Un estratto da “La passione del reale” (Mimesis) di Daniele Dottorini.
Due racconti, per iniziare
Primo racconto
L’inizio di un film. L’immagine di apertura è quella di un porto visto da una nave che si avvicina lentamente, mostrando, nel suo lento avvicinarsi, degli uomini fermi lungo la banchina; sono gli operai dei cantieri navali di Viano di Castelo, in Portogallo. La camera è posizionata su una barca, ondeggia seguendo il movimento della nave. La banchina appare sempre più vicina. In voce off ascoltiamo le parole degli operai dei cantieri, ma anche la voce di un regista che parla di un film da fare, un film necessario, su un evento simbolico e politicamente centrale come la protesta degli operai portuali in Portogallo, che scioperano di fronte al fallimento dei cantieri: “È necessario fare un film militante, ora come ora, un documentario su ciò che accade in questo momento” afferma il regista. Ma al tempo stesso, in un momento dove il cinema sembra morire, in cui il mondo è avvolto dalla crisi, è anche necessario, o forse desiderabile “raccontare storie meravigliose”. Ma è possibile fare entrambe le cose, si chiede il regista? Creare storie meravigliose e immergersi nella realtà? Per rispondere cinematograficamente, occorre allora pensare a cosa significhi raccontare storie che siano la forma attraverso la quale il reale può emergere.
Ecco, due domande. Il percorso sarà fatto appunto di domande e sentieri, di immagini e concetti che si richiamano a vicenda. Ma qual è il film di cui stiamo raccontando l’inizio? Molti lo avranno riconosciuto: questo movimento è quello che mette in scena Miguel Gomes nel primo episodio dello straordinario trittico de Le mille e una notte (2015). Un film che di fatto configura una prima risposta alla doppia domanda posta in precedenza. Scrivono Eugenio Renzi e Cristina Piccino a proposito dell’operazione complessa messa in atto da Miguel Gomes:
Nel “diario di bordo”, tenuto mentre girava Le mille e una notte, al 21 novembre, (Miguel Gomes, ndr.) annota: “Fare questo film è l’idea più stupida della mia vita. Come si può fare un film di intervento sociale e filmare delle storie meravigliose?”. Questa frase è messa in scena nel film: Gomes, seduto davanti alla macchina da presa, fa una cosa molto “morettiana”: si alza e se ne va correndo. Ancora nel diario: “Fuggo per le strade di Viano, inseguito dalla troupe del film”. Finzione? Realtà? L’uno e l’altro: verità della finzione.1
Il diario dove Gomes racconta la sua fuga, da documento interiore diventa prolungamento del gioco complesso di finzioni che costituisce la sua personale strada per costruire un’immagine del reale. 2
Il regista dunque ritorna, inizia a raccontare. E il racconto ha inizio a partire dall’introduzione del personaggio di Sheradzade, che entra nel film (è sul suo primo piano sorridente che hanno inizio i titoli di testa), e diventa il perno a partire dal quale la dimensione affabulatoria, fantastica del film si sviluppa. I personaggi prendono vita e abitano spazi e luoghi del Portogallo, diventano personaggi concettuali, funzioni narrative e immagini, si mescolano a visioni surreali o si mostrano come racconto di se stessi. Nelle oltre sei ore del film, il regista portoghese costruisce il proprio approccio alla realtà, semplicemente creando cinema. Gomes costruisce cioè attraverso uno scarto, una fuga e un ritorno (movimento in fondo profondamente dialettico): crea un approccio al reale che nega le divisioni, le partizioni, le classificazioni in generi. Ecco allora una prima risposta alla doppia domanda – cosa significa raccontare storie? cosa può dire il cinema del reale? – ma ancora, non siamo soddisfatti. Ci rendiamo conto invece che si apre qualcosa, un percorso, un sentiero che si biforca, e che è necessario proseguire oltre. Raccontare un’altra storia.
Secondo racconto
Albert Maysles è stato uno dei grandi artefici della rivoluzione del documentario moderno, tra la fine degli anni Cinquanta e lungo gli anni Sessanta del secolo scorso; con film come Salesman (1968) o Gimme Shelter! (1969) Maysles ha colto le tracce di vite note e sconosciute attraverso un’idea e una pratica di cinema che ripensa l’esperienza sempre sotto forma di racconto, di narrazione. L’approccio al reale, afferma Maysles, si concretizza mediante un processo di empatia tra individui, corpi e soggetti: «Ogni documentario è una sorta di avventura nel cuore e l’anima di alcune persone (…). Il mio modo di usare lo strumento, il modo in cui io uso le mie emozioni, diciamo, è, credo, quello di avvicinarsi, avvicinarsi alla verità piuttosto che lontano da essa. Forse il fattore determinante è che io entro in empatia con le persone che filmo».3 Avvicinarsi alla verità, individuare cioè il vero come punto, punctum verso il quale ci si muove, creando una connessione tra sé e l’altro che si filma, registrare ciò che l’altro è, pensare al film come autobiografia, non come biografia. 4
Dunque un secondo approccio è possibile, un altro modo di approssimarsi al problema del reale, del vero: prima ancora che la forma è il metodo che importa. L’empatia come garanzia di un rapporto, di una connessione; da qui ogni storia è possibile, da qui ogni storia può essere raccontata, come Nonfiction Feature Film, come lo stesso Maysles descrive Salesman (sulla falsariga della Nonfiction Novel di Truman Capote) o come poesia del reale, frammento che cattura lo sguardo senza che in esso ci sia un senso descrivibile, traducibile, leggibile: un gesto, poesia del cinema.
