Una riflessione del filosofo Roberto Marchesini sull’attività venatoria.
Molto spesso quando si vuole giustificare la pratica della caccia si fa riferimento allo stato di natura, nel qual caso l’esempio del leopardo e della gazzella divengono paradigmatici, per affermare che chi si oppone all’attività venatoria, adducendo ragioni animaliste, in realtà sia molto più specista del cacciatore che, viceversa, segue in modo coerente le leggi della natura. Si tratta di un leitmotiv ovvero di una sorta di ritornello che apparentemente possiede una sua solidità giustificativa e che in un certo senso, proprio perché intuitivo, diviene il primo pensiero che sorge spontaneo alla mente quando ci s’interroga sulla questione, ma soprattutto allorché si cerchi una giustificazione plausibile al proprio diritto di praticare la caccia. La seconda strategia giustificativa sta nell’appello alla consuetudine, spacciata anche come nobile mantenimento delle tradizioni, più semplicemente esplicitata nel “si è sempre fatto” oppure nel più articolato discorso che accredita la pratica venatoria come mitopoiesi dell’umano che vince contro le forze ostili della natura e allarga le proprie possibilità di sopravvivenza conquistando nuovi territori. In questo caso la caccia diviene metafora del superamento della frontiera, altro mito difficile da eradicare, che può essere declinato in due versioni: a) la frontiera come vincolo all’espansione, come insopportabile limite che preclude lo spazio vitale, e in questo caso la pratica venatoria diviene il modo per poter colonizzare aree geografiche altrimenti precluse; b) la frontiera come vincolo all’espansione cognitiva, limite fisiologico dato da un pregiudizio di carenzialità nella dieta del raccoglitore, e in questo caso la pratica venatoria diviene il modo per acquisire le cosiddette proteine nobili. Cerchiamo allora di trovare il bandolo di questa matassa che tende a ingarbugliarsi ogni volta che la si prende in mano, rendendo difficile quel discorso lineare che solo può effettivamente far uscire le contraddizioni e rendere scoperto il dibattere. Partiamo dal primo punto.
In effetti molti animali vivono di predazione, per cui l’atto predatorio in sé è ampiamente contemplato in natura. Ma dire che qualcosa è contemplato in natura e affermare che ciò possa costituire una legge universale a cui attenersi – anche evitando di chiamare in causa il vizio di fallacia naturalistica – è scientificamente sbagliato. Corretto sarebbe dire non che gli animali seguono una “non ben specificata” legge di natura – impersonificazione di una natura che in realtà prevede ogni stile purché sia compatibile con la fitness specie specifica – pretendendo di fare emergere un universale, bensì che ogni animale segue “la propria natura”. Ragion per cui, per un leopardo, cacciare è in linea con la propria natura di specie, mentre se lo facesse la gazzella non potremmo dire altrettanto. Se analizziamo il leopardo e la gazzella ci rendiamo immediatamente conto che l’uno è stato “architetto selettivo” per l’altra e viceversa, ossia che entrambi agiscono in modo reciproco come selettori.
Da questo si rende evidente che solo un vizio di prospettiva ci fa vedere la gazzella come vittima nel grande balletto coevolutivo tra le due specie. Il nostro cioè è lo sguardo di una preda che vede la violenza nell’atto venatorio e non nel decreto di morte che la preda consegna a ogni leopardo che non riesce a mangiare. Già questo la dice lunga sulla nostra vera natura, quella cioè di preda e non di predatore. Se fossimo predatori saremmo più portati a leggere la violenza nelle gazzelle e non nei leopardi. Lo so che è difficile, perché da una parte c’è qualcuno che ansima e vive nel terrore, c’è il sangue sparso della vittima e il muso del predatore che fruga nelle interiora di un corpo che ancora si agita nelle zampe. Eppure questo sentire è frutto delle nostre paure, perché in ogni processo empatico c’è sempre un aggancio immedesimativo, e nella morte per stenti del leopardo non ci s’immedesima o lo si fa a fatica. Un qualunque naturalista sa che è proprio il predatore a consentire lo sviluppo delle prede e che se azzeri la presenza di un predatore l’intero sistema ecologico collassa, come dimostra il fatto che l’avvento dei lupi in aree geografiche dove era stato sterminato ha reso quegli ecosistemi più ricchi di vita e non più poveri. Orbene, che rapporto ci può essere tra un animale raccoglitore come l’essere umano e le prede?
