L’uomo dei duecento libri (degli altri). Pigola e “La forma fragile del silenzio”

Pubblichiamo un dialogo tra Mary Posa* e lo scrittore Fabio Ivan Pigola, autore del romanzo “La forma fragile del silenzio“, Edizioni della Sera, collana Istantanee, uscito a marzo 2016.

1. Copertina

È un tiepido mattino milanese. Ufficio in zona San Gottardo, semplice e dignitoso, con un occhio puntato ai navigli. Terzo piano, ampia finestra sui tetti della città vecchia. Sale il fumo di un comignolo. Su un mobile alla mia destra alcune copie antiche del «Corriere», quello dove si poteva leggere il feuilleton, il romanzo d’appendice. Tutto attorno, il profumo inconfondibile della carta. Fabio Ivan Pigola, autore del romanzo La forma fragile del silenzio, ci lavora e ci vive in mezzo. È responsabile della webzine Kultural e ha scritto un romanzo pubblicato da Edizioni Della Sera, una piccola casa editrice indipendente romana che non conoscevo. E avrei continuato a ignorarla se non fosse stato per una recensione di Ippolita Luzzo, che presentava l’opera in maniera accattivante. Dopo i convenevoli, parliamo proprio di carta, di libri. Delle illusioni e delle vite che contengono. «Quelli buoni», dice con un sorriso beffardo, «sono papaveri in una palude». L’ironia è una cosa rara, e seria, e mi mette subito a mio agio. Ne approfitto.

Mary Posa: Lei è per il libero pensiero?

Fabio Ivan Pigola: Il libero pensiero è scapolo a vita. Sono invece per la libertà, che è darsi del tu. Di compagnia, comunque, ce n’è tanta.

Indica i volumi sparsi dappertutto. Prendo la palla al balzo, passando a un tono più confidenziale.

M. P.: Vedo molti classici. 

F. I. P.: Già. Quelli che di solito si comprano ma non si leggono, al contrario dei libri moderni.

Mi scappa una risata, anche quando afferma che per scriverne, oggi, è consigliabile non leggerne troppi.

M.P.: E com’è che hai iniziato, tu?

F. I. P.: Chiariamo, io non scrivo libri. Sono un modesto manovale delle idee, un mestierante. A volte ne ho qualcuna, tutti i cervelli ne sono abitati, e allora la abbozzo, la salvo da me stesso. Sarebbe un peccato avere pochi ricordi, e sono la cosa meno durevole che conosco.

M.P.: Manovale delle idee finché vuoi, ma come ghostwriter non sei certo al primo. Ti chiamano «l’uomo dei duecento libri degli altri». Scrivi per necessità o per abitudine?

F. I. P.: L’abitudine è una serva che finisce a sposare il padrone. Scrivo per divertimento, e i miei sono solo mucchi di parole. Se sono piaciuti – e questo non lo so – è grazie a chi ha saputo trasformarli in un prodotto artistico. La differenza fra scarabocchiare una storia e saperla raccontare è enorme.

M.P.: Okay, però quasi duecento romanzi… 

F. I. P.: Degli altri, l’hai detto poco fa. O ci sono anonimi che si fanno notare di più?

M.P.: Touché. Ma quello che hai firmato è stupendo. E ho letto recensioni entusiastiche.

F. I. P.: Quindi, direi di aspettare il dissenso. Un appunto, un’osservazione, specie se costruttiva, vale più di mille lodi, che in genere ingrassano l’ego a chi ce l’ha già obeso e non aiutano a migliorare. Un libro, invece, ha fortuna quando puoi dirne sia bene che male: fai contento chi lo elogia, e un po’ di più chi lo critica. Le sciocchezze degli uomini sono passeggere, è il mercato che le rende immortali.

M.P.: Però hai scelto un editore indipendente. Non punti alla vita eterna?

F. I. P.: Della vita, anche quella da autore, ho solo preso il foglio rosa, e credo resterò principiante per un pezzo. Che l’editore indipendente sia sinonimo di nicchia fa molto xenofobia letteraria: anche i grandi gruppi non sono nati grandi. Poi ci vuole anzitutto un rapporto umano, di stima, per cui la scelta è reciproca. Si sta lontani dal territorio dell’ingratitudine, che è una forma assai diffusa di amnesia.

M.P.: Il terreno in cui si muove il protagonista del romanzo è quello dell’adolescenza. Difficile farne un ritratto così magistrale. Come ci sei riuscito?

F. I. P.: Magistrale è un aggettivo esagerato, capace di creare un’aspettativa e deludere in poche pagine. Il fatto è che la trama è nata in un liceo, davanti a quegli adolescenti che hanno ridotto al minimo lo sforzo di inventare. E all’esame di coscienza mi hanno passato il compito.

