Dopo “Fuocoammare”

Lettera aperta all’Europa che si è commossa.

Non usiamo le Lampeduse d’Europa per coprire scelte e responsabilità.

Un grande regista italiano, maestro di un cinema, quello documentario, sempre più importante nel mondo, ha fatto un’opera essenziale e tagliente sull’ormai “ingombrante” tragedia dei migranti. Molta Europa, quella artistica, quella sociale e anche quella politica, si è commossa. La ferocia e la banalità del male si sono uniti in istanti di cinema, che la maestria di Rosi ha saputo cogliere dal corpo ferito dell’umanità.

Ora è a mio avviso necessario che quell’emozione non risolva e non pulisca le coscienze. È necessario che chi sostiene e dichiara di aver provato emozione e dolore, sia ora capace di svolgere il proprio sguardo e la propria azione in direzioni non miopi e ambigue, come sono la maggior parte di quelle sviluppate fin qui.

Già da troppi anni parlare di Lampedusa e delle sue tragedie serve purtroppo a non capire o a non dire ciò che le classi politiche europee stanno facendo. Ora abbiamo l’occasione di cambiare rotta.

Fuocoammare ha, o meglio sceglie due limiti e dentro a quei limiti trova la sua posizione e la sua potenza: da una parte limita il suo sguardo al momento dell’impatto, al confine di guerra, allo spazio di transito tra un prima sconosciuto e un dopo quanto meno incerto, dall’altra evita di conoscere i migranti e dà a loro il ruolo epico di corpi in bilico tra vita e morte.

Se vogliamo onorare il film di Rosi, dobbiamo essere pronti a superare i suoi coscienti limiti e andare oltre il film, smettendo di rifugiarci in errori di posizione, errori che a volte sono inconsapevoli, ma molto spesso voluti e interessati. Credo sia fondamentale fare due cose: non concentrare lo sguardo solo sulle Lampeduse d’Europa (Idomeni, Lesvos, Calais, Ceuta e via dicendo) e imparare a conoscere i migranti come persone con storie, desideri, progetti. Se noi concentriamo la nostra attenzione sui luoghi di confine (i più capaci di produrre immagini ed emozioni potenti) immagineremo poi solo azioni da attuare in quei luoghi. Per questo spendiamo miliardi per militarizzare il Mediterraneo e le altre frontiere e miliardi per finanziare i paesi (Marocco, Egitto, Turchia, Libia, Tunisia, Ucraina e via dicendo) che stanno appena al di là di quei luoghi affinché facciano il lavoro sporco che permetta ai nostri cuori sensibili (anche se ormai abbastanza anestetizzati) di non vedere i morti sotto casa.

Tutta l’attenzione pubblica e politica sta intorno a luoghi di transito e di scontro. Quali sono le domande che ci stiamo ponendo? “È giusto o meno erigere barriere come quelle ungheresi o macedone?”, “Come può la Grecia ridurre gli arrivi a Lesvos?”, “È giusto dare 3 miliardi a Erdogan?”, “Come faremo a limitare i flussi se in Libia non c’è un governo stabile?” “E se gli austriaci chiudono il Brennero, o i francesi Ventimiglia?”.

Questo è ciò di cui stiamo parlando. Ma questo non ci aiuta in alcun modo a dialogare con la realtà di chi in quei luoghi transita. Nessuno dei migranti coinvolti ha nulla a che vedere con quei luoghi (e in questo l’estraneità tra migranti e Lampedusa nel film di Rosi aiuta a riflettere). A Lesvos o Idomeni ci sono Siriani, Afghani, Pakistani, Uzbeki, Iraqeni, Somali, Bengalesi, Palestinesi. A Lampedusa Gambiani, Nigeriani, Ghanesi, Maliani, Eritrei. E così per tutti gli altri punti di contatto e conflitto.

