Le lamiere di Deep Sea, Nairobi

Lamiere. Storie da uno slum di Nairobi”  è un reportage a fumetti.

 

Giorgio Fontana, Danilo Deninotti e il disegnatore Lucio Ruvidotti raccontano in questa opera di graphic journalism il loro incontro con la quotidianità dei residenti della baraccopoli Deep Sea, la zona più povera della capitale keniana, e con  quella di chi tenta di offrire il proprio aiuto. Un dialogo con i tre autori, a cura di Lorenzo Alunni.

Lorenzo Alunni.: Quando che si ha a che fare con il lavoro di una Ong o di altre organizzazioni simili, a volte i dilemmi non mancano, fra l’ammirazione per il loro operato e lo sconforto della consapevolezza che è una goccia nel mare, fra la voglia a impegnarsi con o come loro e, talvolta, le perplessità sulla loro organicità alle situazioni affrontate. Ripenso per esempio a frate Marangi che, verso l’inizio di Lamiere, vi dice che le Ong vengono lasciate tranquille perché «dopotutto colmano il vuoto di politiche locali che c’è in questo paese». In una configurazione — tanto politica quanto pratica, morale ed emotiva — di questo tipo, che posto ha un’operazione come quella di Lamiere?

Speriamo si possa riconoscere come un’operazione “onesta”. In Lamiere ci muoviamo principalmente su due piani: uno descrittivo, in cui cerchiamo di riportare oggettivamente quello che abbiamo vissuto, e uno riflessivo, dove soggettivamente tentiamo di affrontare i problemi incontrati, per lo più ponendo nuove domande. Il fumetto racconta, ammettendolo, un’esperienza particolare, la nostra, ma lasciando spazio ad alcuni ragionamenti di ampio respiro. Crediamo che questo approccio metta in qualche modo tra parentesi la “configurazione”, pur avendo consapevolezza della sua esistenza, in quanto dato reale di partenza.

D’altronde questo approccio è parte integrante della storia del libro, dove lo stimolo iniziale non è stato l’interesse specifico per la condizione degli slum kenioti, ma la necessità di mettere alla prova il nostro approccio al fumetto e al reportage in un contesto che ci è stato proposto. E fa anche parte della “fortuna” del libro: se Rainbow avesse operato a Mathare, anziché Deep Sea, Lamiere sarebbe stato forse impossibile da realizzare. Mathare, per come l’abbiamo intravisto in una giornata, è un luogo enorme e complesso, una metropoli nella metropoli. Deep Sea invece è un kijiji, un “villaggio”, che si può iniziare a scoprire e raccontare in dieci giorni, ma che rappresenta anche il grado zero della baraccopoli. La scelta di seguire proprio Rainbow 4 Africa ci ha ripagato con la possibilità di raccontare per intero una storia e allo stesso tempo affrontare delle riflessioni sensate su quel contesto.

L.A.In uno degli inserti informativi che avete inserito in Lamiere, riportate il dato secondo cui, nel mondo, una persona su otto vive in aree simili allo slum di Nairobi dove vi trovavate. È un numero enorme. Mi chiedevo allora se, nel riflettere sulle forme di narrazione adatte a questo caso, vi è capitato di pensare al rapporto fra Deep Sea come caso in sé e, invece, a Deep Sea come caso fra i tanti. È qualcosa che ha influito — o avrebbe potuto influire — sulle vostre politiche della rappresentazione?

Prima di partire ci eravamo documentati abbastanza a fondo sulla situazione degli slum a Nairobi e più in generale nel mondo; certo senza pretese di esaustività, ma per arrivare quantomeno preparati. Sapevamo che Deep Sea fa parte di un arcipelago di slum, non è un’eccezione ma è figlia di un enorme problema strutturale che volevamo indagare. Ma al contempo ci pareva un ottimo soggetto di indagine, perché particolarmente piccola e dimenticata. Non è Kibera, per intenderci.

Quindi la nostra metodologia è stata piuttosto chiara fin dall’inizio: abbiamo usato il fumetto per raccontare una realtà individuale e le storie che conteneva sullo sfondo di altre. Certo abbiamo spesso percepito una tensione fra generalità e singolarità: ad esempio la definizione operativa di “slum” contro l’impatto materiale con Deep Sea o Mathare. A livello grafico, questa tensione viene resa esplicita con l’alternanza tra fumetto vero e proprio e infografica (ma non solo).