Lo dice serio, ci metto un secondo di troppo a capire la battuta e lui è già passato alla successiva. Le parole, a Pigola, sembrano venire da chissà dove. È un tipo strano, sbilenco; più lo guardo più mi dà l’idea di una figura sfuggita a Kandinskij ubriaco, con un volto grottesco come le maschere dei comici del cinema muto e la voce che non gli si adatta, grassa e sgradevole, dissonante, i gesti stralunati, e i discorsi svelti di chi ha fretta di andare dove l’altro non riesce a seguirlo. Eppure di fretta non ne ha, dice perfino d’essere pigro, e di amare i pigri perché sono autentici e non fanno finta di lavorare. Continuo a ridere con un certo ritardo mentre spiega di andare d’accordo con i ragazzi perché è un discepolo della fantasia e a quell’età, l’arsenale, è illimitato. Quando gli chiedo degli adulti che popolano il romanzo, del loro cinismo, si fa serioso, ma negli occhi continua a balenargli il lampo del sarcasmo. Chiarisce che l’anagrafe serve solo ai tribunali, negli ospedali o a Equitalia, che è l’omaggio di uno che diceva di essere comunista.

M.P.: Che fai, la butti in politica? 

F. I. P.: Lungi da me. Il nostro paese non attende il giudizio della storia né del buonsenso, basta quello elettorale. È vero, a sedici anni sei all’opposizione, insofferente a tutti i fantasmi dell’autorità, ma viviamo in un luogo dove la crisi economica è nulla dinanzi a quella etica, ed è sempre carnevale: la protesta parte da Roma e finisce nei locali di Rimini, sulle spiagge di Viareggio o di Andora.

M.P.: Andora è in Liguria, dov’è ambientata parte del romanzo. Ci sono ricostruzioni di una grazia e una tensione poetica che fanno pensare a Biamonti, ai suoi grandi interpreti locali.

F. I. P.: Locali solo di nascita, perché Biamonti è un narratore di respiro mondiale. E io ho un’opinione troppo bassa dei miei scritti per lanciarmi in accostamenti incauti. Il merito di quei passaggi è da attribuire al fascino del Ponente ligure, alla malia che esercita grazie ai profili e alla sua gente, tra cui ho amicizie di lunga data.

M.P.: Ce n’è qualcuna fra le pagine?

F. I. P.: Molte. E le omaggio a più riprese. Per questo ho usato i soprannomi: portano un affetto e una gratitudine che va oltre ogni descrizione. Danno l’idea di un’identità che è radice salda nel tempo, e salva da tutti gli agguati del destino.

M.P.: Un concetto bello, commovente. Assomiglia a quello della tua “creatura”. È un caso?

F. I. P.: Un caso umano senz’altro, ma del resto siamo tutti un’infinita serie di casi unici. A sedici anni credi ancora ai valori, è più avanti che cadono le chimere. Un mendicante, secondo Bierce, è uno che sperava nell’aiuto degli amici. Per quella che chiami la mia creatura, invece, gli amici sono la salvezza dalla deriva.

M.P.: E per te, cos’è l’amicizia? 

F. I. P.: Ciò che fa sbocciare i fiori anche d’inverno.

M.P.: Altre attinenze? 

F. I. P.: Entrambi siamo animali ruminanti, lavoriamo sul pensiero fino a chiederci per quale motivo un uomo che può scegliere fra due mali, li acchiappa tutti e due. Ci manca l’attitudine alla tragedia, e siamo infermieri del sentimento.

M.P.: Ossia? 

F. I. P.: Il medico è un cacciatore che spara a ogni preda, l’infermiere cerca di rimetterla in piedi.

M.P.: Un’avventura complicata… 

F. I. P.: In un mondo di uomini con la digestione intellettuale difficile, può darsi. Però è una passione, che è come la barba: quando cresce, cambia i connotati.

M.P.: Il protagonista però ha un handicap. 

F. I. P.: Già, uditivo. Eppure suona. Non si arrende e non fa drammi. Per quelli si ha tempo da grandi, quando si giudica la nave stando a terra. Lui vuole capire, provare; da buon teenager ha un senso innato della sfida. Se gli dici che la sorte è scritta, ti risponde che sa usare il bianchetto. E così si ostina sulla chitarra, vuole portare con sé la musica, che è un linguaggio di sintesi eccezionale, e i suoni della vita, dei propri cari, della scuola, degli allarmi, degli oggetti, dell’amore. Immagina di scriverli su uno spartito da tenere a mente quando l’udito verrà a mancare.