Quale gesto? È lo stesso regista americano a raccontarlo. Immaginiamo, dice Maysles, di trovarci in un autobus, lo stesso autobus che prendiamo tutti i giorni alla stessa ora per andare al lavoro. Pochi sedili avanti a noi, una persona attira la nostra attenzione: è una donna di colore, enorme, gigantesca, la cui testa sembra letteralmente ergersi sopra il corpo oltre ogni immaginazione. La donna non bada a noi mentre noi siamo attratti da quella figura, non riusciamo a distogliere lo sguardo, come se attendessimo qualcosa che sta per accadere, anche se non sappiamo cosa. Diamo una leggera gomitata alla persona accanto a noi che ora segue la direzione del nostro sguardo e inizia anch’essa a guardare, forse incuriosita da questa ostinata fissazione del nostro sguardo. Un’attesa, una fiducia, un credere che un gesto avrà luogo.
L’attesa è ripagata. Ad un certo punto qualcosa accade: una seconda figura, una ragazzina anch’essa di colore, seduta accanto alla donna gigantesca (probabilmente è sua figlia) si alza dal suo posto e si accoccola sul corpo morbido, enorme e accogliente della donna, appoggia la testa sugli enormi seni e si addormenta: «Beh, ha trasformato tutto, come solo una poesia può fare, senza alcuno scopo … è una poesia, questo è tutto. Non ha bisogno di giustificarsi».5
Fuggire da ogni visione codificata del cinema e del suo sguardo documentario, pensare il reale come spazio, luogo e tempo per raccontare il mondo sotto forma di storie meravigliose, come fa Miguel Gomes; pensare il cinema come costruzione e svelamento di connessioni, legami tra esseri viventi, raccontare storie che possono avere anche la forza senza fondamento del gesto poetico e anche solo per questo sono forme di approccio al vero, al reale, come non ha mai smesso di fare Albert Maysles.
Il raccordo tra i due racconti è a sua volta un racconto. Ci narra di un percorso che attraversa lo sguardo documentario contemporaneo e che connette il cinema di Maysles (e insieme a lui la rivoluzione del cinema diretto, la nuova ondata del documentario moderno) al cinema del reale contemporaneo; un percorso che inizia dunque nella seconda meta del XX secolo, con la nascita del nuovo documentario appunto, in Europa, in Canada, negli USA. Una esplorazione non tanto tesa a ricostruire una storia, ma a pensarne le forme o, meglio, a scoprire quali forme di pensiero il cinema del reale può mettere in gioco e in che modo.
Quelle fin qui raccontate quindi sono solo alcuni dei racconti possibili, alcune delle idee di cinema, delle forme del mondo, delle pratiche dei concetti e delle immagini che si accavallano, si scontrano, si completano, all’interno del cinema documentario contemporaneo, o, come sempre più si dice negli ultimi anni, di quel cinema del reale che si propone come laboratorio aperto di forme e pratiche del cinema, capaci di rimettere in gioco tutta la storia del cinema come occhio del Novecento, per usare una espressione resa celebre da Francesco Casetti, cioè del dispositivo capace di elaborare continua pratiche di negoziazione tra i soggetti e il mondo, le sue trasformazioni, la sua indeterminazione.6 Ma capace anche di rimettere in gioco le forme del pensiero, di riprendere e riconfigurare concetti come Reale, Verità, Relazione, Incontro, Mondo, Sguardo, Spazio e Tempo. Concetti importanti, che troppo spesso vengono dati per scontati e che un cinema affetto dalla “passione del reale” ha il merito di ripensare.
Note
- C. Piccino, E. Renzi, “Miguel Gomes tra favola e politica”, il Manifesto, 17/05/2015.
- È l’idea della libertà del cinema, o del cinema che rifiuta il suo ruolo di tiranno, dice Gomes: « Quando il cinema non rappresenta una realtà di finzione ma in qualche modo è esposto nel suo modo di essere artificiale, quando è possibile vedere le trame della sua realizzazione, è a questo punto che lo spettatore recupera la possibilità di decidere se vuole credere o non vuole credere» Il cinema è un tiranno. Conversazione con Miguel Gomes, a cura di A. Spiniello, S. Sozzo, M. Ponziani, in “Sentieri Selvaggi Magazine”, n. 27, 2017, p. 91.
- L. Stubbs, Albert Maysles. Father of Direct cinema, in Id., Documentary Filmakers Speak, Allworth Press, New York 2002, p. 5 (traduzione mia).
- Ivi, p. 6.
- Ivi, p. 16.
- Cfr. F. Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano 2006.