Accompagnati da una presentazione a cura di Francesca Garrisi*, pubblichiamo alcuni frame e alcuni scatti fotografici dai set di “La mela rossa“, “Ligia” e “Japigia Gagi“: i tre documentari di Giovanni Princigalli dedicati ai mondi e alle culture rom, raccolti in “Quaderni Gitani“.
Il cibo dell’immaginario sono i mondi possibili. Un punto interrogativo che, rovesciato, si fa amo e gancio. Una finestra che riflette la realtà esterna custodendo gelosamente un interno, ma, che, spalancata, si fa “ponte” tra i due, dischiudendo l’opportunità di qualcosa completamente nuovo e altro. Un’immagine, questa, che ricorre spesso nei lavori del regista Giovanni Princigalli, barese di nascita e canadese di adozione, da anni impegnato su temi come le migrazioni, e la duplice spinta che investe culture e comunità, tra voglia/bisogno di cambiare pelle e richiamo delle radici.
Cosa succede quando Rom e Gagio (non zingaro) si incontrano? Quanto può essere forte la “resistenza” nei confronti dell’altro? Non c’è contraddizione tra candore e crudezza, aspettative e avversità. A suggerirlo sono le storie che il regista ha incontrato lungo il suo percorso di scoperta/avvicinamento alla comunità Rom di Bari che prosegue da più di dieci anni. Un’esperienza che si dipana, come filo di gomitolo, attraverso Quaderni Gitani, la trilogia che cuce insieme tre istantanee (Japigia Gagi, La mela rossa, Ligia) accomunate da uno sguardo pieno di silenzio e rispetto. Questi tre film sono stati girati nell’arco di ben 13 anni nella stessa comunità e famiglia di rom rumeni che vivono da più di un decennio ormai in un campo di baracche alla periferia di Bari.
Quaderni Gitani non è solo un DVD ma anche un libretto di 40 pagine scritte da Roberto Silvestri (Rai Hollywood party ed ex Manifesto), personalità rom come il musicista e saggista Santino Spinelli, personalità istituzionali (quali il presidente del consiglio della regione Puglia Onofrio Introna ed il garante dei diritti dei minori Rosy Paparella), il sociologo e parlamentare Franco Cassano ed il politologo Ivan Scarcelli (entrambi affiliati all’ateneo barese), e da quattro professori di storia del cinema di origine italiana ma residenti a Montreal. Il tutto corredato da numerose fotografie a colori realizzate per lo più dallo stesso Princigalli in tutti questi anni passati con i Rom rumeni di Bari.
Giovanni Princigalli sceglie di far parlare direttamente la “carne delle cose”, rinunciando al ruolo di narratore onnisciente e giudicante. Così, davanti allo spettatore si susseguono spaccati di vita i cui colori e accenti, a volte anche molto diversi, lasciano in bocca ora un sapore rotondo di empatia, tenerezza, speranza, ora un retrogusto di amarezza mista a senso d’impotenza.
Quel che è certo, è che nessuna delle umanità sfiorate e abbracciate da Giovanni Princigalli, nel racconto collettivo che sceglie di tessere, lascia indifferenti. Attraverso lo sguardo di Dainef, che si offre come sponda di dialogo e mediazione tra Rom e Gagi, veniamo “accolti” all’interno della comunità, condividendo i momenti significativi, i rituali che li sanciscono e anche il culmine della “crisi” che la investe. L’emozione legata alla nascita di una nipote lontana, il matrimonio di due giovani che guardano con malinconia alla spensieratezza che devono lasciarsi alle spalle. L’atto di forza che porta allo sgombero del campo di cui, come un colpo di spugna, alcuni vorrebbero forse spazzare via il ricordo.
Giuly e Vitalis ci ricordano invece che in uno sguardo bambino c’è spazio per il gioco e per l’esperienza, e che si può essere liberi e spensierati in una spiaggia ricoperta da fiori gialli, anche se qualche metro più in là c’è una carriola arrugginita. Una pozzanghera può diventare lo specchio perfetto per riflettere il cielo terso di una giornata di fine autunno, se rinunciamo a tagliare con l’accetta la realtà per separarla da quello che è “solo” immaginato.
E le parole di Ligia, impastate di ironia, raccontano la voglia di una donna, di una comunità e dei suoi figli, di pensare sé stessa altra, oltre il “recinto” a cui è costretta. Come una giovanissima mamma che, con un inconfondibile accento barese, non senza un certo umorismo misto a candore, ammette: «anche adesso guardo cartoni animati. Come si dice … da una bambina nasce un bambino, vero?». Intorno a lei, ulivi, roulotte e bambini che giocano a pallone.
«Filmare con poesia e tenerezza la bellezza in un mondo marginale, non vuole dire accettare la segregazione. Questa è la lezione di Pasolini, Chaplin, Flaherty, De Seta o del De Sica di Miracolo a Milano». In queste parole di Giovanni Princigalli è racchiusa una sorta di dichiarazione d’appartenenza. Al suo lavoro, ai temi che lo accompagnano. Alle umanità incontrate strada facendo, e a cui ha dato voce.
«Il cinema diventa una forma di umanesimo e di civismo, oltre che di emozione di fronte alla scoperta di un micro mondo che riesce a produrre amori, lotte, fierezza, sogni, laddove: «La dignità rinasce proprio dove non c’è più dignità», come diceva Pasolini nel documentario di Cecilia Mangini Ignoti alla città (1988)». Difficile trovare un modo più inchiodante per dirlo. E ancora una volta, Giovanni Princigalli conferma la sua capacità di “restituire” al pubblico immagini sorprendentemente evocative ed efficaci non solo sul piano visivo, ma anche in termini testuali, basti pensare ad alcuni suoi lavori precedenti come Gli errori belli e Ho fatto il mio coraggio. Perché per scegliere di dedicarsi agli eroi fragili bisogna avere sguardo allenato, passione smisurata, e una certa incosciente tenacia.
* Il contributo è stato pubblicato per la prima volta dalla rivista Q CODE MAG