

P. A. R.: Palesi o subdoli (magari nascosti dietro a un finto elogio), la famiglia dei detrattori di Basaglia è molto numerosa. All’epoca delle mie lezioni si era appena espresso con molta durezza colui che era stato al suo fianco negli anni di Gorizia, cioè Giovanni Jervis. Lo accusa di tante cose (di ideologismo sessantottino, di culto della personalità, di rifiuto della scienza), alle quali il mio libro dà risposte ampie e documentate.
Qui mi limito a tornare sull’accusa di anti-psichiatria che è la più complessa da trattare, non perché Basaglia pensasse di distruggere questo sapere o di fare l’elogio della “bellezza” della vita dei folli (basta leggere qualche sua pagina per capire quanto siano superficiali tali critiche), ma soprattutto per il fatto che il suo lavoro anti-istituzionale e dentro le istituzioni è dall’inizio alla fine una critica radicale della psichiatria stessa come istituzione e come “falso” sapere istituzionale. Il rifiuto netto del “mandato sociale” dello psichiatra come sorvegliante della malattia mentale, la sua idea che innanzitutto occorre rompere i muri dell’istituzione chiusa e che questo gesto è l’introduzione necessaria a ogni terapia concreta e non illusoria, non lascia dubbi. Si può tentare di snaturarla a difesa dei privilegi dello psichiatra, e questa sì è una controffensiva marcatamente ideologica. Ma come si fa a negare che Basaglia abbia sempre mirato alla costruzione di un sapere civile e fondato sulle soggettività concrete, anteponendo il malato alla malattia e quindi dissentendo decisamente da chi vedeva e vede soltanto la malattia, cioè un cervello malato, e perde completamente di vista il malato?

B. S.: Nella “Genealogia della morale” Nietzsche sostiene che noi non sappiamo nemmeno più perché puniamo… In “Restituire la soggettività” lei afferma di non aver mai conosciuto “una punizione che possa essere formativa. […] È la società che vuole la punizione, per la propria salvaguardia”. In effetti, è al binomio follia-pericolosità sociale che si deve ricondurre il perdurare in Italia di strutture come gli Ospedali psichiatrico-giudiziari (gli OPG), nonostante la Legge 180. Del 1° aprile 2014 è il decreto di proroga urgente della norma del dicembre 2011 che sancisce l’ulteriore slittamento (fino al 2017) della loro chiusura definitiva: circa mille persone (803 uomini e 91 donne) che hanno commesso un reato penale ma sono affette da disturbi mentali, resteranno dunque internate in strutture simili ai manicomi criminali dell’Ottocento, strutture fatiscenti indegne di un paese civile (con bagni turchi sotto i letti, condizioni sanitarie pessime, nessuna cura in atto per gli internati). Qui possiamo solo sfiorare la grande questione delle contraddizioni scaturenti dalla detenzione e dall’isolamento perenni imposti ad alcuni individui perché considerati folli e colpevoli, oppure semplicemente colpevoli, come ad es. nel caso dell’ergastolo ostativo, anomalia tutta italiana (tema, quest’ultimo, affrontato nel precedente n. di QuiLibri, cfr. n. 22 – marzo/aprile 2014)…

 

P. A. R.: Il tema della “morte bianca” resta attuale, nonostante tutto. E lo stigma della “pericolosità sociale” è ancora attivo e operante. Basterebbe entrare nel vivo della battaglia che proprio oggi si combatte contro la sopravvivenza degli Ospedali psichiatrico-giudiziari. Il famoso “cavallo azzurro” di Trieste è stato portato da Dell’Acqua in giro per la penisola a diffondere questa denuncia.
Gli OPG verranno definitivamente soppressi? Già lo si era deciso, ma la realizzazione concreta di questo gesto minimo di civiltà si lascia attendere perché il gesto sembra minimo ma la sua posta in gioco è enorme, appunto perché cancellerebbe la convinzione comune che il malato di mente è potenzialmente pericoloso e perché il binomio follia/pericolosità sociale tiene tuttora in piedi l’ideologia del malato di mente. Se questo binomio venisse definitivamente sciolto, avremmo quella trasformazione culturale in vista della quale Basaglia ha continuamente lavorato, e la nostra società potrebbe finalmente cominciare a “ospitare la follia”. Ma non sarà così semplice.

B. S.: Chiuderei questa nostra riflessione chiedendole se allora tra i compiti primari della riflessione, sulla scia dell’insegnamento di Basaglia non meno che di Michel Foucault, permanga la necessità di resistere a tutti quei saperi e poteri “normalizzatori” (come quello psichiatrico o giuridico), che sono costruiti e costruiscono un’idea di uomo in buona salute, riconciliato con se stesso, equilibrato, sereno, “normale”, in una parola, ASTRATTO. Cosa dobbiamo rifiutare risolutamente e cosa dobbiamo combattere?

P. A. R.: Ho già accennato qualcosa sulla questione della normalizzazione. Dopo la 180, ma anche prima, Basaglia aveva ben chiaro il fatto che se si affronta la malattia mentale l’orizzonte subito si amplifica alla patologia della normalità, alla nostra normalità decisamente malata di individualismo e di egoismo, a una società che utilizza il paradigma terapeutico per riconfermare a ciascuno, fin da piccolo, una sorta di sanzione: “Tu sei vulnerabile e potenzialmente malato”.
Perciò la prospettiva di pensiero di Basaglia – che non a caso ci ostiniamo a denegare – non può che rappresentare una prospettiva politica di trasformazione della società intera a partire da coloro che sono stati classificati come malati mentali. Abbiamo dedicato recentemente un fascicolo di “aut aut” ai rischi della diagnosi psichiatrica (cfr. “aut aut”, n. 357, gennaio-marzo 2013), che possono incombere sull’esistenza di ognuno di noi, e abbiamo pensato che questo fosse un modo significativo per riallacciarsi all’eredità di Basaglia.
Quanto all’alleanza tra Basaglia e Foucault, ecco un mondo culturale importante da comprendere e ancora da sviluppare. Su livelli molto diversi, Foucault e Basaglia procedono insieme, possono scambiarsi le parti, mettere in comune le loro cassette per gli attrezzi. Anche qui, quante amnesie e quante censure, come se il rapporto tra potere e sapere non fosse per entrambi la questione fondamentale che ci aiuta ad analizzare i dispositivi che bloccano le nostre vite e a scorgere le possibili “resistenze” a tali dispositivi, le mosse o le contromosse che pure sono possibili per aprire varchi concreti e nutrire una consapevolezza non velleitaria della nostra condizione.

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