L’ultima ribellione: cultura rave nel romanzo ibrido di Vanni Santoni

Di seguito l’intervista a Vanni Santoni per l’uscita del suo ultimo romanzo “Muro di casse“, uno dei quattro titoli d’esordio della nuova collana Solaris di Laterza che propone nuove letture del contemporaneo.


Dimitri Chimenti –
Per chi non ha mai partecipato a un rave, leggere Muro di casse significa imbattersi in un fenomeno le cui dimensioni lasciano increduli. È infatti difficile figurarsi trentamila persone che ballano musica techno nei boschi intorno a Pinerolo. Com’è possibile radunare tanta gente? Cos’è un free party? Dove si pone l’Italia nella geografia delle feste?

Vanni Santoni – Il teknival di Pinerolo è un caso limite, dato che avveniva nel 2007, forse l’anno in cui il movimento free tekno aveva raggiunto la massima estensione e anche una rischiosa esposizione mediatica mainstream, che portava sì a feste sempre più grandi, ma anche all’arrivo di gente che non conosceva o condivideva gli ideali libertari e di riconfigurazione radicale dello spazio pubblico alla base del movimento. Tuttavia anche al di là di Pinerolo, e senza tirare in ballo il Czechtek del 2004, che di presenze ne segnò quasi cinquantamila, con oltre cento soundsystem, di feste interamente sotterranee ma con cinque-sei-settemila persone ce ne sono state migliaia in tutta Europa.
Un free party è quello che nella vulgata è chiamato comunemente “rave”: una festa interamente autoprodotta e autogestita, assolutamente gratuita, genuinamente anarchica, a base di musica elettronica (techno, ma non solo, ci possono ben essere altri generi e sottogeneri, come breakbeat, frenchcore, drum’n’bass, psychedelic trance, la stessa tribe tekno, che è una versione più veloce, brutale e “artigianale” della techno) e che dura in genere molto più di una serata tradizionale, a volte anche molti giorni, spezzando, con ciò, la divisione tra tempo del lavoro e tempo del divertimento imposta dalla società.
L’Italia ha una posizione di rilievo nella geografia della free tekno perché fu il terzo Paese a essere investito dalle sue spore. Idea nata in Inghilterra, si diffuse poi in Francia a causa di un esodo delle tribe (i gruppi organizzatori) causato da una pesante repressione, e poi da lì in Italia, e successivamente in Repubblica Ceca, un Paese dove ancora oggi la scena è molto grande e vitale, e altri Paesi come Spagna, Portogallo, Austria, Bulgaria, Polonia…

D.C. – Riconfigurare lo spazio e spezzare la divisione dei tempi significa innanzitutto sottrarsi a ogni forma di controllo e di sorveglianza. È forse per questo che i rave sono spesso percepiti come una minaccia?

V.S. – Senz’altro. Una volta un amico che lavora molto dentro i gangli del cosiddetto “sistema”, mi disse ridendo: «Macché rumore, macché sostanze, i rave sono perseguitati perché sono gratuiti e perché fanno saltare il casellario del tempo di lavoro vs tempo del divertimento». Condivido, alla fine quello che dà veramente fastidio in questo tipo di eventi è il fatto di “rompere” rispetto alle consuete logiche di profitto e organizzazione del lavoro – in una parola, rispetto alle esigenze profonde, ai valori fondanti, del capitale. Ma il capitale è furbo e insinuante, da un lato reprime, dall’altro seduce e si insinua in ciò che non può spezzare, e infatti sono state anche le sempre più diffuse logiche di “business” a minare la cultura free tekno.

D.C. – Muro di casse assomiglia per certi aspetti a un saggio, per altri a un reportage, talvolta sembra imboccare la strada della narrazione autobiografica, in appendice metti persino alcuni documenti e una bibliografia di riferimento, però nella prefazione specifichi di aver utilizzato lo strumento del romanzo. Perché il romanzo? In cosa consiste la specificità di tale strumento? Cosa ti ha spinto a ibridarlo con altre forme discorsive?

