La volpe e il polledrino

Una recensione illustrata a “La volpe e il polledrino” di Antonio Gramsci e Viola Niccolai (Topipittori 2014).

È successo che ho visto l’albo La volpe e il polledrino e mi sono innamorata del libro.

C’è la storia, quella che Gramsci scrive a suo figlio Delio dal carcere: è una storia piccola, miscela di ingredienti quotidiani, che sa di casa e di campo e di gioco. Senza morali, senza buoni, senza magie, senza artifici: un’intensa storia minuta.

E poi ci sono le tavole di Viola Niccolai che abbozzavano spazi che in qualche misura mi sembrava di conoscere – eppure il libro è ambientato nella Sardegna dell’inizio del Novecento e io con la Sardegna ho condiviso poco.

Ho deciso di scrivere a Viola e ho scoperto che è nata e vive proprio sulla montagna che mi spia sempre, che guarda tutti noi che viviamo ai suoi piedi, nel raggio di chilometri, perché l’Amiata è alto e noi, nella piana, piccoli.

Ho raccontato spesso ai miei figli dell’Amiata come di un “ggg”, un grande gigante gentile, un antico vulcano, poi scavato come un formicaio dai minatori che entravano nella sua pancia per estrarre cinabro e uscivano tossendo silicosi.

IMG 2 campo

Ho incontrato Viola ed era gennaio. Era domenica e c’era molto vento e sono salita sulla sua montagna e lei mi ha raccontato del suo paese, del cigno Romeo che vive nella peschiera, di quando era piccola e il nonno la portava negli orti di Fedro e siamo andate a vedere i Cristi intarsiati di foglie di castagno e di mela cotogna e di pigne di Andrea della Robbia.

È alta, ha meno di trent’anni e le dita delle mani molto lunghe e molto belle.
Avrebbe voluto fare il liceo artistico, ma sulla montagna non c’erano licei artistici. Quindi liceo scientifico, poi pittura all’Accademia di Firenze e infine Bologna, per specializzarsi in illustrazione per la letteratura dell’infanzia.

La volpe e il polledrino è la parte pratica della sua tesi di laurea incentrata sugli scritti gramsciani per l’infanzia.

Gramsci, nei lunghi anni di prigionia, costruisce una trama di corrispondenze epistolari che paiono ruotare attorno al perno della memoria. In quella lotta per aggrapparsi all’umanità logorata dalla demenzialità di pratiche alienanti e mortificanti – volte a rendere la vita «monotona, uniforme, senza sbalzi» (Lettera a Tania, 15 gennaio 1927) – Gramsci cerca rifugio proprio nel ricordo.

Sembra che scriva alla famiglia fondamentalmente per ricordare e per farsi ricordare: evoca episodi della sua infanzia pregando che vengano riferiti ai figli nel continuo sforzo di costruire una relazione con loro, pregando che le sue lettere vengano lette e condivise con Delio e Giuliano, come se queste potessero essere veicolo di semi di sé capaci di germogliare – forse, un giorno, chissà – in loro.

È necessario, come scrive a Giulia, «salvare dalla crisi ciò che di bello c’è pure stato nel nostro passato e che vive nei bambini nostri» e le chiede di aiutarlo a «conoscere sempre meglio i due bambini e partecipare alla loro vita, alla loro formazione, alla affermazione della loro personalità in modo che la mia “paternità” diventi più concreta e sia sempre attuale e così diventi una paternità vivente e non solo un fatto del passato» (Lettera a Giulia, 9 febbraio 1931).

Gramsci, nonostante non conosca i figli – il secondogenito, Giuliano, non lo vedrà mai – è un padre tenerissimo: il 19 marzo 1927 prega Tania di comprare loro un regalo e scrive:

Forse io stesso saprei fabbricargli qualche cosa di conveniente, se potessi essergli vicino. Fa’ tu, secondo il tuo gusto, e scegli qualche cosa a mio nome. Ho fabbricato in questi giorni una palla di cartapesta, che sta finendo di asciugare; penso che sarà impossibile inviartela per Delio; d’altronde non sono ancora riuscito a pensare al modo di verniciarla e senza vernice si disfarebbe facilmente per l’umidità.

In quell’appallottolìo di carta bagnata in una cella di Ustica sta la sconfinata dolcezza di Nino, lo struggimento del confino, della lontananza, della solitudine, della nostalgia piena e dolorosa nei confronti di un calore famigliare che non gli è stato possibile godere e che sa che non vivrà mai.

