Dove si va da qui. Affrontare il passato coloniale

Pubblichiamo alcune riflessioni di Fiori Berhane sulla “crisi migratoria”, il passato coloniale e una possibile risposta al crescente razzismo italiano (traduzione dall’inglese di Antonella Sisto).

Da tre anni conduco una ricerca etnografica sulla polarizzazione politica, la memoria nazionalista eritrea e la crisi migratoria in Italia. Sono un’eritrea americana di prima generazione e sto finendo la mia ricerca di dottorato in antropologia socio-culturale negli Stati Uniti. Quando mi ritrovo a parlare del colonialismo italiano con gli eritreo-italiani, gli eritrei immigrati in Italia e i loro figli, ricevo come risposta o degli sguardi increduli o dei dolorosi silenzi.

Nei dibattiti sulle questioni di razza e “crisi migratoria” mi colpisce quanto poco gli eritrei vengano presi in considerazione nel dibattito pubblico al di là del loro stato di vittime di un regime autoritario di una nazione che è anche stata una colonia italiana.

Dal 1890 al 1942 l’Eritrea è stata una colonia italiana, il primogenitor d’Italia. L’inseguimento della gloria imperiale da parte degli italiani ha dato ad Asmara il suo indelebile paesaggio architettonico che è stato recentemente riconosciuto come Patrimonio dell’Umanità da parte dell’Unesco. I palazzi di Asmara non sono solo un’eredità della grandiosità imperiale ma anche della sua arroganza. L’Italia istituì in Africa e in Eritrea il primo regime d’apartheid, fatto dimenticato da molti italiani. Peggio ancora, se uno chiede a un italiano medio i motivi per cui “gli africani” stanno arrivando in Italia, si comprende quanto poco si sappia di chi arriva, quali siano le circostanze di questo esodo e quale sia il ruolo dello Stato italiano nella geopolitica delle sue ex colonie nel Corno d’Africa e in Libia.

Per esempio nel 2005 i migranti e le migranti provenienti dalla ex-colonia eritrea oscillavano tra il primo e terzo gruppo più numeroso che ha attraversato il Mediterraneo, e fatta eccezione per qualche articolo critico, questo dato viene raramente fatto presente nelle discussioni sulle crisi migratorie. Fondamentalmente, il colonialismo italiano compare molto poco nelle discussioni sulla responsabilità, le forme di aiuto e di giustizia necessarie di fronte alla crisi. Ritengo che dovrebbe avere un peso completamente diverso.

L’aria che tira

L’elisione del colonialismo italiano – che aveva preceduto l’invasione fascista dell’Etiopia – spesso rappresentato come anomalia storica, genera una sorta di amnesia collettiva attraverso cui le opinioni degli italiani sulle differenze razziali vengono considerate semplicemente come delle risposte naturali di fronte ai recenti e senza precedenti cambiamenti demografici. Ignorare l’eredità coloniale italiana non consente di capire la sostanza del razzismo italiano e dei suoi modi. Affermazioni come “gli italiani erano cattivi colonizzatori” o “abbiamo costruito tutto lì [in Eritrea] e non abbiamo ricevuto nulla in cambio”, o “siamo andati lì per fare l’amore [in riferimento al numero di bambini di razza mista abbandonati nelle colonie]”, riflettono un’ideologia condivisa che minimizza la violenza razzializzata del colonialismo italiano e che influenza le opinioni attuali sulle migrazioni e sulla differenza razziale.

Queste risposte comuni formano la spina dorsale delle ideologie razziali italiane – ideologie che hanno la loro radice nel colonialismo e nelle sue varie forme di negazione, deviazione, minimizzazione – e delle affermazioni su come gli italiani stessi siano stati vittime storiche che hanno da emigranti subito forme di discriminazione.

Tutto questo non vuol dire che non ci siano elementi di verità in queste affermazioni, ma serve a sottolineare le specifiche storie politiche, sociali e culturali che contribuiscono ai processi di razzializzazione. Questi discorsi non solo sottolineano la difficoltà che la gente comune ha nel comprendere che cosa costituisca il ‘razzismo’, ma ne impediscono anche la sua comprensione. In pratica questi discorsi evitano la responsabilità del presente mobilizzando un passato parzialmente inventato in cui gli italiani diventano vittime storiche.

Mentre lo statuto razziale di ‘bianchi’ degli italiani non è mai stato veramente fissato, queste ideologie razziali precludono una vera comprensione del presente e passato, necessaria a rispondere in maniera adeguata ad un fascismo rinascente che usa il linguaggio dell’invasione e della “naturalezza” di comunità etnicamente e razzialmente omogenee per risvegliare paure razziali di contaminazione. Queste idee sono ricorrenti. Uno dei miei primi incontri con un potenziale padrone di casa è finito con lui che mi diceva che sentiva che “gli africani sono una minaccia perché non sono come i cinesi che sanno stare al loro posto… [gli africani] vogliono mischiarsi.” Questo mi è successo una settimana dopo il mio arrivo in una casa in affitto temporaneo, dove sono stata accolta con un uovo lanciato alla porta d’ingresso, e poi dalla polizia che è arrivata nell’appartamento dopo aver ricevuto una segnalazione che diceva che lì ci viveva un “clandestino”.

