La memoria al femminile di un disastro industriale

Riflessioni di Giancarlo Pichillo[*] su “La nostra Marcinelle. Voci al femminile”, di Martina Buccione (Edizioni Menabò, Fondazione Pescarabruzzo 2016).

Passeport
Passeport. La foto, ripresa da un ritratto originale del 1946, è riprodotta sulla copertina del volume. Ritrae Antonietta, moglie di Cesare Di Berardino, con la primogenita Pia e la seconda figlia, Santina. Sul retro della foto Antonietta scrisse: «Questa è la foto che ho messo sul passaporto. Antonietta che dorme, Pia che piange e Santina buona».

La nostra Marcinelle. Voci al femminile è un testo che, raccontando e riproponendo all’attenzione pubblica le conseguenze umane e sociali della catastrofe avvenuta nella miniera carbonifera di Marcinelle (Belgio) l’8 agosto 1956,[1] riesce soprattutto a veicolare, da una prospettiva dichiaratamente di genere, la memoria dell’emigrazione di massa che caratterizzò l’Italia post-bellica negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale.

Il libro, scritto da Martina Buccione e gratuitamente distribuito grazie al supporto finanziario di Fondazione Pescarabruzzo, in collaborazione con l’Associazione As.s.c.a (Associazione Scuola, Cultura e Arte Fulvio Luciani, Pescara), si presenta come un testo corale. Soprattutto, è un libro vivo, scritto quasi interamente utilizzando la forma diretta del discorso. In alcune pagine pare riecheggiare la letteratura working class, nello stile di Amianto di Alberto Prunetti, particolarmente nei momenti in cui leggiamo delle abitudini e degli svaghi delle famiglie dei minatori, seppure in un contesto storico, politico e culturale profondamente diverso da quello raccontato dal Prunetti.

Martina Buccione è la nipote di Cesare Di Berardino, una delle vittime dell’incidente dell’8 agosto 1956. L’Autrice, grazie alla generosità del racconto di tre donne a lei molto vicine e care, sua madre Santina (figlia di Cesare) e le sue zie Pia (sorella di Santina) e Lucia (zia di Santina e Pia), ci fa rivivere quel che lei chiama “l’altra Marcinelle”, ovvero la quotidianità, le scelte e le vite ordinarie di migliaia di famiglie italiane che furono costrette, talvolta anche spinte, a emigrare in Europa o nel continente americano alla ricerca di lavoro, solidità economica e di un futuro migliore per sé e i propri discendenti. Alla ricerca, pertanto, di un futuro inteso come promessa, agli antipodi di quella visione che, secondo Miguel Benasayag e Gèrard Schmit, caratterizzerebbe la nostra epoca delle passioni tristi.[2]

Questa immersione storica, tuttavia, ha una importante caratteristica: siamo guidati nel racconto da voci di donne che interloquiscono con altre donne, consegnandoci una prospettiva originale del micro-cosmo sociale che fu la comunità delle famiglie di minatori italiani in Belgio, e in particolare a Marcinelle, nel decennio tra il 1946 e il 1956.

Il racconto di Santina, Pia e Lucia rievoca, talvoltanon senza nostalgia, una comunità di migranti in cui la solidarietà e la collaborazione erano valori fondamentali e coscientemente ricercati e riprodotti. Allo stesso tempo, quella comunità era essa stessa specchio di una società italiana ancora profondamente patriarcale, dove compito delle donne era pensare «alla cura della casa, a cucinare, a pulire, a soddisfare i loro uomini» (p. 49). Oggi, però, forgiate dalla vita vissuta dopo la catastrofe e sollecitate dall’autrice, quelle medesime donne, che si immaginavano angeli del focolare e alleate dei mariti nella ricerca di una migliore posizione economica per sé e i propri figli, si fanno soggetti portatrici di parola, divulgatrici di memoria e quindi cemento di un senso di appartenenza a comunità storiche e geografiche stratificate, di cui la stessa autrice, come detto, è erede. Sono donne che, come leggiamo, hanno dato “vita alla vita”, e che oggi prendono la parola per raccontarci cosa fu, per loro, l’esperienza dell’emigrazione, del dolore del distacco e dello spaesamento dell’arrivo, la conquista della normalità e poi, purtroppo, il trauma della perdita di quel mondo faticosamente accettato o conquistato.

