I media e l’ambiente

Un estratto dal volume di Francesco Parisi “La tecnologia che siamo” (Codice, 2019).

(Fonte: The media students blog)

L’animale sprovvisto si organizza in modo tale da amplificare la propria traiettoria evolutiva tramite esternalizzazioni fisiche che, inevitabilmente, alterano la sua esperienza estetica e l’esperienza fenomenica che la caratterizza. I corpi, però, sono sempre corpi che si muovono in un ambiente: a dirla tutta, non è fenomenologicamente nemmeno concepibile un corpo senza un ambiente che lo circonda. In mezzo a questi due poli costitutivi dell’esperienza, i media regolano l’interazione costante e ineluttabile tra l’organismo e il suo ambiente, sia modulando l’intensità di relazioni esistenti, sia creando le condizioni di possibilità per nuove interazioni. […]

Il termine ecomediale indica, in maniera puramente evocativa, la non separabilità tra le cose e il mondo, tra i media e l’ambiente. Non separabilità né fisica né funzionale […] così come non badiamo ai vestiti che indossiamo, agli occhiali tramite cui vediamo, allo stesso modo dimentichiamo che le strade su cui camminiamo, le superfici con cui entriamo in contatto, le case in cui abitiamo, sono in realtà dei media artificiali che si sono integrati con l’ambiente, fino a diventare essi stessi ambiente. Ma non solo questo: l’intreccio tra media e ambiente diviene ancora più intricato se si accoglie l’istanza teorica per cui i media digitali contemporanei si configurano, a loro volta, come dei veri e propri ambienti autonomi e paralleli, mondi possibili da esplorare. Saremmo allora contemporaneamente dentro ad ambienti mediali e a media ambientali (Montani, P., Cecchi, D., Feyles, M., 2018; Pinotti, Somaini, 2016, pp. 164-172), cioè non solo dentro ambienti che sono ipermediati, ma – molto più significativamente – dentro media che manifestano le caratteristiche degli ambienti naturali e pertanto possono darsi come sfondo impercettibile e dato per scontato dagli organismi che lo abitano (Durham Peters, 2015).

[…] È curioso rilevare l’attenzione reciproca che biologi e filosofi della scienza mostrano nei confronti degli oggetti tecnici, contrappesata da un movimento di ritorno da parte di mediologi che guardano con grande attenzione alle scienze biologiche e all’ecologia. […]

Un esempio tra i più efficaci lo possiamo trovare, ancora una volta, nell’opera di Gilbert Simondon. […] «Si potrà dire che l’invenzione concretizzante realizza un ambiente tecno-geografico […], che è una condizione di possibilità di funzionamento dell’oggetto tecnico. L’oggetto tecnico è dunque la condizione di se stesso come condizione di esistenza di questo ambiente misto, nello stesso tempo tecnico e geografico.» (Simondon, 1989, p. 55). […]

La metafora teorica che unifica media e ambiente si articola […] in quello che possiamo definire, più che un progetto teorico, un movimento eterogeneo e stratificato nello spazio e nel tempo. Sto parlando della cosiddetta ecologia dei media (Granata, 2015; Heise, 2002), l’impresa epistemologica multidisciplinare inaugurata formalmente da Neil Postman nel 1970 (Postman, 1970; 2000), ma che affonda le sue radici nelle teorie estetiche dei media dei primi decenni del secolo scorso, sviluppatesi soprattutto in Germania sull’onda della rivoluzione avanguardista. […]

È oltreoceano però che l’ecologia dei media si afferma come paradigma di ricerca. Lewis Mumford ne è considerato uno dei fondatori e più influenti ispiratori; la sua opera attraversa l’ascesa dei regimi totalitari e la guerra più mediata e moderna che il genere umano abbia mai visto fino a quel momento. Tecnica e cultura […] è ormai un classico nei media studies […] È nel capitolo dedicato all’«assimilazione della macchina» che le idee di Mumford offrono spunti notevoli per la tematica della relazione individuo-ambiente, soprattutto in riferimento alla produzione artistica: «la macchina infatti ha raggiunto tutta una serie di arti nuove a quelle prodotte da semplici attrezzi artigianali, allargando l’habitat dell’uomo civilizzato, estendendo la sfera degli organi del suo corpo e svelando nuovi panorami estetici e mondi nuovi» (Mumford 2005, 334). I media trasformano l’esperienza stessa dell’ambiente, formano un ambiente insieme naturale e simbolico in cui è impossibile scorgere differenze, potenziano la capacità sensoriale umana consentendoci di accedere non solo a mondi simbolici, ma letteralmente a universi percettivi altrimenti biologicamente inaccessibili.