È curiosissimo di conoscere i figli in ogni aspetto delle loro personalità – i gusti, le tendenze, le passioni – e nelle lettere a loro indirizzate (ma non solo) racconta episodi tratti dalla sua esperienza personale di bambino in Sardegna con l’intento duplice di divertirli e di raccontarsi.

Dipinge il microcosmo nel quale viveva, le scoperte piccole e fondamentali della sua infanzia, l’esplorazione dello spazio attorno a sé: la natura si offre come il teatro esperienziale ed emotivo che permette al bimbo di conoscere il mondo, e – attraverso l’esperienza dei propri limiti e delle proprie possibilità – anche se stesso.

Il rispetto nei confronti dell’infanzia passa attraverso la fedeltà al reale, che non viene falsato né edulcorato: la natura appare meravigliosa di per sé, perché capace di rapire, affascinare ed educare, senza bisogno di magia o morali. La fantasia è il «dar voce al mondo», l’essere in grado di aprirsi alla grandezza delle cose – che sono essenzialmente potenti ed evocative nella loro concretezza materica.

IMG 3 pare che la volpe sappia

In queste lettere, fra queste storie, nasce il racconto de La volpe e il polledrino: un testo asciutto, senza morale, che Viola sceglie di tagliare eliminando i preamboli e la chiusura della lettera.

La storia procede per immagini ed è nettamente divisa in due parti: la prima racconta dell’abitudine della volpe di mangiare le orecchie e la coda dei puledri appena nati e del tentativo delle cavalle di difendere il proprio piccolo dai loro agguati; la seconda racconta dell’incontro del piccolo Gramsci con una volpe.

Le tavole, disegnate esclusivamente a matita, sono legate fra loro dall’utilizzo del giallo, unico colore citato nel testo gramsciano come il colore proprio della volpe.

Viola, nell’illustrare questa storia, sceglie – con l’aiuto di Giovanna Zoboli, editore di Topipittori – di sottolinearne alcuni elementi evocativi e onirici. Per esempio, la scena della madre cavalla che danza attorno al piccolo puledro per proteggerlo dall’assalto della volpe, è resa con estrema delicatezza. Il cavallino è inserito in mezzo a tanti balilla dagli occhi grandi e persi, mentre la madre, fattasi minuscola e blu, saltella sulle teste dei bimbi stringendo il puledro in un cerchio difensivo.

Perciò, appena il polledrino nasce, la madre si mette a correre in circolo intorno al piccolo che non può muoversi o scappare se qualche animale selvatico lo assale.

perciò, appena il polledrino nasce

L’illustratrice sembra avere interiorizzato la storia al punto da trasporla nel suo universo di appartenenza: mescola alla Sardegna di Nino le montagne che la circondano, la scatola di biscotti di latta che sta appoggiata sotto la finestra del salotto della sua casa amiatina, le facce dei bambini che ama. Ci mette tutto il suo mondo e per farlo parte da una meticolosa raccolta di fotografie e oggetti (e fotografie di oggetti).

Eppure si vedono qualche volta, per le strade della Sardegna, dei cavalli senza la coda e senza orecchie. Perché?

eppure si vedono qualche volta

La natura è restituita senza romanticismi, nella sua durezza, nonostante i colori accesi e vivaci. Non esiste un processo di estetizzazione sognante: il pascolo è marrone, il verde smeraldo che abitualmente colora gli alberi e i prati è bandito.

Forse questo è uno dei particolari che più mi ha innamorato del libro: era chiaro che l’asprezza del monte fosse stata disegnata da una persona che la campagna l’aveva respirata e che lo sguardo appiattito, nostalgico e vagamente primitivista del campo dolce non aveva spazio fra queste pagine.

Quando io ero bambino uno di questi cavalli serviva a un vecchio venditore di olio, di candele e di petrolio, che andava di villaggio in villaggio a vendere la sua merce (non c’era allora cooperative né altro modo di distribuire la merce).

quando io ero bambino

E guidando verso casa di Viola sono passata davanti a questa Coop: io non l’avevo mai vista una Coop così, ma secondo me Gramsci sì.

cooperativa di consumo

La storia, nella sua seconda parte, è raccontata in prima persona: Antonio e i suoi fratelli, mandati nel campo a raccogliere ghiande per un maiale, incontrano la volpe.
E la volpe, «con la bella coda eretta come una bandiera», si fa enorme – nelle illustrazioni della Niccolai – davanti allo stupore dei tre bambini.

