“Le stelle vicine”, di Massimo Gezzi: la recensione di Linnio Accorroni.
Nell’ interessante pamphlet Il realismo è l’impossibile di Walter Siti (Nottetempo, 2013), l’autore cita, proprio all’inizio del libro, un episodio tratto da una biografia di Chesterton dedicata a Charles Dickens. Un Dickens che, molto giovane e molto povero, ai limiti dell’indigenza, passava, in mancanza di alternative, le sue giornate in un locale londinese. L’insegna del locale, campeggiante sulla porta a vetri, era la classica «Coffee Room». In realtà, il giovane Dickens leggeva questa scritta all’interno del locale e quindi rovesciata: non più il normale «Coffee Room», ma l’esoterico, straniante «Moor Eeffoc». Per Chesterton, questa formula – «Moor Eeffoc» – tanto incomprensibile quanto misteriosa, è il motto di ogni realismo efficace. Realismo quindi come anti-abitudine, come scarto, come il famoso strappo sul cielo di carta di cui parla Pirandello ne Il fu Mattia Pascal. Realismo come la focalizzazione di un particolare apparentemente secondario, ma inaspettato che rompe i lacci consueti delle nostre più consolidate stereotipate abitudini percettive di comprensione del reale.
In questo senso, mi pare che i racconti de Le stelle vicine di Massimo Gezzi rientrino, di diritto, all’interno di questa suggestiva categoria di realismo anti-realistico. Tanto più, cioè, come accade nelle dodici storie raccontate da Gezzi, il realismo si fa ossessivamente preciso, minuziosamente analitico, tanto più esso prelude allo scarto ed al particolare straniante. E, quando questo si materializza, è come se la realtà tutta mutasse, investita dalla presenza di un significato del tutto inedito ed imprevedibile. È sempre Siti che evoca la celebre battuta – di una contraddittorietà solo apparente, alla luce di quanto scritto finora – di Maupassant, il quale pretendeva, per i realisti di talento, la più appropriata definizione di ‘illusionisti’.
Molte sono quelle che potremo chiamare, ricorrendo ad un lessico giuridico, le prove testimoniali, nel libro di Gezzi, degli scarti e degli strappi che rendono «anti-realisticamente realisti» questi racconti. Si pensi al racconto incipitario Cinghialedove, nel finale, viene rappresentata una sorta di Apocalisse che, per cortocircuito mentale, ricorda la ‘pioggia di rane’ nel film Magnolia («E allora vedo, sento le crepe che si allargano sul pavimento, sul soffitto dell’Eden Bar, vedo i vetri che si spaccano, il lampo del cortocircuito che fa saltare i videogiochi e bruciare il flipper»); e si pensi anche, nel racconto Il controllore, a quel gesto inconsulto della ragazza che si mette le mani tra le cosce, quasi a fermare un fremito sessuale. Ma anche, nel racconto eponimo della raccolta Le stelle vicine, l’incontro con un istrice, apparizione tra il totemico ed il salvifico. Poi ne L’angelo l’insistenza sul dettaglio, pleonastico, del carattere («tipo Arial Black, proprio al centro della pagina») con il quale il presunto stalker scrive i messaggi, e, in quello che è la più nickadamsiana delle storie (Nick Adams è il bambino-adolescente, indimenticabile protagonista di alcuni fra i più bei racconti di Hemingway), il copertone di gomma che l’immaginifica fantasia del bimbo scambia per una balena.
A questo proposito, passando alla forma espressiva di questi racconti, torna alla memoria il titolo di un racconto hemingwayano (Un posto pulito, illuminato bene) che può tornare utile ad indicare le caratteristiche principali della prosa gezziana. Una prosa che si fa apprezzare per uno stile terso, tutto nitore ed eleganza formale. Un’apologia del
Less is more o, per usare una formula latineggiante, di quel ‘Minus dicere et scribere’ che potrebbe tornare utile a molta parte della narrativa italiana contemporanea. Perché, come vaticinava Cristina Campo : «Un giorno saremo chiamati a render conto di tutte le parole dette e scritte».
Ma, ad indagarla in maniera meno superficiale ed impressionistica, non è poi così tanto ‘pulita’ l’aria che si respira in questi racconti de Le stelle vicine. Essi sono, in gran parte, ambientati in una sorta di provincia asfittica, un luogo di efferate crudeltà più volentieri esibite, con plateale ferocia, piuttosto che trattenute, un ambiente dove la violenza spesso pare la dimensione naturale di ogni umana esistenza, dove il mood dominante è quello del bigottismo, del conformismo, della ipocrisia imperante. Un luogo dove regnano incontrastate la rabbia, il dolore, il «tedio a morte del vivere in provincia», per dirla con Guccini. Quindi un’immagine della provincia che appare esattamente rovesciata rispetto a quella tendenza, oggi in gran voga, di stolti esegeti e cantori della mortuaria quiete della provincia, che ne decantano incommensurabili virtù, altissimi pregi e misteriose virtù. Non paia irrilevante il fatto che questi curiosi laudatores della bellezza della vita in provincia, vivano stanzialmente in città e metropoli molto poco provinciali.
Esiste poi, in questi racconti di Gezzi, una sorta di corrispondenza speculare fra luoghi, storie e personaggi. In effetti, alcuni luoghi fra i tanti toccati da Gezzi rivestono una concentrazione tale di significati da farli sembrare delle allegorie ad alta concentrazione simbolica. Due, in particolari, fra questi luoghi, restano scolpiti nella memoria del lettore: il campo da calcio che, nel racconto Cinghiale (nomen omen che ricorda il «Mi dissi: Buffalo! – e il nome agì», così Montale in una poesia de Le occasioni) diventa bocca vuota spalancata e buco che ingoia tutto (la storia? La memoria? L’esistenza stessa dei personaggi?); così come, nel commovente Sine materia, la rampa d’ospedale che diventa lo snodo su cui attraversare il confine fra vita e morte.
Come una specie di epigono carveriano, in quel di Sant’Elpidio a Mare, anche Gezzi popola il suo universo creativo di perdenti, falliti, devianti. Ma la sua prosa limpida mostra non soltanto una comprensibile devozione verso l’immenso Carver, ma aggiorna anche la lezione di stile dei racconti delle Langhe di Fenoglio e Pavese, del Tondelli di Altri libertini e, perché no, anche di alcune splendide storie a fumetti di quel genio, mai troppo compianto, che è stato Andrea Pazienza.
Una musica di fondo permea tutti questi racconti: è la musica dolce, ma anche ricattatoria, della nostalgia. Va detto, però, che Gezzi schiva, da par suo, patetismi autoconsolatori o moralismi logori, per dedicarsi all’analisi, in termini narrativi, di quel cronotopo – l’adolescenza e la provincia – che pare tappa decisiva nella formazione dei suoi personaggi. E poi la nostalgia, come dice oggi il tanto vituperato Agamben, «è comunque sempre un buon punto di partenza».