Il volume, pertanto, ha il merito di non riprodurre “solo” memorie del sottosuolo, per parafrasare un altro importante documento sulla memoria della catastrofe. Piuttosto, esso è memoria pulsante, che si plasma nel suo raccontarsi, fuggendo l’oblio cui la storia pareva aver segregato Marcinelle e le sue vittime.

Ulteriore testimonianza di questa difficoltà a far emergere racconti e memorie della sciagura è data dalla scarna bibliografia che accompagna il testo, conseguenza di una indisponibilità di fonti e segno tangibile di una necessità sempre più attuale: lavorare affinché la memoria e la legacy dei disastri industriali, oggi all’attenzione delle discipline sociali, e in particolare dell’antropologia, non si perda, ma venga anzi veicolata per creare nuova consapevolezza diffusa e riattualizzata alla luce delle sfide sociali della contemporaneità. Da questo punto di vista, è importante segnalare il lavoro etnografico e d’archivio di Gianfranco Spitilli, che tra il 2010 e il 2015 ha svolto ricerche sull’emigrazione abruzzese post-bellica, concentrandosi sulla comunità di Marcinelle e della Vallonia in generale, e sul mondo della miniera in particolare, un mondo invertito, secondo le parole dei suoi interlocutori.[3]

Il libro non intende fornire una analisi interpretativa delle vicende. Vuole “solo” dare parola alle fonti dirette della memoria, donne che hanno vissuto sulla propria pelle la perdita di mariti e parenti nella miniera. Infatti, il lavoro si apre con una contestualizzazione storica del disastro, in particolare rammentandoci il mutuo soccorso che Italia e Belgio decisero di prestarsi con i cosiddetti accordi “uomo-carbone”, siglati neanche 20 giorni dopo il referendum del 2 giugno 1946 – non è, questa velocità di esecuzione e ratifica dell’accordo, qualcosa che agli storici è mancato di sfuggire.[4] Si prosegue con una sequela di brevi capitoli (15 in totale) che guidano il lettore attraverso un passato che, dal punto di vista di chi scrive, è forse parzialmente (inevitabilmente?) idealizzato da parte delle donne protagoniste del racconto. Sicuramente gli anni in Belgio sono percepiti e ricordati come un tempo felice, poiché foriero di mobilità sociale, di una trasformazione e di una emancipazione positiva rispetto alle premesse di povertà da cui scaturiva.

Tuttavia, il lettore sa che l’epilogo del racconto sarà tragico, e attende, come in un crescendo, il dipanarsi degli eventi, dall’arrivo in Belgio dei minatori emigrati e delle loro famiglie ai racconti del radicamento nei territori della Vallonia, le piccole conquiste economiche, l’integrazione con la comunità locale, formata da portatori di nazionalità e culture molto diverse e variegate, fino all’inevitabile trauma. La catastrofe dell’8 agosto 1956 segna una cesura, una stacco nel tempo, un prima e un dopo radicalmente diversi. La miniera è un limen, uno spazio a sé, un tempo di lavoro in cui la morte è più che una eventualità, che purtroppo molto spesso non tarda a realizzarsi, e che esplode nella sua tragicità il giorno dell’incidente.

A questo punto il racconto si ferma. Solo in un capitolo, il tredicesimo, l’autrice fa introdurre i riflessi dell’incidente sulla vita delle vedove e degli orfani (i minatori che morino lasciarono 248 famiglie e ben 417 orfani), mostrando così un potenziale che si spera che l’autrice colmi al più presto. Si intravvede, pertanto, un notevole, ulteriore spazio di lavoro, sia dal punto di vista dell’analisi, sia soprattutto dal punto di vista del racconto stesso. Si è spinti a chiedere che ci venga raccontato anche il dopo-Marcinelle, quel che è successo passata la bufera della rabbia e dell’indignazione, quel dolore che ha trasformato la banalità del quotidiano e che in molti casi ha prodotto un flusso di ritorno dei migranti verso le loro comunità d’origine.