[…] Proprio in quegli anni (ancora il 1934) viene pubblicato un testo decisivo per le sorti di queste contaminazioni disciplinari, che contribuirà alla definizione del significato comunemente accettato del termine ambiente e allo studio dell’ecologia. Mi riferisco al volume di Jakob von Uexküll (2010) in cui il biologo tedesco rivoluziona il concetto di ambiente, relativizzandolo ai sistemi percettivi dei diversi organismo che lo abitano. Ogni animale accede a un proprio ambiente specifico, definito dalle possibilità percettive e operative rese rispettivamente disponibili dai suoi organi recettori ed effettori. Più precisamente, l’animale trasforma l’immagine percettiva in una immagine operativa nella misura in cui riesce a conferire all’ambiente che lo circonda una «tonalità operativa» (von Uexküll, 2013, p. 109), ovvero riesce a cogliere l’opportunità motoria ed ecologica che un determinato oggetto o spazio presentano. Secondo von Uexküll, è nel riconoscimento della continuità tra percezione e azione, tra mondo percettivo e mondo operativo, che si può scovare il modo in cui l’animale si «adegua» (von Uexküll, 2013, p. 52) all’ambiente. Nell’uso del termine “adeguamento”, piuttosto che il più ortodosso “adattamento”, si manifesta la critica di von Uexküll alla dottrina darwiniana che, a parer suo, non tiene sufficientemente conto della complessa dinamica che si instaura tra l’organismo e il suo ambiente. Significativa qui la corrispondenza con Simondon, per due motivi: anche il filosofo francese ritiene che «non sussiste un ambiente se non per un essere vivente in grado di integrare in unità di azione i mondi percettivi» (Simondon, 2011, p. 287); […]

Questa consapevolezza della relazione tra organismo e ambiente caratterizza, notoriamente, l’opera di Gregory Bateson, autore poliedrico e refrattario a classificazioni. In un saggio, si evince quanto egli cerchi di articolare la relazione tra selezione genetica e pressione ambientale provando a riconoscere all’organismo un ruolo attivo, pur restando rigorosamente dentro il paradigma neo-darwiniano. Infatti, a partire da un esplicito rifiuto della teoria lamarckiana – per cui «non c’è alcun motivo per credere che il cambiamento somatico o i cambiamenti ambientali possano […] imporre […] gli opportuni cambiamenti genotipici.» (Bateson, 1976, p. 393) – Bateson introduce il concetto di flessibilità somatica, cioè la capacità dell’organismo di rispondere alle stimolazioni ambientali simulando un’ereditarietà lamarckiana. […]

Il punto toccato da Bateson è centrale per introdurre un concetto ricorrente di questo libro, ovvero che tra organismo e ambiente non vi sia una rigida contrapposizione, quanto piuttosto che entrambi si determinino a partire dalla relazione che stabiliscono dagli effetti retroattivi che ne derivano. Jussi Parikka ha esplorato a fondo le implicazioni di questa constatazione riservando grande attenzione agli studi di von Uexküll. Il mediologo, riferendosi al lavoro del biologo estone, scrive: «Ciò che Uexküll implicava era che noi non abbiamo a che fare con oggetti della natura predeterminati ma con relazioni soggetto-oggetto che sono definite dalla potenzialità aperte dal loro incontro» (Parikka, 2010, p. 66) […]