M.P.: È vero che scrivi in pochissimo tempo? 

F. I. P.: Se ho una storia in testa, in due o tre giorni è pronta. Trame e intuizioni arrivano senza darmi un preavviso: devo rovesciarle il prima possibile su carta, o le perdo come nebbia nel vento. Se ci impiego poco è perché non rileggo nulla, butterei tutto quanto, o cambierei le parole più spesso delle mutande.

M.P.: Eppure sei riuscito nella rara operazione di bilanciare il linguaggio dei giovani e la sua tipica irriverenza, con passaggi lirici intensi e delicati. E che dire dei dialoghi? Sono taglienti, plausibili, belli proprio per la loro aderenza alla realtà. 

F. I. P.: Forse perché anch’io a sedici anni vedevo la diplomazia come la strada più lunga fra due punti, e l’esperienza ha rafforzato la convinzione.

M.P.: Qualcuno ha definito La forma fragile del silenzio un giovane Holden italiano. 

F. I. P.: Chi l’ha detto o non ha letto Salinger, o voleva sfottere il mio scarabocchio. Satira a parte, ho rispetto per le visioni ma eviterei i paragoni, si ripetono e sono come i pappagalli: monologhi con le piume.

Avrei tante altre curiosità da soddisfare, perché ritengo il suo romanzo il migliore tra quelli letti da un decennio a questa parte, forse perché solo dieci anni fa ho avuto tra le mani – anche se erano usciti parecchio prima – Tetto murato di Lalla Romano e Non ora non qui di Erri De Luca. L’opera di Pigola non ha attinenze tematiche con i due lavori ma ha la stessa densità, lo stesso potere evocativo e una profondità di sguardo molto superiore. Ci sono frasi che racchiudono in due righe pagine intere e sono una vera esperienza emotiva. Questa l’essenza e il grande pregio dell’opera. Marca il confine fra la narrativa e la letteratura, quella che troppi critici danno per morta e sepolta nel passato. La scrittura, senza essere difficile, ha un’eleganza che avvicina la poesia, una musicalità che va oltre la musica di cui il libro è già pieno: chiede al lettore di entrare nella storia non solo con la mente ma con i nervi, con i sensi. E questo, lo riconosco alla critica, nei libri odierni non capita più, o capita solo a tratti. La gente è devastata dal linguaggio dei media, dei social, ne ha bisogno, fugge da tutto ciò che la costringe a fermarsi a riflettere. Qui invece si è presi per mano: la riflessione è un piacere, un viaggio verso un luogo più consapevole, pieno di illuminazioni. Si può tornare indietro e rileggere i passaggi scoprendo sempre suggestioni nuove. La trama parla di suoni che spariscono, di un mondo che si spegne e di un ragazzo che inventa una “favola di resistenza” cruda e tenerissima. Ti fa entrare nella sua testa, nel suo humour buffo e spinoso com’è nella gran parte dei giovani, nella chimica interiore dei brividi e dei sentimenti e ne esci provato, nostalgico e felice, ricco di qualcosa che non sapevi di avere ancora. Sono pochi i libri che arricchiscono davvero, che non si limitano a raccontare ma che fanno sentire fisicamente dentro di essi, a sopportare il peso o la gioia degli eventi. Che ti fanno vedere la realtà con occhi diversi e ti lasciano un’eredità importante, memorabile. Ci vuole una bella storia, e quella qui non manca, ma anche una cifra artistica rara. Quasi unica.

M.P.: Cos’è la letteratura per uno scrittore? 