D’altra parte vi sono molti indizi che fanno presupporre la continuazione di tale meritorio lavoro. Il libro, infatti, è parte di un progetto più complessivo di cooperazione culturale tra l’Italia e il Belgio, coordinato dalla Associazione pescarese Elle Elle – Lingue e Linguaggi, fondata dalle sorelle Martina ed Enrica Buccione, e a vario titolo partecipato, patrocinato o sostenuto da importanti attori istituzionali, quali la Regione Abruzzo, l’Ambasciata Italiana a Bruxelles e l’Istituto Italiano di Cultura, per citarne alcuni.

Il progetto, pensato come contributo alla celebrazione della memoria dei 60 anni della catastrofe, si compone di tre principali attività: una mostra fotografica intitolata “1956-2016. Il bosco dei ricordi: l’altra Marcinelle”, a cura di Enrica Buccione e con fotografie di Max Pelagatti, patrocinata dalla Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco e in esposizione a Pescara dal 20 maggio al 10 giugno 2016, e poi presso il Museo BoisduCazier di Marcinelle dall’8 agosto al 25 settembre e quindi presso la sede di rappresentanza della Regione Abruzzo a Bruxelles nell’ottobre 2016; il volume L’altra Marcinelle. Voci al femminile, e un Concorso Artistico Letterario rivolto agli studenti delle scuole superiori abruzzesi.

Il progetto ha il merito di porre in rilievo due temi di grandissima attualità: il rapporto conflittuale tra il diritto al lavoro e il diritto alla salute, e la conseguente sostenibilità socio-ambientale del modello industriale egemone dalla seconda rivoluzione industriale in avanti, e il tema dell’emigrazione. Ponendosi come strumento a servizio delle nuove generazioni, relativizza e interroga la vulgata contemporanea che vede nel migrante una minaccia e un corpo da rigettare in mare, ricordando a tutti noi che, non molto tempo fa, gli stessi italiani furono costretti a emigrare in massa per fuggire dalla povertà e per ricercare fortuna, e che l’emigrazione è sempre un atto doloroso e una scelta consapevole (N.d.A.: tutt’ora siamo un popolo di emigranti, per quanto l’emigrazione oggi riguardi maggiormente fasce giovanili di popolazione con un’alta preparazione scientifica e professionale).

Non ultimo, il progetto ricorda che le identità individuali e collettive sono plastiche, storicamente costituite, fluide, processuali e ibride, e che la memoria è la base (socialmente negoziata) sulla quale noi radichiamo il nostro senso di appartenenza e costruiamo i nostri patrimoni. Una lezione mai troppo spesso ricordata e che contribuisce ad alimentare l’attesa di ulteriori lavori e progetti come quelli qui brevemente discussi.

[Le foto che accompagnano questo articolo fanno parte della collezione Il Bosco dei ricordi: L’Altra Marcinelle di Max Pelagatti Photography].

Note

[*]Giancarlo Pichillo PhD in Antropologia, Etnologia e Studi Culturali; Project manager di Playing Identities, Performing Heritage (Creative Europe Programme – Università degli Studi di Siena).

[1] Nella miniera di Marcinelle del BoisduCazier, oggi un sito museale riconosciuto dall’Unesco, perirono 262 minatori di 12 diverse nazionalità, di cui 136 italiani. Fra questi, 60 provenivano dall’Abruzzo, territorio tra i più poveri negli anni ’40 del XX secolo, e ben 23 da un solo comune, Manoppello (PE).

[2] Miguel Benasayag e GèrardSchmit, L’epoca delle passioni tristi, trad. it. Di E.Missana, Feltrinelli, Milano 2013.

[3] Gianfranco Spitilli, L’inversione del mondo. Antropologia dell’emigrazione abruzzese in Belgio, in Giovanni Agresti e Silvia Pallini (a cura di), Migrazioni. Tra disagio linguistico e patrimoni culturali – Lesmigrations. Entremalaiselinguistique et patrimoinesculturel, Aracne, Roma 2015.

[4] Siamo agli albori della storia europea. La catastrofe di Marcinelle del 1956 avrà riflessi diretti sulle scelte politiche operate dalla CECA. A livello sociale, inoltre, Marcinelle prefigura un ambiente cosmopolita, transnazionale. Più sinteticamente, Marcinelle e le miniere belghe furono prodromi di una identità europea che, con gli accordi di Roma del 1957, andrà a istituzionalizzarsi e rafforzarsi negli anni, fino alla crisi attuale dell’UE e ai nuovi rigurgiti nazionalisti.

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