Una frase presa da un attivista italiano – “l’aria che tira” – riassume al meglio questo onnipresente ethos razzista che ho percepito fortemente in questi anni di etnografia in Italia.

L’aria che cambia

Per quanto riguarda gli eritrei italiani che nelle conversazioni con me superano il doloroso silenzio, ho trovato nelle loro storie una forte presa di coscienza morale ed una condanna della politica corrente di odio razziale. Questo è stato il risultato di un lavoro di contestualizzazione di critica politica di un impero abortito all’interno di storie familiari private e attraverso la storia politica collettiva dell’Eritrea e degli eritrei. Ritengo che questa nuova spinta abbia preso piede all’interno della crisi migratoria, le cui dimensioni più visibili vengono “contenute” in Libia, ma che continua incessantemente ad abusare, ammazzare e intrappolare giovani eritrei e africani in un gioco globale del gatto e del topo fatto di detenzioni, rilasci e contrabbandi di esseri umani. 

Per esempio con Salvini l’Italia ha rinnovato gli accordi d’amicizia con le autorità libiche. Questi accordi erano stati stretti prima da Berlusconi, che aveva offerto sostanziali aiuti al colonnello Gheddafi come ricompensa e scuse per il passato coloniale italiano a patto che Gheddafi accettasse i migranti intercettati in mare. Questi accordi consentivano alle autorità italiane di rispedire indietro navi di migranti in Libia, contravvenendo alle leggi internazionali che tutelano i diritti d’asilo. I centri di detenzione libici sono spazi che funzionano come dei lager. Quasi ogni giovane eritreo che è arrivato in Italia a partire dalla metà del 2000 ha fatto esperienza di imprigionamenti, torture, fame, abusi sessuali e stupri in questi centri di detenzione. 

Come uno dei miei interlocutori mi ha detto durante un incontro di attivisti eritrei “i nostri nonni sono stati mandati a morire in Libia” come ascari, i soldati coloniali dell’Africa Orientale Italiana. Poi ha mostrato un’immagine di giovani eritrei abusati e torturati in Libia nel 2017. Il passato non è passato abbastanza.

Quando l’Italia perse le sue colonie africane – Eritrea, Libia e la Somalia Italiana nel 1946 con il Trattato di Pace a seguito della Seconda Guerra Mondiale – l’Eritrea fu federata all’Etiopia; nel 1962 il territorio fu annesso con la forza dall’Etiopia, dando inizio a trent’anni di guerriglia tra i vari movimenti separatisti eritrei e i governi etiopi. Gli eritrei cominciarono ad arrivare in Italia come lavoratori e studenti a partire dagli anni Settanta durante i trent’anni di guerra eritrea di indipendenza dall’Etiopia. La prima ondata di migranti ha costruito una comunità diasporica che sosteneva fortemente i guerriglieri che lottavano per liberare il paese.

La seconda ondata di rifugiati, spesso indicata dagli studiosi come “generazione richiedente asilo” a partire dalla metà del 2000 arriva attraversando il Mediterraneo. Con poca memoria della “lotta” trentennale tra Eritrea e Etiopia, e tantomeno del periodo coloniale italiano che ha creato l’Eritrea, questa nuova generazione di rifugiati eritrei ha dovuto ritagliarsi il proprio spazio politico di fronte alla crisi migratoria. 

La mia ricerca analizza come la prima e seconda ondata di rifugiati eritrei costruisce la propria comunità a partire da diverse traiettorie di migrazione e storie e memorie collettive. Mentre la crisi è peggiorata per questa comunità, i cui membri familiari sono imprigionati in Libia dove i contrabbandieri chiedono riscatti fino a 30.000 dollari per il rilascio dei prigionieri, il passato coloniale è diventato una questione da interrogare e un punto di partenza per una presa di coscienza morale.

Uno dei miei interlocutori, Adel (pseudonimo) ha organizzato una serata, a cui ha partecipato un pubblico prevalentemente bianco, in cui si serviva cibo eritreo e si mostrava un calmo documentario di viaggio sulla bellezza dell’Eritrea. L’atmosfera dell’evento con 200 partecipanti italiani era leggera. La gente era chiaramente felice di mangiare quel cibo esotico e rideva alle battute di Adel, un tipo particolarmente carismatico.

Mentre raccontava la storia della sua vita Adel ha cominciato con il suo viaggio attraverso il Sahara, la detenzione in Libia, la traversata del Mediterraneo e infine l’Italia.  Ad un certo punto, uno dei partecipanti ha chiesto quale sia il motivo per cui i giovani eritrei lasciano l’Eritrea e siano pronti a morire. Adel ha raccontato la storia complicata dell’Eritrea e ad un certo punto ha detto: “il mare è chiuso”. I modi esuberanti di Adel si sono rabbuiati, gli è presa una tremenda amarezza mentre parlava della complicità del governo italiano con la Libia, del voltafaccia di Minniti da comunista convinto a complice del regime libico, e degli effetti del colonialismo italiano sul suo paese.

