Le mafie di Roma. Dibattito pubblico e problemi di definizione (Seconda Parte)

Pur con molteplici significati, il tema delle mafie tradizionali – o meglio, “meridionali” – a Roma e nel Lazio è largamente accolto nel dibattito pubblico capitolino. Molto più timido è invece l’approccio espresso dalle istituzioni e dagli organi di contrasto. 
Qui la prima parte.

 

Tutt’oggi la magistratura laziale è notoriamente poco avvezza al riconoscimento del reato di associazione mafiosa ai gruppi (tradizionali o autoctoni) operanti in regione. Non è un caso che, ad oggi, le conoscenze principali sugli insediamenti mafiosi laziali provengano dalle procure meridionali mentre in dotazione alla Direzione distrettuale antimafia romana (Dda) non esiste ancora un lavoro che cumuli con sistematicità una “memoria storica”. Se, da un lato, resta ignorata la mafiosità della criminalità autoctona, dall’altro permane l’assenza di una strategia condivisa che rende frammentata l’azione di contrasto anche verso i gruppi di ‘ndrangheta, camorra e Cosa Nostra.

Finora i discorsi della magistratura laziale si limitano al seguente adagio: le mafie tradizionali nel Lazio sono quasi esclusivamente vocate agli affari, dunque silenti e solo raramente inclini alla violenza. La Commissione antimafia individua tre forme di espansione mafiosa in aree non tradizionali: colonizzazione nel Nord-Ovest; delocalizzazione nel Nord-Est; espansione economica nel Centro (Toscana e Lazio) e sul territorio laziale non si riscontrano (in maniera sufficiente) gli elementi che tipicamente connotano l’associazione di stampo mafioso: la forza di intimidazione, la condizione di assoggettamento, l’omertà, il capillare controllo del territorio[1].

Questa presenza non opprimente (“si spara di meno, si fanno affari”) annulla la possibilità di riconoscimento delle mafie in sede giudiziaria. Se tutti concordano che l’espansione economica non implica il metodo mafioso, ovvero la condizione di “assoggettamento” e di “omertà” nella società locale che in qualche modo anticipano l’intimidazione, allora non si può applicare il 416bis.

Queste tesi possono essere ampiamente messe in discussione su vari fronti. Prima di tutto, non sembra condivisibile l’esclusivo carattere silente delle mafie romane, la cui presenza – come accennato nella prima parte – molto spesso va ben al di là di una mera espressione di reticoli di colletti bianchi. In secondo luogo, l’interpretazione della legislazione antimafia appare estremamente inadeguata a riconoscere i tratti di mafiosità espressi nel Lazio. Nei contesti in cui un gruppo è storicamente radicato, ci sarebbe una accettazione tacita del metodo mafioso nella società locale, concepita dai più come conseguenza delle condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno. La Dda di Roma, avallando questa Tesi, afferma che nel Lazio non vi sono insediamenti abitativi di tipo incontrollato sotto il profilo urbanistico (come i quartieri di Scampia o di La calza) in cui l’ambiente, la disoccupazione, il degrado abitativo agevola la penetrazione mafiosa. In sostanza non si riscontrano, sul territorio romano e laziale, gli elementi che connotano l’associazione di stampo mafioso: la forza di intimidazione, la condizione di assoggettamento, il vincolo di omertà. Del resto su 279 procedimenti aperti dalla Dda, solo 17 ipotizzano il delitto di cui all’art. 416 bis[2].

Una interpretazione di matrice culturalista, che genera «una sorta di cortocircuito tra interno ed esterno, poiché in definitiva la mafia non è distinguibile dal suo contesto di riferimento»[3]. Intrisa del vocabolario tipico del contagio, tale narrazione fa cadere la possibilità di «configurare l’esistenza di associazioni mafiose in regioni refrattarie, per una serie di ragioni storiche e culturali, a subire i metodi mafiosi»[4].

La Corte di Cassazione ha più volte sostenuto che l’assoggettamento e l’omertà, più che elementi qualificanti l’entità dell’intimidazione, sarebbero conseguenze della carica maturata dal sodalizio nel substrato civile della società. Ciò pone i magistrati di fronte a un bivio, nella misura in cui gli si richiede non solo di giudicare le organizzazioni, ma di giudicare la stessa società locale a rischio di infezione. Definendo mafioso un gruppo che si è sostanzialmente generato e che è operativo nel Lazio, il magistrato deve giudicare i romani come portatori di quei tratti sociali e culturali riscontrabili nei territori del Mezzogiorno. L’oggetto del giudizio trascende dalla “mafia-organizzazione” per ricomprendere la “mafia-subcultura”.

In questo quadro si spiega l’imbarazzante ritardo con cui si registra la prima Sentenza per 416bis nella storia della magistratura laziale (2012)[5]. L’importanza della Sentenza è sottolineata da Giuseppe Pignatone[6], dal marzo 2012 Procuratore Capo della Dda di Roma, che sembra aver avviato un approccio differente. L’operazione Nuova Alba del luglio 2013 contesta proprio il reato di associazione mafiosa al cartello di clan operanti da decenni sul litorale romano, segnando un cambio di passo nelle strategie di contrasto: tra gli imputati compaiono nomi storici del crimine autoctono come i Fasciani e gli Spada, ma anche espressioni di Cosa Nostra (Triassi e D’Agati).

