I corpi e le voci degli insegnanti nella didattica a distanza.
Anche io apprezzo la letteratura.
Ma non ti pare che avresti dovuto studiare un pochino anche dal vero?
Avresti imparato che non tutti i gatti sono fatti di carta
(Gianni Rodari, Il topo che mangiava i gatti)
Sono nel Consiglio di istituto della scuola di mio figlio, ieri durante la riunione telematica è arrivato un pugno allo stomaco, una pillola di saggezza. Si stava discutendo della didattica a distanza (DAD) quale strumento di continuità educativa. La questione è ampiamente dibattuta (tra le prime voci critiche, Chiara Saraceno), ci sono linee guida internazionali, pedagogisti, associazioni e fondazioni che mettono a disposizione competenze e fondi. Ma a cosa vogliamo dare continuità? Durante la videoconferenza del Consiglio – tutti collegati da casa, negli studi, dal tavolo della cucina – una mamma prende la parola, e squarcia il velo: come sono rappresentati i nostri figli nel dibattito pubblico? Cosa si sta, di conseguenza, legittimando sulla loro pelle? Sono untori, da tenere ben chiusi anche in case piccole, malsane, o dense di violenza, ignorandone gli innegabili bisogni dello sviluppo psicomotorio. Passiamo dal tecnico al filosofico, ci esorta la mamma: i nostri figli stanno facendo l’esperienza del vuoto. Come i disoccupati. La perdita dei punti di riferimento che strutturano la nostra vita quotidiana. Quante volte abbiamo detto che la scuola per i nostri piccoli è come un lavoro? Otto ore al giorno scandite da orari regolari, a cui dedicarsi, riuscire, a cui e grazie a cui trovare un senso.
Queste considerazioni aprivano a una richiesta specifica: lasciare che gli insegnanti trovassero il modo migliore per fare davvero didattica. Nella DAD le intelligenze degli insegnanti sono state impiegate nel proporre contenuti relativi al programma scolastico, o all’intrattenimento dei bambini a casa: vanno in questa direzione le lezioni on-line e le attività rese disponibili ai genitori sui siti delle scuole. Ma non dimentichiamo il contenuto basilare, fondamentale – nel senso più etimologico possibile – della didattica, dell’attività educativa intesa in senso ampio e profondo: la crescita emotiva, la costruzione di una relazione di fiducia insegnante-allievo, il consolidamento del gruppo classe. Questioni di spessore, che si rifanno al senso profondo dell’essere e del fare l’insegnante, nonché al riconoscimento, la valorizzazione e la messa in campo della loro professionalità. Oppure frivolezze che passano in secondo piano nell’emergenza in atto? È probabile che oggi molti la pensino così: guardiamo a come veniva valorizzata la professionalità degli insegnanti a livello istituzionale prima del Covid-19. L’incertezza su tempi e modalità dei concorsi, il precariato spinto e il conseguente turn-over che non permette continuità, non facevano pensare a risorse umane preziose, da trattare con dignità e rispetto. Se poi ricordiamo le chiamate tramite graduatorie di diplomati e laureati senza specializzazione specifica a coprire ore di insegnamento o addirittura il sostegno a disabili, abbiamo ancor più idea di cosa i governanti pensino del grado di difficoltà con cui si acquisisce una professionalità nel campo dell’insegnamento. Quindi, in epoca Covid-19, cosa vogliamo di più che tante pillole di attività, compiti, correzioni via e-mail e magari anche qualche votazione in modo che si possa attestare con i numeri (rendicontare) che l’attività educativa è stata svolta in tutte le sue declinazioni tradizionali? D’altra parte, non ci sono entusiasti della didattica a distanza anche nell’università, che parlano di una nuova via per l’insegnamento aperta per gli anni a venire? E basta, con queste frivolezze da fricchettoni disfattisti.
Ritorniamo all’esperienza del vuoto dei nostri alunni privati della scuola in presenza. Chi ha figli in casa ha esperienza diretta che non è colmata da video caricati on-line. In quarantena ho visto con preoccupazione un figlio prima entusiasta della scuola calciare ovunque quando era l’ora dei compiti, senza voglia, immune agli stimoli, per poi scoprire che la sua condizione è trasversale. A ogni età. Ma si rianimano, eccome se si rianimano, quando si collegano on-line, se in collegamento c’è chi li aiuta a ritrovare quel senso nella scuola: un insegnante, perno intorno a cui costruire una sana relazione tra pari, guida che accompagna nel definire il proprio ruolo lungo le interazioni, tessendo relazioni, in quella che è una prova di come ci si muoverà in società da adulti.
Perché un insegnante sa che la maieutica inorridisce di fronte al nozionismo. Sa che è diritto di bambini e bambine, ragazzi e ragazze non essere riempiti, ma aiutati a liberarsi, definirsi, trovare i contorni del proprio ruolo nello spazio sociale che li circonda. È una questione di corpi, come ci ricordano bene Renata Pepicelli e Alberto Melloni, di corpi in relazione.

Come mettere in gioco le relazioni nella didattica on-line? Permettetemi di portare un esempio. Le educatrici tessitrici più tessitrici di relazioni che conosco insegnano in un nido d’infanzia che si chiama Cavour. Che mirabolanti strumenti si sono inventate in quarantena? La loro voce, il loro corpo. Mediati dalla tecnologia. Un gruppo Whatsapp con i genitori, a cui hanno chiesto di partecipare anche le due operatrici che supportavano nel funzionamento del nido.