La domanda è: cosa conosciamo delle loro storie? Cosa siamo capaci o possiamo immaginare di fare nei luoghi di partenza e di arrivo? Abbiamo immaginato strade per intercettare la necessità di fuga o il desiderio di cambiamento nei luoghi di partenza? Sappiamo dialogare con chi è arrivato per costruire ponti con chi vuole partire? La risposta nella gran parte dei casi è negativa. Tutti sappiamo o possiamo ben immaginare quale dialogo siano in grado di avere con migranti e profughi le nostre sedi diplomatiche, consolari o i nostri uffici immigrazione o la gran parte dei centri di accoglienza o identificazione. Sappiamo bene che non funzionano, ma non ne parliamo, perché il problema non sta lì, il problema è sempre e solo al confine. E perché? Perché la parola d’ordine è sempre la stessa: ridurre il numero di ingressi irregolari chiudendo i “buchi” da cui passano. Il rapporto è quantitativo ed è affidato ad esperti della gestione quantitativa, ovvero corpi di polizia o militari. Corpi spersonalizzati che incontrano altri copri senza identità, sperando siano vivi, ma sapendo che inevitabilmente alcuni saranno morti.

Quindi? Finisce anche questo ennesimo articolo con l’improbabile e generalista appello a politiche di aiuto allo sviluppo e con i soliti richiami alle responsabilità storiche dell’Europa? No, finisce con una storia. Quella di Jamadou, un amico ivoriano. L’ho incontrato stamattina all’entrata del mercato di Piazza Vittrorio, a Roma. Non lo vedevo da almeno 4 anni. Ci eravamo conosciuti durante le riprese del mio documentario Il Sangue Verde. Jamadou viveva a Roma, ospite del centro sociale Ex-Snia, uno dei pochi luoghi dove furono ospitati i braccianti africani in fuga da Rosarno, dopo i vergognosi eventi del gennaio 2010. Era in Italia già da 2 o 3 anni. Era arrivato a Lampedusa dopo mesi di deserto, aguzzini e polizie libiche e un paio di viaggi in mare andati male. Senza documenti, sballottato da una campagna all’altra del sud Italia a raccogliere per noi pomodori, arance e patate, ovviamente senza alcun contratto, spesso senza paga e dormendo in baracche o case abbandonate. La sua vita è andata avanti così per almeno 5 anni, finché un giudice non ha accettato il suo secondo o terzo ricorso, concedendogli un permesso di soggiorno. Da lì piano piano Jamadou si è ricostruito una vita normale. Ora lavora come magazziniere in un grande supermercato, vive in un appartamento con amici ed è anche potuto tornare a casa, in Africa, dove grazie alle rimesse sta aiutando fratelli e cugini.

Perché è normale, se non addirittura necessario che la stragrande maggioranza dei migranti possano arrivare ad una “normalità” solo dopo anni di sfruttamenti e illegalità? Perché la storia di Jamadou è la norma? E perché le uniche alternative al destino di Jamadou sono o starsene a casa o morire? I nostri Paesi non sono in alcun modo capaci di dialogare in partenza con chi vuole partire? Siamo destinati a incontrarli (vivi o morti) solo nel punto di impatto? O forse vogliamo che sia così per poter sempre più accreditare quella militare come unica risposta?

Queste sono le domande che vorrei avessimo il coraggio di porre dopo aver visto Fuocoammare. Non limitiamoci a parlare del mare, delle barche, dei salvataggi o dei naufragi. Onoriamone dolore e dignità, ma poi capiamo che non sta lì il centro della questione. Il nobel a Lampedusa o a Lesvos, per quanto sia chiara la forte coscienza che ne genera la richiesta, rischia di essere l’ennesima distrazione dalle nostre responsabilità e dal nostro ruolo. Se non vogliamo che sia così, impariamo a superare questi limiti, altrimenti l’unico terreno di confronto sarà tra chi vuole muri e chi li vuole abbattere. Il problema non sta a Lampedusa o a Idomeni. Sta lì dove partono e lì dove arrivano i viaggi. Lì dove è possibile conoscere i migranti non come corpi schiacciati, ma come persone con idee, progetti e storie. Lì dove è possibile provare a costruire con loro risposte ad esigenze che, pensandoci bene, sono comuni a tutti noi. Altrimenti ci rimangono solo la distanza e l’impotenza, di fronte alle quali l’unica soluzione è quella tecnica e disumana delle forze militari.

Per ringraziare fino in fondo il gesto cinematografico di Gianfranco Rosi, non servono celebrazioni di frontiera, ma cambiamenti di rotta. Solo così possiamo sperare che quelle scene non si possano mai più filmare.

Andrea Segre

[Questa lettera è stata pubblicata il 6 marzo 2016 sul sito web di Andrea Segre, che ringraziamo per averci concesso la possibilità di condividerla anche sul nostro blog].

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