È un aspetto comune a ogni reportage di questo tipo, e che non va assolutamente dato per scontato: pensiamo ad esempio ai vari resoconti sui barconi di migranti nel Mediterraneo. Ogni episodio è dolorosamente unico, e insieme parte di una teoria di episodi simili. Ridurre tutto al singolo caso significa liquidare la questione politica che vi sta dietro — e nel peggiore dei casi cedere a una retorica della vittimizzazione indistinta — ma concentrarsi solo sul punto generale contiene un rischio di astrazione eccessiva, per cui i corpi e la violenza che vi è esercitata svaniscono dal discorso.

L.A.C’è un passaggio interessante in cui un ragazzo dello slum vi chiede «Dai, scrivi la mia storia». Poi qualcuno dice a Lucio Ruvidotti, il disegnatore sempre armato di macchina fotografica: «Fai una foto ad Anastasia che danza». Se ve ne siete dati, quali sono stati i parametri dietro le scelte di cosa raccontare e cosa lasciar fuori del vostro vissuto a Deep Sea?

L’idea era documentare ogni accadimento che avremmo vissuto e raccontare ogni cosa. Chi era con noi (i volontari di Rainbow, i frati), le persone di Deep Sea e chiunque incontrassimo sapeva che avremmo preso nota di tutto e che le scene, le informazioni, i dialoghi sarebbero potuti entrare nel fumetto. Se c’era qualcosa che avrebbero preferito evitare venisse raccontato — perché troppo intimo o perché avrebbe potuto mettere loro inutilmente nei guai — ce lo avrebbero detto: questo era il patto. E a questo patto ci siamo attenuti. Un esempio di questo tipo di “censura” è rappresentato dall’assenza nel fumetto di una presenza costante e cruciale per molte attività di Marangi; una persona che funge in qualche modo anche da tramite tra il governo e i frati che, appunto, ci ha chiesto di non essere mostrata. Narrativamente un peccato: perché la sua è una storia molto interessante a livello antropologico e ci avrebbe permesso di aprire una finestra sulla vita di una determinata fascia sociale urbana.

Inoltre, in fase di stesura, abbiamo dovuto compiere cesure per evitare la ricorsività di determinate situazioni. Banalmente, abbiamo incontrato molte più persone di quelle di cui raccontiamo frammenti di esistenza; e abbiamo scelto quelle che potessero essere più funzionali alla rappresentazione dei vari temi che tocchiamo. Tagli che a volte sono stati anche dolorosi. Un esempio in questo senso è l’assenza nel fumetto di una donna musulmana, Fatuma: la prima persona che Marangi ha incontrato a Deep Sea e con cui ha iniziato a collaborare. Una storia bellissima; ma per una serie di motivi, durante la nostra permanenza a Deep Sea, abbiamo incontrato Fatuma poche volte; quindi sarebbe stato formalmente troppo complesso, forzato e debole, integrarla nella narrazione.

L.A.All’inizio della vostra esplorazione di Deep Sea, frate Carmelo vi dice: «Per comprendere questo posto, dovete ricordarvi che il vostro sguardo non è neutrale». Ci sono stati dei momenti in cui avete toccato con mano questa non-neutralità?

La questione dello sguardo e della soggettività del punto di vista sono due tra i punti chiave con cui abbiamo affrontato l’esperienza sul campo e la stesura e il disegno del fumetto. Ci è voluto qualche giorno per capire quello che voleva dirci Carmelo. Il nostro sguardo bianco e occidentale è in qualche modo programmato, pronto, abituato a inquadrare e definire vittima chi vive nella povertà sociale ed economica estrema. Chiaramente, è vero anche quello — pensiamo ai bambini — ma è limitante. A Deep Sea abbiamo incontrato anche tanti esempi straordinari di autogestione e resistenza. Inoltre, restare ancorati alla visione di cui sopra, porta a un solo tipo di reazione: l’indignazione. E fermarsi all’indignazione rischia di fornire mere risposte emergenziali e non permette di comprendere il nocciolo della questione strutturale: perché, per esempio, esistono luoghi del genere? Ed è per questo che abbiamo scelto di mettere in scena il nostro percorso, di mostrare la nostra soggettività, usandola come mezzo interrogativo alla ricerca di risposte.

L.A.A un certo punto vediamo i bambini di Deep Sea disegnare Marangi, il frate italiano della missione locale. È un passaggio che ci ricorda come le rappresentazioni siano sempre reciproche. A questo proposito, sapete se la gente di Deep Sea e della missione ha visto Lamiere? Come hanno reagito?