Mattina. Arrivano brevi audio di buongiorno, che richiamano proustianamente la pace della Maria Giovanna Elmi della tua infanzia: «Buongiorno bambini [pausa] e buongiorno grandi! [pausa] Ben svegliati! [pausa] Buona lettura! [pausa] Buoni giochi! [pausa]». Segue una video-lettura di testi splendidamente illustrati, scelti con cura, letti con un’intonazione che molti genitori si sentirebbero poco a loro agio a imitare: io ne sono rapita, non parliamo della mia piccola treenne.
Pranzo. Alle 11.30 arriva un video in cui, a rotazione, un’educatrice o un’operatrice canta una canzone che proponeva in attesa del pranzo. Provate a mettervi davanti al vostro cellulare a imitare una strega che mescola quattro pipistrelli per fare un filtro magico potente per spaventare i draghi, con intonazione e ampia gestura, pensando di inviarlo on-line a 20 famiglie. Se mi ci metto dal vivo, i miei figli mi guardano tra il compassionevole e l’ironico. Di fronte al video, invece, mia figlia, grande anarchica, viene a tavola con massimo entusiasmo (per farla mangiare, poi, ci mettiamo del nostro).
Sera. Alle 20 arriva un audio con la ninnananna scelta tra quelle proposte al nido per la nanna pomeridiana, cantata pacatamente, con sentimento. Quando è arrivata Buonanotte fiorellino ci siamo commossi in tanti, mamme e papà all’ascolto. Ci siamo sentiti cullati, in questa situazione di spaesamento.
Inoltre, ogni educatrice cura il contatto diretto con bambini e bambine, per cui è una figura prevalente, tramite uno scambio reciproco in diretta o in differita con audio/video. All’inizio non capivo perché le educatrici e operatrici parlassero in modo strano. Con una lentezza che vedi lo spazio tra le sillabe. Rispolverando i ricordi di libri sul linguaggio dai neonati in avanti, mi sono ricordata. Noi che parliamo con i congiuntivi ai figli così imparano, ci siamo persi i loro tempi di comprensione: ai piccoli si parla lentamente, scandendo le parole, con tono rassicurante. Piccole cose, insignificanti? C’è chi direbbe di no. Erving Goffmann ci direbbe di no: voci e gesti sono una componente fondamentale nel dare senso alla nostra azione sociale intenzionata, e sono variamente modulati anche in modo più che consapevole. I corpi e le voci delle educatrici sono sapientemente utilizzati per scopi educativi precisi, tra loro interrelati, da loro esplicitati e teoricamente orientati dalla pedagogia montessoriana. Intendono mantenere vivo il ricordo del nido scandendo i tempi della giornata: è un aiuto davvero efficace alle famiglie e un messaggio educativo importante a bimbi e bimbe in piena socializzazione primaria, quello che le persone con cui si sono condivise cose belle non scompaiono, se possono. Inoltre, limitarsi a proporre attività ai genitori avrebbe innescato dinamiche stressanti e prestazionali: spulciare in una libreria on-line di attività per l’infanzia per scegliere cosa far fare fa emergere insani propositi di ripassare Winnicott e trascina nel buco nero dei sensi di colpa omnidirezionali dei genitori in smart working. Detto in altre parole: se genitori si diventa, educatori e insegnanti non ci si improvvisa, non basta avere i device – il tablet e i video.
L’esempio del nido è felice perché vede tutti gli attori sociali in gioco essere allineati, direbbe Michel Callon, in un assemblaggio di persone e oggetti in cui fini anche differenti trovano tutti soddisfazione. Reinventando la didattica in modo da mantenerne la sostanza, le educatrici hanno rimodulato in piena libertà le ore quotidiane di lavoro distribuendole in modo alternativo lungo la giornata (elemento importante, essendo un appuntamento previsto alle 20), le loro attività sono pienamente rendicontabili tanto quanto i video caricati sui siti – fatto imprescindibile come sa chi conosce il funzionamento della scuola di oggi, le famiglie sono raggiunte e sostenute nel rispetto di tempi e modi di bambini e bambine. Non è l’unica soluzione possibile, ma funziona.
L’importante è sottolineare che le educatrici in questione si riconoscono fortemente come una coesa comunità di pratiche ad alto livello di professionalità, sono entrate nella scuola come parte di un progetto, quello della costituzione dei nidi comunali, che aveva previsto una intensa formazione degli insegnanti, tutti strutturati: prese sul serio, insomma, nella loro dignità e professionalità.
Il rischio, invece, è che la DAD sia messa in pratica in un sistema in cui sono gli esperti a dettare modalità e linee guida, attivando assemblaggi in cui educatori e docenti hanno poco impatto e non si riconoscono, e non vengono riconosciuti, nella loro professionalità sul campo. Esperti che, come ci ricorda Rodari, non hanno studiato un pochino anche dal vero, o se ne sono dimenticati. Nulla di nuovo: la frattura che separa chi opera sul campo da chi organizza il lavoro per obiettivi è oggi spesso profonda – come ci ricorda Davide Caselli in una sua recentissima opera[1] – e nel caso specifico a farne le spese sono i bambini e ragazzi in formazione.
La tecnologia è preziosa non solo per trasmettere contenuti ma anche per permettere agli insegnanti di fare davvero didattica. Demonizzare lo strumento è poco intelligente tanto quanto esaltarlo acriticamente: è proprio grazie alla didattica a distanza che gli insegnanti possono continuare a tessere relazioni con modalità nuove. Essendo un vero sostegno e non uno stress ulteriore per le famiglie. Per fare da ponte fino a che le relazioni non riprenderanno con i corpi, le voci, i movimenti, gli sguardi in presenza. E allora, saremo diventati tutti più bravi per continuare a usarla, ma come potenziamento della didattica tradizionale e non in sua sostituzione. Non sono differenze da poco.

[1] D. Caselli, Esperti, come studiarli e perché, il Mulino, Bologna 2020.