Nessuno. Lo dimostra un dato paleontologico incontrovertibile: appena l’essere umano culturalmente si approvvigiona di armi per uccidere provoca quel disastro ecologico che va sotto il nome di estinzione della megafauna pleistocenica. Se proprio dobbiamo attenerci alla nostra natura… beh, il posto ecologico dell’essere umano, quale specie con una certa eredità filogenetica, non è tra i predatori e tanto meno tra i superpredatori, bensì tra le prede onnivore occasionali. Ma c’è un ulteriore problema: anche l’eredità filogenetica non è una legge della natura, giacché tutto ciò che esiste in natura è giocoforza concesso dalla natura stessa. Questo significa che se una gazzella si mettesse di colpo a correre dietro a un topo per mangiarselo o se un leopardo decidesse di andare a funghi, allora dovremmo necessariamente concludere che la sua natura glielo consente. Insomma con buona pace degli omofobi “nulla è contro natura” se esiste! Cosa impariamo da queste due affermazioni apparentemente in contraddizione? Una cosa molto semplice: che nessun appello alla natura può essere invocato come principio, giacché ogni evento che si verifica in natura falsifica la legge che si voleva affermare. Scopriamo così che il fagiano non è la gazzella per noi che tanto meno possiamo atteggiarci a leopardo. E soprattutto che se qualcuno decide di mettere in discussione il proprio habitus filogenetico lo può fare, ma non può cercare giustificazioni in principi universali, bensì nell’arbitrio che regola non solo la libera coscienza ma altresì il corso degli eventi complessi. A questo punto però emerge l’arma, che sia una freccia o un fucile per ora (solo per ora) poco importa, un’arma che qualcuno paradossalmente paragona ai denti del leopardo. Sembra un paragone sensato, ma chi lo fa dimostra di ignorare completamente sia il significato della techne sia i processi coevolutivi.
Il compianto Enzo Tiezzi aveva sottolineato come esista una discronia tra i tempi storici della tecnopoiesi e i tempi biologici della coevoluzione; tra l’altro anche Konrad Lorenz si era soffermato ad analizzare la distonia tra l’emergenza di strumenti di morte e la capacità di sviluppare competenze di gestione delle stesse. Insomma l’arma crea una distopia rispetto ai rituali di utilizzo, ovvero al pieno embodiment della stessa, a differenza di una zanna o di un artiglio che crescono in perfetta coerenza con tutte le altre parti non solo del corpo ma dell’etogramma. Ciò significa che per quanto interiorizzata l’arma sarà sempre un’esternalizzazione funzionale che invoca un’esternalizzazione gestionale. In altre parole non posso possedere un’arma e poi fare appello al mio istinto perché la mia eredità etografica non possiede strutture innate di gestione di un fucile. Arriviamo pertanto alla conclusione, a cui peraltro era già giunto Hans Jonas, che qualunque tecnologia ossia ogni esternalizzazione operativa richieda un fronte di avanzamento etico ossia una nuova responsabilità. Un essere umano dotato di un’arma non può pertanto appellarsi a uno stato di natura primigenia o filogenetica perché, di fatto, ha già violato questo stato e deve necessariamente far ricorso a un diverso livello di responsabilità. Ma c’è di più! Mentre l’artiglio del leopardo ha dialogato con il corpo della gazzella, per cui ci troviamo di fronte a un confronto alla pari, non così si può dire tra il fucile e il fagiano. Questo significa che, caro cacciatore, se proprio vuoi pensarti come predatore primigenio, spogliati e inizia a correre dietro a lepri e fagiani! Dopo un po’, se hai veramente fame, tornerai a nutrirti di tuberi, radici, larve e semi… che di natura è frutto questa tua vaghezza. Ora torniamo alla diversità delle armi, perché anche di questo vorrei discutere. Ogni volta che potenzi la tua arma cresce il tuo livello di responsabilità, per cui, se proprio volessimo sottilizzare, quanto più sofisticate sono le tue armi tanto più pacifico dovresti essere. Che poi è una rivisitazione del si vis pacem para bellum che nella sua versione originale non mi ha mai molto convinto. E non ci si può fermare nemmeno qui, perché tu, caro cacciatore, non spari per mangiare ma semplicemente per divertirti, ovvero hai raggiunto una distanza culturale così ampia da quell’attività che pretendi di sussumere nella natura selvaggia da perdere completamente il filo del suo significato ecologico.
Ecco allora che la caccia null’altro è che una farsa, assimilabile alle tante tradizioni. Ma, com’è evidente, le tradizioni quando perdono il loro significato richiedono una ritualizzazione ovvero una trasformazione che volatilizzi quegli aspetti che non fanno più parte della prassi. Per tale motivo se proprio occorre mantenere la tradizione della caccia dobbiamo trasformarla in caccia fotografica o in qualunque altra attività che non contempli la morte della preda, giacché questa ha significato nella predazione non nel divertimento. A meno che non individuiamo nel sadismo la fonte del divertimento. Ma poi… c’è scritto da qualche parte che ogni tradizione vada mantenuta? Se così fosse dovremmo riprendere i confronti del Colosseo o altre simili amenità. Le tradizioni vanno studiate, vanno contestualizzate, vanno trasformate secondo le metamorfosi socio-culturali di una data epoca, ma niente impone che vadano mantenute tal quali. Anzi, il volerle mantenere in uno stato di cristallizzazione le rende semplicemente ridicole, come in fondo è un cacciatore che rincorre un fagiano da allevamento in un campo a monocoltura. Anche per quanto concerne l’ideologia della frontiera, va sottolineato che si tratta di un falso, giacché tanto l’espansione geografica quanto l’espansione del neurocranio non hanno nulla a che fare con la prassi venatoria, venuta molto tempo dopo. Inutili giustificazioni per un’assurda attività.