Proteggersi con stile

Questioni di moda, mascherine e semiotica.

Fonte immagine: Pavel Pjatakov (Unsplash)

Nonostante i primi siti internet di moda compaiano attorno alla metà degli anni Novanta, lo snodo fondamentale nella storia della moda digitale coincide con la nascita dei fashion blog all’inizio del nuovo millennio, spazi comunicativi contraddistinti da una rapidità di aggiornamento del tutto in linea con lo spirito dell’accelerazione produttiva e di consumo della moda contemporanea. 1

In un contesto in cui internet ha impresso un ritmo prima impensabile alla circolazione delle notizie sui media e i blog hanno del tutto destrutturato la tempistica dell’informazione tradizionale, le modalità comunicative adottate dai fashion blog, nel loro concorrere a raccontare e semantizzare gli abiti, si sono fatte estremamente sintetiche e informali, così da assumere un tono confidenziale e conversazionale in linea con una società contemporanea mercificata e consumista votata all’effimero e alla rapidità.

L’attuale società dell’istante, del “presente egemonico”, per dirla con Marc Augé, incurante com’è del passato e del domani, vive del solo hic et nunc, come testimonia la caducità delle creazioni di moda a obsolescenza programmata sempre più breve. Se, come sostiene Roland Barthes, ogni moda nel momento in cui si presenta si palesa come rifiuto di ereditare, come sovvertimento nei confronti della moda precedente, allora in una società che ama dimenticare il passato e non pensare troppo al futuro, la moda è indotta a rinnovarsi incessantemente e in tempi sempre più brevi. «Nell’era di snapchat, dove i filmati durano il tempo di essere visti, anche la moda sembra parcellizzare la sua funzione di interprete del momento presente al giorno e all’ora».2 Tanto che, da qualche tempo a questa parte, è in corso un ripensamento delle sfilate volto a permettere l’acquisto immediato del prodotto visionato sulla passerella, azzerando così il tempo dell’attesa. I ritmi della moda si sono fatti talmente rapidi che, secondo Lidewij Edelkoort, al di là delle obsolescenze programmate che caratterizzano qualsiasi oggetto di consumo, è la moda stessa a essersi avviata a divenire obsoleta, nel senso che tende a implodere su se stessa autonegandosi.

La trasformazione radicale del racconto della moda che si è data nell’epoca dei social ha portato, come sottolinea la studiosa Nicoletta Polla-Mattiot, l’oggetto-moda a non essere più semantizzato dal contesto e dalla relazione spazio-temporale con esso, ma dal personaggio che costruisce il racconto nella parcellizzata estemporaneità di un selfie. Ed è così che i fashion blogger si sono trasformati in influencer, ossia in venditori.

E-commerce e social network hanno davvero riconfigurato il mondo della moda, tanto da indurre i negozi tradizionali a cercare elementi distintivi che ne giustifichino la presenza a partire dal rapporto che si viene a creare tra città, heritage culturale e consumi. Non mancano poi casi in cui la moda ha individuato nell’arte il medium attraverso cui il brand può proporre il proprio sistema valoriale in quanto marca e presentarsi al contempo come curatore di un’eredità territoriale da preservare e condividere con la collettività.

È in tale contesto che è arrivata la pandemia da Covid-19 e con essa la crisi che ha costretto il mondo della moda a fare i conti con il suo essere divenuto un meccanismo produttivo e commerciale ormai insostenibile per i lavoratori, per i consumatori e per l’ambiente. L’attenuazione della vita sociale imposta dalle misure adottate per fronteggiare il contagio ha fatto esplodere una crisi che probabilmente si sarebbe presto palesata: il tempo della moda istantanea ad obsolescenza sempre più repentina sembrerebbe essere imploso sul blocco spazio/temporale sanitario con cui hanno dovuto fare i conti gli abitanti dell’intero pianeta.

La pandemia ha anche trasformato la mascherina da strumento di protezione un tempo riservato esclusivamente a culture, aree e professioni specifiche, in dispositivo da indossare obbligatoriamente e contemporaneamente in tutto il mondo.

Il fatto che nel momento di massima richiesta di mascherine anche il sistema della moda si sia prestato a far fronte alla loro produzione può per certi versi essere letto come un’ammissione di fragilità da parte di un settore incline a estremizzare la logica di una civiltà in perenne corsa contro il tempo nella convinzione di essere invulnerabile.

La pandemia passerà lasciando le sue macerie alle spalle, l’economia tenterà, come dopo una guerra, di trovare il modo di sfruttare la distruzione avvenuta e le mascherine si diraderanno ma non mancheranno di lasciare traccia di sé nelle collezioni di moda che verranno.

Scrive Bianca Terracciano nell’introduzione all’antologia da lei curata insieme a Isabella Pezzini, La moda fra senso e cambiamento. Teorie, oggetti, spazi (Meltemi 2020).

Moda è anche proteggersi con stile: abbinare la mascherina al total look, esaltare gli occhi, i soli, in assenza di bocca, a preservare la funzione individuante, socializzante, e comunicante del volto (Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Mille plateaux, 1980). Un’intersoggettività monca fabbricata da nuovi poter fare che risemantizzano le relazioni sociali. Mascherarsi non vuol dire più negare l’essere a favore dell’apparire, ma guardare al futuro attenuando l’angoscia. La moda è significazione, discorso, segno, codice, valore; la moda è semiotica (p. 25).

Per una formulazione di una teoria semiotica della moda è inevitabile partire da un’analisi della semiotica dell’abbigliamento in generale, visto che già quest’ultimo, oltre a una funzione pratica di protezione del corpo, è organizzato in vista della produzione di senso. Quando si parla di moda ci si riferisce però a qualcosa di ben più complesso rispetto all’ambito vestimentario e della sua localizzazione; parlare di moda significa infatti confrontarsi con un laboratorio privilegiato dell’anticipazione che introduce nel presente le potenzialità della trasformazione.

Se negli studi pionieristici del rapporto tra linguaggio e moda tanto Roland Barthes che Algirdas Julien Greimas si concentrano soprattutto sul metalinguaggio dispensato dalle riviste, ora è inevitabilmente all’ambito dei social network che occorre far riferimento. Dall’avvento del web in poi, la società contemporanea sembra aver trovato nell’iconizzazione dei contenuti attraverso l’interfaccia degli schermi la sua risposta alle esigenze di velocità, mobilità e consumo compulsivo che la contraddistinguono.

Attraverso la sua iconizzazione, le sue immagini condivise e la sua creatività, la moda si trova a rappresentare spesso i nodi cruciali di un cambiamento che non riesce a esprimersi in altri canali; la moda, nel suo esprimere tendenza, configura micromondi e micro-identità ove è possibile leggere le grandi istanze del tempo presente. 

Dal momento in cui, almeno a partire dalla comparsa della haute couture a metà Ottocento, all’interesse per le caratteristiche fisiche della produzione vestimentaria si è sostituita una lettura del capo di abbigliamento come artefatto culturale sempre più complesso, la moda, del suo operare una mediazione tra gusto, senso comune e comunità, ha sempre più a che fare con la costruzione identitaria.

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Note

  1. Cfr. A. Rocamora, I nuovi fashion media e l’accelerazione del tempo della moda, 2013, in C. Evans e A. Vaccari, a cura di, Il tempo della moda, Mimesis, Milano-Udine 2019.
  2. N. Polla-Mattiot, Le migrazioni della moda, in D. Baroncini, Moda, metropoli e modernità, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 131.
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