V.S. – Credo che, nonostante l’utilizzo di un largo spettro di strumenti, Muro di casse sia anzitutto e soltanto un romanzo, dato che stiamo parlando di una forma che ha ormai imparato a contenere qualunque cosa senza per questo snaturarsi – come aveva a scrivere Gospodinov, «Il romanzo non è ariano». Di conseguenza, proprio in virtù di questa sua natura meticcia, il romanzo è ancora uno strumento molto potente per raccontare fenomeni complessi.
Al di là di ciò, la scelta di spingere fino a questo punto questa ibridazione di forme (a volte ci sono addirittura delle parti in versi) ha che fare con la natura sincretica della free tekno, e quindi con la ricerca di una certa unità tra forma e contenuto: stiamo parlando di un fenomeno che ha radici ideologiche nel DiY del punk ma anche nella psichedelia e nelle comunità autogestite della cultura hippie; che usa uno strumento – il soundsystem – inventato dai giamaicani per il reggae, ma che ha anche radici musicali nella club culture; che si riappropria di spazi industriali usati ma segna un nuovo rapporto con le tecnologie digitali; che si basa, in ultima istanza, su musica mixata, messa assieme da fonti diverse, spezzata, riamalgamata, trasformata in flusso.

D.C. – Sin dalla prima pagina salta all’occhio il modo in cui utilizzi la lingua, alternando alla complessità del fraseggio il mimetismo dialettale di certi dialoghi. Hai cercato di produrre un effetto di straniamento oppure l’incontro dei diversi registri linguistici risponde a un’esigenza diversa?

V.S. – Sicuramente a volte ho deliberatamente “spinto” su questo contrasto tra descrizioni anche molto complesse e dialoghi icastici e gergali, onde rinforzare entrambe. Forse, a posteriori, si può ipotizzare che ciò nascesse anche dall’esigenza di rendere a parole qualcosa che aveva il potere di essere sia apocalittico e degradato che incredibilmente bello e limpido.

D.C. – Muro di casse parla di musica e droghe, manca però il terzo elemento, il sesso. A differenza delle generazioni precedenti, la comunità che descrivi non sembra aggregarsi attorno al desiderio sessuale, a comporla e scomporla è piuttosto una pulsione nomadica, un nomadismo post-Schengen che contrae le distanze a forza di traversate in furgone e di voli low cost. È davvero così?

V.S. – Senz’altro. Per carità, è ovvio che un mondo come quello dei free party, intrinsecamente anarchico e libertario, è anche emancipato e “liberato” sessualmente – in alcune scene ha anche avuto e ha i suoi bei contatti con il mondo queer – ma il sesso non fa più parte dell’equazione, non è più al centro di nessun discorso di ribellione.

D.C. – E lo è il nomadismo? In che modo? Quali traiettorie segue? Perché migliaia di persone provenienti da tutta Europa anziché a Berlino si raccolgono ad Altopascio o nel Valdarno?

V.S. – Questo della rimappatura di città e continenti è un aspetto molto interessante del fenomeno. Certe location ovviamente nascono dalla necessità di stare fuori mano e quindi fuori dalla vista dei “non iniziati” e fuori dal tiro delle ben più cospicue e organizzate forze di polizia che si trovano nelle città medie e grandi, tuttavia l’effetto è stato quello di una radicale messa in discussione della geografia sociale: per la società dello spettacolo e del capitale è impensabile che un megaevento si svolga in un luogo come Altopascio – o, anche senza andare in provincia e rimanendo in una metropoli, in un capannone di Segrate invece che in centro a Milano. Questo però non è ancora nomadismo: le tribe nomadi “pure” hanno radici in una tradizione preesistente, quella dei new age traveller del Regno Unito, che furono una filiazione del movimento hippie e vennero duramente repressi dalla Thatcher salvo poi trovare nuova linfa proprio nell’ibridazione col movimento free tekno.

