Una recensione a Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali, a cura di Massimo Filippi e Marco Reggio (Mimesis, 2015)
Ha il valore di una scommessa questa raccolta di saggi curata da Massimo Filippi e Marco Reggio. E non è difficile indicarne la ragione: chi volesse giustificare l’accoppiamento tra il pensiero di Judith Butler e le istanze politiche dell’antispecismo sulla base di un criterio strettamente contenutistico, lasciandosi cioè orientare dalla frequenza dei pronunciamenti della femminista statunitense sulla questione animale, si troverebbe nella stessa situazione di chi, con un pugno di sabbia in mano, pretendesse di dire qualcosa a proposito del deserto. È ben vero, infatti, che le sonde lanciate dalla “seconda” Butler nel campo della vita precaria rispondono in maniera convincente all’esigenza di destabilizzare le premesse umanistiche su cui è stata edificata l’ontologia liberale del soggetto, registrandone puntigliosamente i punti di caduta e i momenti di crisi. Ma non è altrettanto scontato che uno sguardo attento all’«interminabile spettralità» che imprigiona il vivente esiliato ai margini della norma antropocentrica comporti uno scatto di solidarietà interspecifica verso il tema della liberazione animale.
A conferma di quanto appena detto sta la scelta, operata da tutti gli autori coinvolti in questo ripensamento dello strumentario analitico butleriano, di forzarlo in direzione antispecista, esponendolo non soltanto alla richiesta di riconoscimento di soggetti altri, ma — come sottolinea l’introduzione di Massimo Filippi, Questione di desiderio. Strade che convergono e animali che provocano (pp. 9-21) — alla necessità di «lasciare alle ‘cavie’ il controllo sul significato del test». Non si coglierebbe il significato di tale necessità senza una consapevolezza avvertita delle grandi capacità dell’antropocentrismo di rinascere dalle proprie ceneri incorporando frammenti di autocritica: a maggior ragione, nel quadro di una cultura abituata a sfruttare le risorse metaforiche dell’annientamento animale neutralizzando la violenza letterale dei processi sociali da cui la trasposizione metaforica trae la propria efficacia simbolica. Basti pensare soltanto, a titolo di esemplificazione linguistica, all’abituale impiego polemico di un’espressione come “macelleria sociale”, che deve tutta la propria forza retorica di scandalo alla naturalizzazione della pratica di macellazione animale e alla conseguente rimozione della stessa dal campo della sofferenza eticamente e politicamente rilevante.
Quanta animalità, sul piano più strettamente filosofico, debba poi essere messa tra parentesi da un itinerario di ricerca che ha contratto debiti importanti con la riproposizione novecentesca della questione hegeliana del riconoscimento, difficilmente potrebbe sfuggire a chi abbia presenti le traittorie del desiderio disegnate fin dagli esordi dall’autrice di Subjects of Desire. E forse non è un caso che Gender Trouble, il libro che nel 1990 ha dato avvio alla riflessione butleriana sul genere come apparato di produzione eteronormativa per mezzo del quale vengono istituiti i sessi e regolato l’accesso differenziale alla sfera dell’umano, ignori completamente lo sforzo teorico e politico di agganciare la dinamica sociale della costituzione differenziale dei soggetti alla pratica estesa di sfruttamento degli animali consegnato da Carol J. Adams al coevo The Sexual Politics of Meat.
Nessuna meraviglia, pertanto, che il volume affronti di petto la questione dell’animale come referente incerto — se non come vero e proprio «referente assente» — del discorso butleriano, affidando al contributo di Richard Iveson (Scene domestiche e questione di specie, pp. 53-74) il compito di interrogare una reticenza per molti versi paradossale, «qualora si consideri che è anche grazie alla riflessione teorica di Butler che è stato possibile assumere una prospettiva in grado di riconoscere che, per poter modificare realmente l’attuale regime di sfruttamento, è necessario reinscrivere gli animali non umani in quei luoghi da cui finora sono stati banditi». Tale reticenza si spiega, a giudizio di Iveson, alla luce della propensione di Butler a intendere l’umano come effetto di una pratica cumulativa di normalizzazione anziché come norma deputata a riprodurre, per mezzo della differenza di specie, l’esclusione costitutiva degli animali dal novero dei «corpi che contano». Una pesante eredità, concentrata nell’infelice definizione di animalità come «precondizione dell’umano», impedirebbe pertanto alla filosofa di smarcarsi una volta per tutte dal pregiudizio umanistico che, nutrendosi di animalità trascesa e dimenticata, tende a squalificare la preoccupazione per la sofferenza non umana.