Ho sentito che il suo umore cambiava. Mentre Adel parlava, ad una ad una le persone hanno cominciato ad andar via a testa bassa. Quando l’evento è ufficialmente finito, un’anziana signora italiana si è avvicinata e presentata a me e ad uno degli altri pochi eritrei presenti. Sembrava sconvolta e ha detto sia a me sia all’altro eritreo: “mi dispiace, però non era colpa nostra”.

Questo rinnovato interesse politico da parte degli attivisti con cui lavoro è abbastanza recente. Al culmine della “crisi” nel 2015 sentivo raramente parlare di colonialismo o anche di razzismo. I dibattiti sulla crisi migratoria e chi o che cosa fosse da ritenere colpevole si concentravano sulle dinamiche intra-diasporiche di polarizzazione – alcuni nella diaspora sostenevano il regime di Isaias Afwerki che è stato al potere a partire dall’indipendenza dell’Eritrea nel 1993, mentre altri lo condannavano per le pesanti violazioni di diritti umani che hanno creato questa ondata di migrazione di rifugiati senza precedenti da un paese in tempi di “pace”.

Il livello crescente di insulti verbali, minacce, violenze e omicidi con motivazioni a sfondo razziale insieme al governo dell’alleanza populista tra i Cinque Stelle e la recentemente ribattezzata Lega, ha reso evidente per alcuni eritrei il proprio stato di soggetti razzializzati, spingendoli ad interrogare il passato coloniale italiano come punto di partenza per capire il presente.

Questo interesse nel colonialismo italiano e la questione della razza è cresciuto a volte di pari passo a scavi profondamente personali nel passato coloniale col suo fulcro di violenza simbolica e personificata. Nella complicata storia del nazionalismo eritreo, l’Etiopia è stata considerata e costruita da lungo tempo come il potere coloniale contro cui gli eritrei combattevano e in contrasto a cui si definivano, sebbene i due paesi condividessero numerosi legami linguistici ed etnici. In questa narrazione, il colonialismo italiano era responsabile della fabbricazione di una cultura e identità politica eritrea diversa da quella dell’Etiopia.

L’elisione del passato coloniale italiano da parte della storiografia nazionalista eritrea è servita a rafforzare le rivendicazioni d’indipendenza eritrea dall’Etiopia, e riflette il fatto che non si sia mai sviluppato un reale processo di decolonizzazione dal potere coloniale italiano. Diversamente dai francesi che dovettero far fronte in Algeria ad una violenta resistenza popolare di massa, gli italiani non hanno mai dovuto confrontarsi con la questione del passato coloniale. Gli eritrei invece scoprono le tracce del governo coloniale sepolte nelle storie e memorie individuali senza un fulcro coesivo.

Articolare frustrazioni e domande, o confrontare le memorie sepolte di questo passato si traduce per gli eritreo-italiani in due cose: in primo luogo, affermare che gli eritrei-italiani appartengono all’Italia se se ne considera la responsabilità e il debito storico, mettendo così in evidenza come anche gli imperi abortiti lascino tracce; in secondo luogo, significa mettere in discussione le basi della storia e dei discorsi nazionalisti egemoni eritrei che escludono prospettive diverse da quelle dell’ortodossia del Partito di Democrazia e Giustizia (il partito al governo dello stato di Eritrea). 

La produzione culturale della seconda generazione, come ad esempio il documentario Asmarina di Medhin Paolos sulla comunità eritreo-italiana a Milano, investiga il silenzio e l’amnesia culturale del passato coloniale affermando che “noi” (eritreo-italiani) siamo esistiti qui in Italia sin da prima della crisi della migrazione. In più, questi prodotti culturali aprono uno spazio di conversazione col più vasto pubblico italiano su cosa questo passato abbia significato e dove si va da qui come società in evoluzione.

Il linguaggio di difesa razziale esemplificata dallo slogan prima gli Italiani evita la questione della nostra vulnerabilità condivisa come esseri umani e quello che ci dobbiamo reciprocamente. Sono cautamente ottimista in questo momento di “crisi” collettiva, perché si tratta di un momento di profonda lucidità che mette a nudo le ipocrisie e le contraddizioni delle storie imperiali e dei regimi confinanti. È anche un momento di chiamata all’azione e riflessione collettiva.

L’indifferenza europea di fronte agli innumerevoli annegamenti è un fenomeno relativamente nuovo fomentato anche da leggi che criminalizzano la solidarietà. Sono riluttante ad invocare il linguaggio dell’umanesimo o universalismo come risposta politica adatta alla crisi. Tuttavia, un “umanesimo situato”, che nasce dalle voci di coloro che ricordano gli annegati, può aiutarci a recuperare quanto andato perduto. Affrontando il passato coloniale si riconosce che abbiamo dei debiti l’uno con l’altro, che non possiamo sfuggire alla responsabilità e che il passato resiste nel presente in modi che sfuggono all’immaginazione.

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