Cosa ci dicono, oggi, le scienze biologiche sulla relazione tra uomo e ambiente? […] la biologia evolutiva dello sviluppo, o evo-devo, ambisce ad effettuare una sintesi tra le dinamiche prettamente evolutive, che riguardano i geni, e le dinamiche dello sviluppo, che riguardano il fenotipo e il contesto in cui, appunto, si sviluppa. […] L’atteggiamento speculativo che mette i geni al centro di tutto (Dawkins, 1979) non è disposto ad ammettere che qualcos’altro, oltre ai geni, possa dare origine a novità evolutive, ma per l’evo-devo un programma di ricerca così concepito «non porta lontano, perché ha scelto le unità sbagliate per descrivere e interpretare il fenomeno.» (Minelli, 2007, p. 200). L’evo-devo, considerando lo sviluppo dell’organismo non come un mero esito del programma genetico, amplia le variabili in gioco: al contrario del programma genetico, che è già presente dall’inizio, lo sviluppo deve fare i conti con le circostanze in cui si attua. Inevitabilmente, l’evo-devo concepisce l’ambiente non come mero luogo in cui sono garantite al gene le condizioni per esprimersi, ma come controparte costitutiva di un processo che investe l’organismo e il suo complesso divenire.

Ora, alla luce di ciò, è possibile ipotizzare che l’ambiente, o meglio lo scenario ecomediale che abbiamo visto, possa giocare un ruolo causale diretto nella modificazione delle pressioni evolutive per un organismo? Secondo la teoria della costruzione di nicchia, si. Gli autori di questa teoria (Odling-Smee, Laland, Feldman, 2003) avanzano l’ipotesi per cui la capacità degli esseri viventi di costruire nicchie ecologiche – ovvero ambienti ottimizzati per la vita dell’organismo che li abita – possa agire come variabile causale per l’evoluzione. Per nicchia ecologica di una popolazione si intende «la somma di tutte le pressioni della selezione naturale a cui la popolazione è esposta» (Odling-Smee et al., 2003, p. 40). Per costruzione della nicchia, invece, si intende il processo tramite cui un organismo modifica i fattori ambientali – o meglio, la relazione tra tali fattori e le sue caratteristiche – tramite un intervento fisico sull’ambiente. […]

Esiste pertanto una sorta di complementarità tra evo-devo e costruzione della nicchia, nella misura in cui «la costruzione della nicchia enfatizza l’abilità dell’organismo di alterare il suo ambiente; l’evo-devo enfatizza la capacità dell’ambiente di alterare lo sviluppo dell’organismo» (Laland, Odling-Smee, Gilbert, 2008, p. 550). Tale reciprocità, tuttavia, non è accettata come uno standard, anzi, si pone in contrapposizione alla concezione “classica” che, come abbiamo visto introducendo l’evo-devo, attribuisce ai geni l’unico ruolo causale da tenere realmente in considerazione nelle dinamiche evolutive. L’idea pericolosa in ballo, insomma, è che viga un principio di causalità reciproca che va dall’organismo all’ambiente e viceversa. […]

Se davvero l’ambiente produce questi effetti – e se lo fa non solo per il sapiens ma per tutti gli organismi viventi –, allora dobbiamo cominciare a prendere sul serio l’ipotesi che tra gli organismi e i loro ambienti si instaurino forze e reciprocità che minacciano la distinzione tra soggetto e oggetto, tra organismo e ambiente. L’antropocene sarebbe in tal senso solo l’ultima manifestazione di un fenomeno più generale che mette in luce il rapporto costantemente ibridante tra organismi e ambiente. È il rizoma descritto da Deleuze e Guattari: senza gerarchie, composto da linee, che sta sempre nel mezzo, ovvero nell’intersezione di strati diversi che si avvicendano nella configurazione del piano di consistenza. Il rizoma non è un individuo precostituito, né uno spazio definito, non risponde a un progetto biologico codificato e si definisce perpetuamente in relazione:I «In questo senso, l’embriogenesi e la filogenesi rovesciano i loro rapporti: non è più l’embrione che testimonia di una forma assoluta prestabilita in un ambiente chiuso, è la filogenesi delle popolazioni che dispone di una libertà di forme relative, non essendo nessuna di esse prestabilita in un ambiente aperto.» (Deleuze, Guattari, 2017, p. 94)

Sebbene questa condizione appaia come condivisa tra le diverse specie, la mia attenzione si concentrerà esclusivamente sul caso di Homo sapiens, per lo scarto che la nostra specie […] ha generato nella relazione non solo con l’ambiente, ma con i media contenuti in esso. […]

Un dettaglio della copertina di La tecnologia che siamo
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