Il campo non era distante dal paese, ma tuttavia tutto era deserto e si doveva scendere in una valle. Appena entrati nel campo, ecco che sotto un albero era tranquillamente seduta una grossa volpe, con la coda eretta come una bandiera.

il campo non era distante

Il problema è che la volpe non si spaventa, ma, beffarda, ride in faccia ai bambini e loro, delusi e arrabbiati, la prendono a sassate.

non si spaventò per nulla

La tavola è agitata, la volpe sembra muoversi ovunque, in quell’azzurro che sembra mare e forse sembra cielo, ed è tenera e quasi implorante, sorniona e un po’ cattiva, in attesa, spaventata, oppure abbaia abbaia.

I bambini la aggrediscono, tirano sassi, fanno finta di spararle. Ma poi in lontananza si sente una vera fucilata, e la volpe scappa.

Mi pare di vederla ancora, tutta gialla, correre come un lampo su un muretto, sempre con la coda eretta, e sparire in un macchione.

e sparire in un macchione

Nonostante la parola macchione rimandi a qualcosa che sa di mirto, di selvaggio, di pungente, di scuro, Viola l’ha immaginato come una sorta di cespuglio fiorito, un bouquet colorato e accogliente. Il macchione pare simboleggare il confine fra il reale e l’immaginifico, capace di inghiottire il protagonista di tutta la storia mentre sullo sfondo si vede un villaggio lontano, con alcune figure che sembrano rincasare.

La volpe è arrivata in agguato, è arrivata dal nero delle prime tavole e voleva mangiare le parti “molli molli” di un piccolo puledro. Esce ridendo, saltando in un cespuglio fiorito.
Ci ha accompagnato così, in una storia piccola, al confine fra la fiaba («pare che…») e l’autobiografia, disegnata in maniera stupefacente da Viola.

Gramsci 10 ottobre 1932

Carissimo Delio,

ho saputo che sei stato al mare e che hai visto delle cose bellissime. Vorrei che tu mi scrivessi una lettera per descrivermi queste bellezze. E poi, hai conosciuto qualche nuovo essere vivente? Vicino al mare c’è un brulichio di esseri: granchiolini, meduse, stelle marine ecc. Molto tempo fa ti avevo promesso di scriverti alcune storie sugli animali che ho conosciuto io da bambino, ma poi non ho potuto. Adesso proverò a raccontartene qualcuna: – I° Per esempio, la storia della volpe e del polledrino. Pare che la volpe sappia quando deve nascere un polledrino, e sta in agguato. E la cavallina sa che la volpe è in agguato. Perciò, appena il polledrino nasce, la madre si mette a correre in circolo intorno al piccolo che non può muoversi o scappare se qualche animale selvatico lo assale. Eppure si vedono qualche volta, per le strade della Sardegna, dei cavalli senza la coda e senza orecchie. Perché? Perché appena nati, in un modo o nell’altro, è riuscita ad avvicinarsi e ha mangiato loro le orecchie ancora molli molli. Quando io ero bambino uno di questi cavalli serviva a un vecchio venditore di olio, di candele e di petrolio, che andava di villaggio in villaggio a vendere la sua merce (non c’era allora cooperative né altro modo di distribuire la merce); ma di domenica, perché i monelli non gli dessero la baia, il venditore metteva al suo cavallo coda finta e orecchie finte. – 2° Ora ti racconterò come ho visto la volpe la prima volta. Coi miei fratellini andai un giorno in un campo di una zia dove erano due grandissime querce e qualche albero da frutteto; dovevamo fare la raccolta delle ghiande per dare da mangiare a un maialino. Il campo non era distante dal paese, ma tuttavia tutto era deserto e si doveva scendere in una valle. Appena entrati nel campo, ecco che sotto un albero era tranquillamente seduta una grossa volpe, con la coda eretta come una bandiera. Non si spaventò per nulla; ci mostrò i denti, ma sembrava che ridesse, non che minacciasse. Noi bambini eravamo in collera che la volpe non avesse paura di noi; proprio non aveva paura. Le tirammo dei sassi, ma essa si scostava appena e poi ricominciava a guardarci beffarda e sorniona. Ci mettevamo dei bastoni alla spalla e facevamo tutti insieme: bum! Come fosse una fucilata, ma la volpe dette un balzo e scappò rapidamente. Mi pare di vederla ancora, tutta gialla, correre come un lampo su un muretto, sempre con la coda eretta, e sparire in un macchione. Carissimo Delio, raccontami ora dei tuoi viaggi e delle novità che hai visto. Ti bacio insieme con Giuliano e mamma Julca.
Antonio

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