Prima ancora delle sentenze, si rilevano notevoli elementi di inefficacia anche in sede cautelare. Per discuterne occorre spostarci da Roma alle province meridionali del Lazio (Latina e Frosinone)[7]. Su sollecitazione delle Dda campana e calabrese, le locali procure hanno qui mostrato una certa efficacia nell’arginare l'”ala militare” dei gruppi di camorra e di ‘ndrangheta trasferitisi nel Pontino. Ma paradossalmente la repressione non è mai seriamente intervenuta sui reticoli di concorso esterno, lasciando operativo il tessuto di politici, professionisti e burocrati che lì continua a operare indisturbato[8].

Ma è nel Frusinate che si registra il caso più emblematico di negazione della presenza mafiosa come negazione della mafiosità del contesto, che fa cadere la fattispecie giudiziaria della camorra oltreconfine. Nell’area di Cassino, cento km a sud di Roma, è attiva una vasta associazione criminale sin dagli anni Settanta avamposto della federazione dei casalesi[9]. Originariamente il gruppo funge da base per estorsioni e attentati ma, dagli anni Novanta, passa progressivamente al reinvestimento dei proventi in una miriade di attività “lecite” (compravendita di automobili, gioco d’azzardo, mobilifici). Questa trasformazione riduce sia le forme esplicite di violenza o di intimidazione, sia le azioni di controllo territoriale e dei settori economici di interesse. Quando la magistratura campana ottiene condanne esemplari per i principali capi casalesi, la camorra del cassinate può far riferimento su un gruppo collocato in luogo esterno dalla diretta competenza della Dda di Napoli e resosi indipendente.

Significative le indicazioni del Giudice per le udienze preliminari che, pur riconoscendo i precedenti rapporti con la federazione casalese, sancisce l’avvenuta autonomia dell’organizzazione dalla “casa madre” («Non vi sono conversazioni in cui gli interlocutori ragionino di truffe, di rapporti con il clan o di denaro da reinvestire proveniente da tale organizzazione») e il definitivo superamento dei tratti tipici della mafiosità giudiziaria («Non vi sono conversazioni in cui si ragioni di estorsioni, o di come minacciare od intimidire qualcuno»)[10].

Ma, a ben vedere, ciò che il magistrato rileva è che nel basso Lazio non si genera quell’assoggettamento automatico che avrebbe reso superflue forme di intimidazione o di controllo del territorio. In altre parole la società locale, pur a pochi chilometri dal territorio in cui la camorra ha espresso per trent’anni un dominio incontrastato, si mostra immune alla reputazione criminale dei camorristi. Il magistrato derubrica così il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso in associazione semplice, efficace ai fini del sequestro dei patrimoni, ma ancora un macigno verso il definitivo riconoscimento nel dibattito pubblico dell’esistenza di una camorra laziale.

Note

[1] Commissione antimafia (2013), Relazione conclusiva, XVI legislatura, febbraio, p. 181.

[2] Direzione Nazionale Antimafia, Relazione annuale, dicembre 2012, p. 703.

[3] R. Sciarrone (2009), Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione, Donzelli, Roma, p. XVIII.

[4] Si vedano sul punto A. Balsamo e S. Recchione (2013), L’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in Diritto penale contemporaneo, Papers.

[5] Sentenza ai danni di un gruppo misto operante da Nettuno al Circeo e fino all’alta provincia di Latina, capeggiato da Mariarosaria Schiavone (campana, nipote del più noto Francesco Schiavone detto Sandokan) e dal marito Pasquale Noviello (criminale laziale).

[6] G. Scarpa, Stangata alla camorra dei Casalesi nel Lazio, in “La Repubblica”, 17 novembre 2012.

[7] Sul punto si fa riferimento al saggio di L. Brancaccio e V. Martone (2014), L’espansione in un’area contigua. Le mafie nel basso Lazio, in R. Sciarrone, Mafie del nord. Strategie criminali e contesti locali, Donzelli.

[8] Due esempi eclatanti in cui vengono clamorosamente tralasciati molti legami esterni sono: l’operazione Formia connection contro i Bardellino, camorristi trasferitisi a Formia e accusati di estorsione ai danni di una Cooperativa di servizi comunali; le operazioni Damasco e Sud Pontino contro i Tripodo, nota famiglia ‘ndranghetista trasferitasi a Fondi, accusati di pesanti infiltrazioni nell’amministrazione locale e nella logistica del Mercato Ortofrutticolo.

[9]  Si tratta dei De Angelis, il cui capofamiglia è parente di Francesco Schiavone Sandokan. Nel gennaio 2013 al gruppo è stato confiscato un patrimonio di circa 80 milioni di euro. Tutte le informazioni menzionate al riguardo traggono fonte da atti ufficiali e resoconti giudiziari, anche se sulla posizione di molti affiliati si è tuttora in fase dibattimentale.

[10] Tribunale di Frosinone (2011), Decreto di confisca dei beni nei confronti di De Angelis Gennaro e altri.

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