Il grido, la danza

Maurizio Zanardi ha recensito “Aporie d’Artaud. Crudeltà, anima, danza” di Vincenzo Cuomo (Kaiak).

… una tensione tale da far esplodere la danza come una fucilata o un grido (Jean Genet)
 

Che cosa è in gioco nella danza? Perché i suoi gesti ci riguardano in modo eminente? Per Antonin Artaud – è bene ricordarlo in tempi nei quali la danza è promossa con inedita intensità – si tratta di una questione di vita o di morte o anche, come vedremo, di rapporto con l’infinito. In Per farla finita con il giudizio di dio, Artaud scrive: «Si è fatto mangiare il corpo umano, / lo si è fatto bere, / per evitare di farlo danzare […] La peste, il colera, / il vaiolo nero, / esistono solo perché la danza / e di conseguenza il teatro / non hanno ancora cominciato ad esistere».

 Non solo si è fatto mangiare e bere il corpo, ma il corpo umano in quanto tale è stato fatto perché l’incorporare e l’espellere, anche il copulare (la “fornicazione universale”), evitassero l’avvento della danza. Ma evitare la danza e, “di conseguenza”, il teatro significa propagare peste, vaiolo e colera. Da questo punto di vista, il corpo bio-logico per Artaud non è nulla di originario; è il risultato dell’opera di un dio malvagio (è il tratto gnostico del pensiero di Artaud) che si è dato un corpo rubandolo all’uomo. Il furto consiste in un’invasione, un’occupazione. L’essere stesso di “dio” è l’effetto di un tale furto: dio non preesiste al corpo dell’uomo, non vi discende, non vi si incarna, ma è solo grazie al fatto di insediarsi nel corpo umano. E se “dio” è il nome della “società”, del “governo”, della “polizia”, dell’“amministrazione”, si deve concludere che il corpo bio-logico è costitutivamente bio-teo-politico. Ma perché mai dio si è insediato nel corpo umano? Per evitare la danza, afferma Artaud nei suoi ultimi scritti. Per mortificare il corpo, consegnarlo a un’infinita riproduzione, un’infinita manchevolezza, un infinito giudizio, come ci ha mostrato Deleuze, una colpa, un debito senza fine, che gli impedisca di danzare, incentivando piuttosto – come Artaud sa dalla prima guerra mondiale e vede negli anni Trenta – quell’anti-danza che è la marcia.

Che cosa ha di così pericoloso il danzare, perché un dio prenda corpo nell’uomo per evitare che danzi? Prima di tentare di rispondere a questa domanda, va tenuto fermo che per Artaud solo la danza, e di conseguenza il teatro, può liberare il corpo dai morbi che lo infestano. Eppure, negli anni Trenta Artaud ha affermato: «Il teatro essenziale è come la peste (…) Come la peste, è il momento del male, il trionfo delle forze oscure, che una forza ancor più profonda alimenta sino all’estinzione». Come interpretare il passaggio dal teatro-peste alla danza-teatro che guarisce dai morbi? C’è stata una svolta nel pensiero di Artaud?

Il libro di Vincenzo Cuomo Aporie d’Artaud. Crudeltà, anima, danza (Kajak Edizioni, 2018) non solo pone e affronta queste questioni con decisione e radicalità, ma avanza anche un’importante interpretazione del ruolo della danza nel «sofferto percorso di vita e di sperimentazione teatrale» di Artaud. Il volume raccoglie tre saggi già pubblicati e uno inedito che riprende e rilancia in una nuova direzione le riflessioni sull’opera di Artaud elaborate da Cuomo nel corso di vent’anni.

Con l’aiuto delle acute riflessioni di Cuomo tenterò di mettere a fuoco la singolare potenza che Artaud attribuisce alla danza. Quella potenza che è in ballo nel danzare e che viene gravemente indebolita, se non cancellata, dai discorsi e dalle pratiche che fanno della danza ora un’ancella della spettacolarità, ora una terapia restauratrice di armonia e benessere, ora una dolce animatrice dei cosiddetti beni culturali. Le questioni sollevate da Aporie d’Artaud contribuiscono a rendere impraticabili tutti questi usi del danzare.

 Cuomo sostiene giustamente che per Artaud ciò che gli è stato sottratto sin dalla nascita, facendolo nato morto, è il non-essere: «questa espropriazione accade all’inizio, all’atto della nascita, all’atto di quella frattura d’essere, di quella separazione che mi fa essere in quanto “parte” (al “parto”). […] Il furto iniziale non è sottrazione di qualcosa, non è sottrazione d’essere, ma, paradossalmente, sottrazione di non-essere; consiste nella sottrazione di quella “separazione” iniziale attraverso la sua occupazione». Al corpo viene rubata la sua contingenza, il suo poter non essere, la sua assenza di senso. Dio invade il corpo umano per saturarlo di senso, si affaccenda a separarlo dalla “frattura dell’essere”, a separarlo dalla separazione. Se teniamo a mente di che cosa è nome “dio”, emerge con chiarezza la minaccia che deve essere evitata: l’esercizio della potenza del non, della forza di separazione che all’animale umano è stata concessa proprio dalla contingenza della sua venuta al mondo. Se la nascita, come scrive Cuomo, è una “frattura nell’essere” subita da ogni animale, per cui vivere significa sopra-vivere a quel morire che è la nascita, ebbene l’animale umano patisce un’ulteriore frattura, ferita: il salto nel linguaggio, la violenza del sistema simbolico. Questa morte ulteriore è resa possibile proprio dal “niente” da cui l’uomo proviene, dal vuoto che ha reso possibile la sua nascita e che continua ad abitarlo come potenza del non. Dio è l’infinita invasione di questo vuoto. Ma, nello stesso tempo, è proprio questo vuoto che può consentire, come si esprime Artaud, di fare guerra alla guerra di dio. Sia chiaro, Artaud non ha nulla contro il morire. Ciò contro cui lotta è il morire che grazie all’occupazione del vuoto è diventato morte in vita, vivere morti, vale a dire incapacità di morire in vita, di separarsi dal vivere morti.