Tramite social network siamo ancora in contatto con molti abitanti di Deep Sea che sono presenti nel fumetto. Durante la lavorazione ci chiedevano costantemente aggiornamenti sull’uscita del libro. Ma anche mentre eravamo lì ci ripetevano di non vedere l’ora di vedersi su carta e ci chiedevano se avremmo mandato loro qualche copia; cosa che siamo riusciti a fare, tramite Marangi. Il fatto che le loro storie, ma anche il loro semplice esistere, venissero rappresentati era ed è fonte di una felicità e soddisfazione autentiche.

Anche i volontari di Rainbow e i frati hanno letto il fumetto. Vi ci sono ritrovati e hanno avuto reazioni positive e orgogliose. Ne siamo molto lieti, perché nei loro confronti (così come verso gli abitanti di Deep Sea) sentivamo una fortissima responsabilità ch speravamo di riuscire a ripagare con il nostro lavoro.

In Lamiere citate molto opportunamente Hannah Arendt, quando ci ricorda che «la storia ci dice che non è affatto cosa scontata che lo spettacolo della miseria spinga gli uomini alla pietà». È un rischio che corre anche il vostro libro, come tutti i libri su questi temi. È qualcosa che vi spaventa? Ed è un pericolo che avete cercato di affrontare in fase progettuale e di realizzazione del reportage?

L’assenza di empatia è uno dei nostri crucci. Uno dei problemi è dovuto, secondo noi, appunto al fatto che la spettacolarizzazione della miseria non basta. Anzi, a forza di mostrare situazioni del genere (spesso senza contesto), il rischio è che già il solo fatto di esserne venuti a conoscenza, l’aver reagito con un “poverini”, faccia sentire assolti. Ed è per questo che abbiamo scelto a priori di un’impostazione fortemente non pietistica. Ci sono sicuramente molte situazioni e immagini tristi e dolorose; ma abbiamo cercato di fare un lavoro più in profondità, in modo da stimolare il lettore. Per rompere ulteriormente il concetto espresso da Hannah Arendt: neanche la pietà è sufficiente. Serve azione.

 

Dite che l’obiettivo di Lamiere è «provvedere al bisogno narrativo» della gente di Deep Sea», e di «prendervi cura della storia di queste persone, salvarla dall’oblio». Eppure, aggiungete anche che «non basta raccontare per sentirsi assolti». Ovvero? Come porsi di fronte a questo paradosso? Se di paradosso si tratta…

Forse parleremmo più di tensione che di paradosso: in ogni caso da questa tensione non si può uscire. Anzi, è parte fondamentale del nostro lavoro e del modo in cui intendiamo il rapporto tra narrazione e azione. Raccontare è certamente importante e occorre farlo con grande cura: fornendo un contesto, cercando di riflettere sul dato senza limitarsi a riportarlo, badando a evitare il pietismo e così via. È un mezzo molto potente, ma proprio per questo assai pericoloso; perché, appunto, è insufficiente per ritenere finito il proprio contributo al miglioramento della società. Se tutti ci limitassimo a raccontare, nessuno più agirebbe.

Del resto non bisogna cadere nel pessimismo di segno opposto: le persone di Deep Sea con cui abbiamo conversato erano molto spesso felici di raccontarsi e liete di sapere che la loro storia sarebbe stata raccolta in un libro. Per loro è stato utile e in alcuni casi anche motivo di orgoglio. Resta inteso che abbiamo cercato di operare in ogni contesto con il massimo pudore, perché queste storie appartengono comunque a loro — e continuano al di là del libro.

E quindi torniamo al punto di partenza. Ci siamo a lungo interrogati su questo problema. Raccontare la realtà — specie se si tratta di una realtà marginale e soggetta a una miseria terribile — è indispensabile; ma insufficiente. Uno può leggere Lamiere e ritenere di aver fatto il suo dovere con la semplice lettura. Noi potremmo esibire la medaglia di “giornalisti impegnati” perché “siamo andati sul campo”. Conosciamo questo tipo di retorica, e non ci è mai piaciuta.