D.C. – Nel romanzo, uno dei personaggi rimprovera alla tradizione marxista di non aver compreso il potenziale rivoluzionario dei free party. Non credi però che quella che descrivi sia una comunità residuale, senza agganci concreti che eccedano le feste e quindi, come di fatto è accaduto, pronta a sfaldarsi alla prima pressione che viene dall’esterno? La festa è finita o continua?

V.S. – Il discorso è a monte. Pensa al ’68, agli anni subito precedenti. Negli Stati Uniti, dove, per ragioni storiche, non c’era tutto questo spazio per il marxismo, il movimento di ribellione aveva una fortissima nota psichedelica, di creazione di spazi “altri” anzitutto mentali, una nota che poi è stata, assieme ai movimenti per i diritti civili, quella più fertile nei decenni a seguire. Un po’ la stessa cosa si è vista anche nel Regno Unito. Ma da noi esisteva una forma di bacchettoneria marxista non meno pesante di quella cattolica, tutto ciò che recava in sé una dimensione edonistica e di liberazione radicale del desiderio sotto sotto veniva visto di cattivo occhio, si arrivava al massimo a un discorso limitato e puerile di liberazione, appunto, sessuale; l’unico lampo di quel discorso, in Italia, si è visto nel ’77.
Sebbene, sì, il movimento sia oggi per lo più residuale (nonostante da esso o parallelamente a esso siano nati nuovi rami, come quello della cultura goa o psytrance, che vive invece una buona salute), credo che l’effetto storico di lungo termine della cultura free tekno sia aver riportato al centro del discorso pubblico proprio la psichedelia. Se oggi vi è una fortissima rivalutazione in campo sia medico che accademico che di ricerca spirituale di sostanze come acido lisergico o psilocibina, indebitamente collocate dai media e dalla vulgata comune nella categoria delle “droghe” (e che invece, secondo recenti studi, hanno tra le proprie facoltà anche quella di poter essere usati per far uscire la gente dalle vere dipendenze), è anche perché sotterraneamente, dal basso, qualcuno ha continuato a portare la fiaccola.

D.C. – Eppure leggendo Muro di casse si ha l’impressione che l’autonomia e la libertà non siano più accessibili, se mai lo sono state, per via direttamente politica ma solo attraverso un disimpegno, un indietreggiare rispetto alla sfera pubblica che coincide simbolicamente con il ritrarsi in luoghi nascosti.

V.S. – Lettura corretta. La TAZ, la zona temporaneamente autonoma teorizzata da Bey a cui il movimento rave ha fatto così tante volte riferimento da trasformarla quasi in una sigla-cliché, può ben essere intesa come una sconfitta: nell’impossibilità non solo della rivoluzione, ma anche di creare zone autonome permanenti, ci si “accontenta” di una bolla di utopia dalla durata limitata. Tuttavia il suo senso va inteso in chiave dinamica: una TAZ singola non ha alcun effetto se non quello di offrire una “vacanza mentale” ai suoi partecipanti; una moltitudine di TAZ che spuntano continuamente e ovunque in un dato arco spaziotemporale costituiscono invece una messa in discussione efficace del sistema di controllo e paranoia in cui viviamo. Peraltro, nel caso del movimento free tekno, la stanzialità non ha mai pagato: quasi sempre quando qualcuno cercava di creare degli “hub”, rave permanenti, in essi si riformavano come masse tumorali i processi di commercio e, a volte, di sopraffazione tipici del “mondo esterno”. Ma sicuramente il fatto che per il solo voler far festa e ballare per giorni la gente debba organizzarsi e nascondersi al pari di un culto perseguitato, ci dice molto sulla vera natura delle società in cui viviamo. Anche per questo erano interessanti le street parade, intese come eventi di rivendicazione e “coming out” di questa sorta di “popolo neodionisiaco”, che però sono state o assorbite da logiche commerciali, come è avvenuto ad esempio a Zurigo, o represse e vietate fino all’estinzione, come è avvenuto invece a Bologna.

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