Riappropriarsi del corpo allora non significa affatto, come suggeriscono tante retoriche della corporeità, liberarne gli istinti, la spontaneità, l’interiorità. Spontaneità ed interiorità, così commenterei le riflessioni di Cuomo, sono infestate dal dio che contrasta la danza. “Infimo dentro”, le definisce Artaud. Non si tratta, dunque, di scatenare il corpo, ma di rifarlo, ossia di riappropriarsi della potenza di separazione, e del dolore della nascita che la testimonia, a favore dell’“infinito fuori”, che non è là fuori, ma si dà nell’atto di separazione dall’“infimo dentro”. L’infinito fuori non ha bisogno di grandi spazi, può darsi sul posto, grazie all’attualizzarsi della potenza del non, e fare così spazio anche là dove si presenta la più intensa pressione dei corpi.

Qual è, in questo quadro, il ruolo del teatro? Cuomo ci ricorda che il teatro della crudeltà ha come centro il rapporto con la violenza, uno dei cui nomi è “peste”: le riflessioni di Artaud sul teatro sono la risposta ad «un’epoca segnata dalla comunicazione violenta, dal sensazionalismo dei media che amplifica la violenza psichica e sociale che di lì a poco avrebbe portato il nazismo al potere in Germania e poi al secondo conflitto mondiale». In che cosa consiste allora la “peste teatrale”?

La peste teatrale è un esercizio di lucidità e controllo, in modo che il rapporto con la forza terrorizzante del male sia nello stesso tempo un modo di tenere a distanza il male con cui pure si entra in relazione. Solo in questo modo si può davvero “colpire” lo spettatore, disintegrarne le abitudini percettive, affinarne il “sistema nervoso centrale”, senza per questo travolgerlo e così impedirgli di continuare a vibrare. Artaud, per Cuomo, oppone alla violenza nazista un teatro che si contamina con il male per depotenziarlo nel momento stesso in cui, e proprio perché, lo fa transitare “ritualmente” sulla scena.

Ora, se non faccio troppa violenza al suo discorso, Cuomo ritiene che in Artaud si faccia avanti l’esigenza di interrompere l’unità di violenza e rito, di forza del male e forma, per cui il teatro della crudeltà non sarebbe riducibile al teatro della peste. L’esigenza di interruzione si esprimerebbe come necessità di tornare al “grido” a quel grido “inumano”, emesso da Artaud nel 1933 durante il monologo “Il teatro e la peste”, di cui Bataille scrisse: «si prese il ventre con due mani ed emise il grido più inumano che sia mai uscito dalla gola di un uomo: ciò causava un malessere simile a quello che avremmo provato se uno dei nostri amici avesse bruscamente ceduto al delirio». Per Cuomo – si tratta di pagine di notevole intensità teorica – il grido in Artaud è una ripresa del grido-traccia dell’evento traumatico della nascita, il grido che nulla chiede, nulla comunica, a nessuno è rivolto. Il grido della nascita non ha né passato né futuro, accade in sincronia con l’evento traumatico di cui è indice ed è destinato a svanire con lo scomparire dell’evento. È di questo grido, di questo dolore che precede ogni grido e dolore possibile, che siamo derubati alla nascita. E poiché è questo grido a produrre per Cuomo ciò che la tradizione chiama “anima”, si può ben dire che il furto che subiamo è il furto dell’anima, cioè il sentire (grazie al grido) la nascita come separazione, insensata catastrofe. Ora, è proprio l’anima, in quanto rispecchiamento di un tale sentire, a concedere la potenza della “rivolta” contro il dio che insiste nel saturare di “essere” il corpo, di “senso” il niente, il vuoto, avvertito nel grido.

Ma come esercitare la potenza del non? Contrapponendo l’anima al corpo, come vuole la gnosi, o – come scrive, nel suo gnosticismo eretico, l’Artaud citato da Cuomo – facendo uscire l’anima nel, e non dal, corpo? L’anima, uscendo nel corpo, non può però identificarsi con questo, perché in tal caso perderebbe se stessa, vale a dire la potenza della separazione. Cuomo individua nella “danza alla rovescia”, di cui Artaud scrive in Per farla finita con il giudizio di dio, il modo in cui l’anima esce nel corpo senza perdere la sua potenza di separazione. Si tratta di una danza “sgraziata”, crudele, che libera il corpo dagli automatismi biologici e simbolici – che interrompe, forse, anche la ritualità così essenziale al teatro della peste – testimoniando il niente, cui il corpo appartiene e da cui è abitato. Danza, scrittura, intorno al vuoto la definisce Cuomo: danza che trasforma il corpo organico in “una macchina celibe che gira a vuoto”.

“Danza alla rovescia” è, forse, il nome che Artaud ha trovato nei suoi ultimi scritti per ciò che considerava la “testa” del teatro: “il lacerante conflitto delle anime in cui il gesto è soltanto un percorso”. Come mi è capitato di scrivere altrove, si potrebbe dire che “danza” è il nome di quel gesto che Artaud definiva anche così: “il gesto che lega e scioglie veramente, senza forma e somiglianza”.

Come favorire l’avvento del gesto “senza forma e somiglianza”, se di questo gesto puro non disponiamo di alcun sapere, di nessuna esperienza? Anche di questo, forse, converrebbe discutere con Vincenzo Cuomo. E con quanti sono impegnati nel danzare. Ne va dell’etica della danza.

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