F. I. P.: Be’, dovresti chiederlo a uno scrittore. Io non ho il pedigree, sono solo uno che si muove nel territorio dell’immaginazione. Chiederlo a me è come chiedere ad un subacqueo cos’è il fondo del mare. Tutt’al più, ti dirà com’è; e lo stesso con la letteratura. Serve qualcuno più attrezzato, che sappia definire l’immaginazione anche sotto il profilo psichico, materia prima dell’inconscio che l’inconscio manda in superficie in base a esigenze e temperature soggettive. Ecco, la letteratura è espressione di quella fantasia che è una maniera di raccontare l’impatto con la realtà, una cautela, un punto di equilibrio privato per sopravvivere alla frizione tra l’interiorità e il mondo esterno. È una dimensione dove ha cittadinanza qualcosa che non importa se è elaborato dai ricordi o se è inventato del tutto, perché conta quanto riesce a rendere vera l’emozione che l’ha suscitata. Nulla di mitico, intendiamoci. Oggi la religione del mercato sta declassando le arti, ma l’atto creativo resiste. Leopardi o Dante lo sapevano, anche senza ammetterlo: scrivevano per i posteri, ma non gli dispiaceva essere conosciuti e celebrati dai contemporanei. Alcune scuole di scrittura giurano di svelare il segreto per mettere assieme un racconto o un romanzo perfetto, di successo, quasi ci fosse una lista di ingredienti precisi da rispettare. Può darsi ve ne siano, però scusa se non riesco a vedere lo scrittore come un idraulico o un pizzaiolo: ho troppi dubbi su certi chef. Il rischio è di sfornare dei prodotti con un intreccio e una struttura seriale, magari carina, ma anche tanto consueta. Ed è lontano dall’abitudine che fioriscono l’arte e la vita. La prosa, poi, è l’impero dei segni. La sua azione si esercita sul discorso, che è un’attitudine dello spirito, uno spirito da cui l’estro viene come un terzo occhio, un sesto dito, un prolungamento dei sensi. E la letteratura ha una quantità e una qualità di contenuti che fa appello a quelle eccezioni, e non ha mai la pretesa di rivelare il mondo. Piuttosto, lo spiega attraverso di sé. Il giorno che sarà diffusa come la tivù, saremo un popolo finalmente civile.

M.P.: Concordo. Ma allora la letteratura sperimentale? 

F. I. P.: Non sono un conservatore, perché il conservatore è uno che mette il freno all’utopia. Però gli esperimenti di quel tipo mi sgomentano, sanno tanto di rivoluzione in un sistema che va bene così com’è. La rivoluzione è un miraggio: può ribaltare un Paese o una scala di valori, il più delle volte ne accentua i difetti, e produce il contrario di ciò che si era sperato. Pensa alla Francia. Il 1789 gli ha regalato Napoleone: fortuna che i moti erano nati dal presupposto che le guerre erano fatte dai nobili a scopo personale! E se la rivoluzione è frutto della moda – vedi la letteratura sperimentale –, è un codice fatto per i peccatori inguaribili.

M.P.: Business a parte, che rapporto hai con la scrittura degli altri? 

F. I. P.: Di ammirazione. Ho un orgoglio troppo anoressico per amare i miei scritti. Già li conosco, li so, e non aggiungono nulla. Anzi, sono come la valigia del commediante: la apri e saltano fuori calzini fetenti, foto in cui mostri l’attrezzatura da riproduzione, ed è inutile domandarsi come è finita lì quella roba. Ce l’hai infilata senza volerlo, mentre facevi il lifting a un tuo personaggio o gli davi un tic, un vizio, una dote, un malanno o un tabù. Vorresti sprofondare ma capisci che la tua, per fortuna, è una biografia secondaria; il bello è scoprire ogni giorno la fantasia altrui. Ti fa salire su una giostra favolosa sulla quale puoi fare quanti giri vuoi, senza rischi, e nessuno viene a chiedere il biglietto.

M.P.: Sei selettivo? 

F. I. P.: Con le letture, sì. E ti sembrerà strano detto da uno che legge un libro al giorno, a volte anche due, ma vengo da una diocesi operaia, nei salotti non saprei che faccia fare. A tredici anni uscivo con Calvino, Jack London, Simenon o Piero Chiara nello zaino; a volte li leggevo camminando, con la tuta indosso. Non era il sistema ideale per perdere la verginità, ma mi ha aiutato a formare un gusto, una qualche coscienza critica.

M.P.: Allora povero te, visto il panorama attuale. 

F. I. P.: Perché mai? I talenti ci sono. Basta evitare quelli che hanno il coraggio delle opinioni altrui, le marmellate letterarie con la fascetta che promette emozioni a pochi euro al chilo, la letteratura da discount, col forever che dura meno di un rotolo di carta igienica. Il resto è un panorama soave, tutto da scoprire.

Sento le mie domande piccole e inadeguate alle sue risposte. Non vorrei trattenerlo oltre, mi ha dedicato molto tempo eppure sono io a patire la fretta. Lui mi fissa pronto al dialogo, con il conforto del sorriso e l’humus della schiettezza. È severo con sé e indulgente con gli altri, e garantisce che la sua opera merita il minor clamore possibile. Si capisce che non è un pubblicitario, certe esperienze l’hanno segnato. Anni fa, confida, regalò un quadro a una persona per ringraziarla di aver fatto tradurre una serie di romanzi in Italia, con i quali aveva trascorso una degenza post-operatoria. Era un gesto di sola gratitudine, eppure quella sparì. Mai contare troppo sull’intuito del prossimo, dice salutando: ti considera un giubbotto, e quando vuole toglierlo di dosso lo prende per il bavero.

*L’autrice dell’intervista si firma con uno pseudonimo.
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