L.A.A un certo punto, come sempre in situazioni di questo tipo, vi è arrivata la fatidica domanda: «E noi cosa ci guadagniamo?» La vostra risposta è stata che avreste raccontato la sua storia e che «ci sarà interesse, magari delle donazioni». Secondo la vostra esperienza, quanto spesso l’interesse di un lettore corrisponde alla disponibilità alla donazione? Quanto spesso un lettore diventa non solo donatore, ma anche una persona semplicemente più informata “sensibile” alla situazione e ai temi trattati? Mi succede spesso di provare forte interesse per il tema trattato in un libro, mentre lo leggo, ma di rendermi poi conto che il mio interesse non esce da quel libro…

Non abbiamo abbastanza esperienza per dare una risposta numerica, quindi di qualche valore. Di sicuro è stata una gioia ricevere recentemente una mail da uno dei responsabili di Rainbow che ci annunciava una donazione esplicitamente arrivata dalla lettura del libro.

Come autori una delle cose che ci ha sorpresi è notare l’impatto forte che ha il nostro libro sui lettori. Il tema non fa cronaca ed è poco trattato in generale, inoltre abbiamo scelto — fin dalla copertina — una modalità di presentazione e narrazione non sensazionalistica… tutto ciò probabilmente fatica ad attirare il lettore non consapevole del contenuto. Però immancabilmente chi legge Lamiere rimane scosso, addirittura impressionato, dalle immagini ma soprattutto coinvolto emotivamente e razionalmente. Per noi questo è importantissimo e vale il lavoro che è stato fatto. Certo, ci auguriamo che questo interesse si concretizzi in qualcosa di più, ma starà all’individuo scegliere se e come trasformarlo in azione, piccola o imponente che sia.

L.A.In uno dei passaggi più toccanti di Lamiere, leggiamo: «Cosa spinge queste persone a inginocchiarsi di fronte a un dio bianco? Chiedono perdono. Ma perdono per cosa?». Viene da chiedersi se anche la presenza di una Ong in un contesto come quello di Deep Sea corrisponde a una sorta di richiesta di perdono, come spesso si è detto a proposito delle motivazioni storiche, cultural-religiose e, se vogliamo, psicologiche che stanno dietro all’impresa umanitaria. L’umanitarismo e il «bisogno narrativo» — compreso quello di Lamiere — sono forme di redenzione, o quantomeno di elaborazione di una sorta di soggiacente senso di colpa occidentale?

Non si può negare che il primo incontro con Deep Sea è inevitabilmente doloroso. Lo è sia per l’evidente ingiustizia delle condizioni di vita dello slum, sia per il bagaglio storico di sopraffazione che ci portiamo dietro come bianchi europei, cosa che effettivamente in qualche modo pesa. Ma credo possiamo affermare con sicurezza che Lamiere non nasce da una necessità di redenzione né dal bisogno di confessare i nostri peccati ancestrali.

Il senso di colpa è molto lontano dai nostri orizzonti e sicuramente non abbiamo voluto andarlo a cercare di proposito per l’occasione di questo lavoro. Ma su un piano più pratico e forse più pregnante, Lamiere è nato come conseguenza del nostro percorso di ricerca e impegno nell’ambito del reportage a fumetti: si è creata l’occasione di seguire Rainbow 4 Africa in una loro missione, il loro progetto di Nairobi ha fatto risuonare in noi tutta una serie di domande e interessi condivisi, si è concretizzata la possibilità di pubblicare il risultato, siamo partiti. Insomma, fin dall’inizio il progetto è stato guidato da curiosità e impegno professionali, oltre che umani. Poi abbiamo fatto un’esperienza estremamente significativa — di nuovo, sia sul piano umano che professionale — e abbiamo cercato di raccontarla nella maniera più onesta possibile.

È essenziale sottolineare questo punto, perché parte dell’esperienza è stato capire che forse l’aspetto più importante di tutta l'”operazione” è stato proprio visitare quei luoghi e soprattutto conoscere quelle persone. L’incontro e lo scambio a livello culturale, umano, amicale hanno lasciato a tutti noi qualcosa di unico che ha contribuito a farci cambiare e migliorare come persone. E ci è sembrato che la cosa sia stata reciproca con molte delle persone incontrate. Significativo è che anche per altri “operatori” questo sia un punto chiave. Oltre ai volontari di Rainbow e ai frati Ettore e Carmelo abbiamo avuto in questo anno vari scambi con persone impegnate in esperienze e progetti di cooperazione a Nairobi e non solo: nonostante sia sempre presente una genuina passione verso i progetti proposti e l’aiuto che arrecano, talvolta rimane un velo di scetticismo sul fatto che l’utilità delle azioni di aiuto si completa. Però non ci sono mai dubbi rispetto al fatto che l’incontro e lo scambio culturale e interpersonale rappresentino una componente irriducibile e positiva dei progetti, la componente a cui nessuno è disposto a rinunciare.