Si può leggere come passaggio autocorrettivo rispetto a obiezioni di questo tipo la risposta che la stessa Judith Butler, sollecitata dai curatori a esprimersi sui confini della vita degna di lutto, fornisce nell’intervista che apre il volume, dal titolo Una molteplicità di animali sensuali (pp. 23-27): «Gli animali sono esseri sensuali, la cui sofferenza ed esistenza sono percepibili attraverso il suono e il movimento; gli animali, pertanto, possono — e di fatto lo fanno — esprimere una medesima proibizione a uccidere». Agli animali spetta — suggerisce Butler, ritorcendo Lévinas contro Lévinas — un volto: un volto che provoca e sollecita. È questo il primo passo da compiere contro il misconoscimento sistematico delle reti di dipendenza interspecifica su cui si fondano le prerogative dell’antropocentrismo. Ma che dire della disponibilità umana a raccogliere l’ingiunzione etica che proviene dalla sensualità dei non umani? Ci si può accontentare di riservare l’ultima parola a quello che Marco Reggio (L’attivismo antispecista tra invisibilizzazione e resistenza, pp. 47-52) definisce, con giustificata diffidenza, un «ambiguo sentimento di pietà»? Avrebbe senso affrontare la questione dello scambio interspecifico lasciando intatte le premesse ontologiche di un rapporto che, nelle sue configurazioni egemoni, verifica clamorosamente l’intuizione tragica che, in Butler, istituisce e mantiene aperta la problematica del riconoscimento? È possibile, insomma, sollevare la domanda etica senza tenere contestualmente presente che le cornici culturali di cui disponiamo per percepire il volto sono esattamente le stesse che comportano la cancellazione di altri volti possibili?
Occorre porsi queste domande per verificare in che modo le risorse critiche messe a disposizione dalla filosofa staunitense contribuiscano a marcare una discontinuità rispetto ad approcci propensi a dissociare il fatto ontologico dell’eccezione umana all’interno del vivente dalla distinzione valoriale che presiede alla distribuzione differenziale del lutto. Se a dispetto di ogni dichiarazione di principio circa l’insussistenza di una distinzione moralmente rilevante tra pazienti umani e non umani, le appartenenze di specie continuano a determinare sorti che a tutto lasciano pensare, tranne che a una comunanza morale di destino, è più che lecito sospettare che affermare una irriducibile differenza ontologica equivalga a porre un’altrettanto irriducibile gerarchia: l’una e l’altra stanno e cadono assieme.
Precisamente a quest’altezza la sfida butleriana al dogma differenzialista, premessa alla quale è l’idea che l’«essere» del vivente sia costituito attraverso mezzi selettivi che impediscono di riferirsi ad esso fuori dalle operazioni complesse del potere, rivela il proprio potenziale. In luogo del confine immobile segnato una volta per tutte dalla differenza, subentra lo sforzo politico di pensare a una condizione costitutiva di vulnerabilità condivisa «come modello non antropocentrico per considerare che cosa conferisca valore alla vita», capace di mettere in discussione il privilegio ontologico che l’antropocentrismo continua a riservarsi, mentre con l’altra mano porge la propria promessa antidiscriminatoria.
Si muove su questa linea l’intervento di James Stanescu (Questione di specie. Judith Butler, il lutto e le vite precarie degli animali, pp. 27-46), che individua nella valorizzazione politica del lutto per i viventi non umani e nella ripresa del concetto di vita precaria gli elementi indispensabili tanto a una ridefinizione dell’ontologia sociale in chiave anti-antropocentrica, quanto alla creazione di legami sociali trasformativi fondati sulla rivendicazione di una sofferenza che la cultura del diniego insiste a voler privatizzare, quando non a patologizzare. E insiste sullo stesso registro, ma allargando lo spettro delle coalizioni possibili, la postfazione di Federico Zappino, Norma sacrificale / Norma eterosessuale (ampiamente discussa nell’intervista Non è questione di gusti, apparsa sulla rivista di critica antispecista “Liberazioni”, n. 21, 2015), che sceglie un percorso autocoscienziale per arrivare a individuare, alle spalle della norma eterosessuale che governa l’intelligibilità sociale dei generi, una norma sacrificale ad essa sovraordinata che presiede alla naturalizzazione dell’uccisione di vite non umane – una norma, cioè, che struttura e dà corpo alla stessa eteronormatività. Di qui l’ipotesi, con cui si conclude il volume, che il rifiuto della norma sacrificale «potrebbe consentire di sovvertire radicalmente tanto la norma eterosessuale, quanto un intero regime politico e produttivo — quello neoliberista — in cui l’ancestrale sacrificio animale, oggi, non è che il doppio ampiamente sottaciuto del sacrificio che di bambini, di adulti e di vecchi la tanatopolitica neoliberista fa ogni minuto che passa» (pp. 75-90). Decisamente non è poco, per chi era partito alla volta del deserto con un pugno di sabbia in mano.