Per noi proprio queste relazioni hanno fatto crescere senso di responsabilità e impegno nella vita quotidiana, prima ancora che nella partecipazione a qualche nuovo progetto. E questo è un fatto molto concreto che lascia poco spazio a un approccio pietista o di autoassolvimento.

L.A.Una volontaria di Rainbow dice: «Adesso scatto una foto e quando torno la appendo in camera dei miei figli». E uno dei frati: «A volte mi sento in colpa anche a bere un caffè, perché il costo del caffè sfamerebbe qualcuno. Ma sono contraddizioni insolubili». Qual è la posizione e il ruolo di una narrazione come quella di Lamiere in tale insolubilità?

Forse la posizione di Lamiere è di affermare questa insolubilità in maniera abbastanza chiara, senza nascondere il problema sotto il tappeto. L’atteggiamento di chi si indigna e basta mentre legge un racconto — o anche di chi lo produce — non è deliberatamente in malafede, anzi; molto spesso è schiavo di ottime intenzioni, che però finiscono subito lì. Si vede la contraddizione ma la si accetta facendo finta di nulla. Una reazione diversa è combatterla, con i propri mezzi e modi e tempi, un passo alla volta e senza ambire a laiche o religiose santità.

Per esempio, potremmo domandarci: qual è la posizione e il ruolo di un’intervista come questa in un mondo diseguale? Il tempo usato per elaborare e rispondere a queste domande potrebbe essere usato per aiutare delle persone in difficoltà. È una provocazione assurda, ai limiti del ridicolo: ma ogni tanto è bene ricordarselo.

Con questo, sia inteso, nessuno di noi vuole negare l’indispensabilità della critica e del racconto. Il punto è semplicemente che le alternative sono peggiori: smettere di raccontare? Agire senza riflettere?

L.A.Lamiere — e questa intervista — si chiude con una sorta di chiamata all’azione. È una parte in realtà più perturbante di quanto ci si potesse aspettare da qualunque finale conciliatorio o comunque vagamente ottimista o propositivo. Una chiamata all’azione: già, ma quale azione?

Già, quale azione. Cominciamo col dire che senza questa “chiamata” il fumetto ci sarebbe sembrato parziale, ancora una volta riconducibile agli schemi dell’auto—assoluzione. Quale azione: il contenuto è lasciato indeterminato non perché non abbiamo delle idee al riguardo, ma perché crediamo che l’azione stessa possa essere declinata in molti modi, e non per forza connessi con la realtà degli slum. Quello messo in atto da Rainbow 4 Africa è uno. Un altro potrebbe essere il volontariato nel posto stesso in cui si vive; o l’azione diretta; o un aumento di riflessione e intervento politico; o anche solo una nuova direzione dello sguardo (ad esempio smettendo di considerare le persone che chiedono la carità per strada come imprevisti o seccature). O la rivoluzione.

Ognuno di questi modi è esposto alla critica e comporta di per sé delle mancanze. Ma c’è un tic intellettuale anche nell’essere critici, per cui lo scetticismo diventa un alibi. Ogni gesto è sempre troppo poco, è sempre a rischio di assistenzialismo, è sempre foriero di conseguenze non prevedibili. Nessun intervento è perfetto come lo si vorrebbe su carta, lo sappiamo. A lungo andare, però, questo esercizio termina spesso in un quietismo rassegnato o arrogante.

Certo è indispensabile indagare l’efficacia a lungo termine dei mezzi, senza pensarli neutrali rispetto ai fini che uno si dà — per quanto buoni questi fini possano essere. Su un punto tuttavia non vorremmo cedere, e cioè che un’azione deve comunque esserci. È una sorta di debito contratto verso chi sta peggio e verso le nostre possibilità riflessive e narrative: se sappiamo e abbiamo chiara una situazione, non possiamo limitarci a fare teoria o racconto. Questa forma di paralisi è nostro avviso piuttosto diffusa, e andrebbe discussa con maggiore franchezza da tutti. Noi non abbiamo alcuna soluzione lineare al riguardo, ovvio. Ma per tornare alla frase di cui parlavamo prima, ci limitiamo a constatare questo: è davvero molto facile credersi assolti perché «si è dato voce», mentre chi soffre continua a soffrire. Per questo ci piace sempre ricordare le parole di Camus, nell’Uomo in rivolta: contro ogni forma di cinismo — «la tentazione comune a tutte le intelligenze» — non resta che «proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo».

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