18 settembre 2034. Sono trascorsi esattamente vent’anni da quel Workshop. Era il 18-19 settembre 2014. Lo ricordo ancora con molto piacere e riesco a rintracciarne la contemporaneità con l’attualità. Oggi noi identifichiamo convenzionalmente nell’anno 2017 l’inizio del processo di grande trasformazione dell’impresa sociale italiana, di quel processo che l’ha portata a scardinare il protettivo recinto che la vedeva impegnata in un settore residuale, terzo rispetto a stato e mercato, e ad ammettere (prima di tutto con sé stessa) che era un’impresa di mercato a tutti gli effetti e che era quello il luogo in cui doveva confrontarsi.
Oggi sappiamo anche che è proprio in quegli anni che l’impresa sociale si rende conto di avere nel proprio codice genetico le eliche giuste per produrre e distribuire meglio di altri beni e servizi di ogni tipo, per fare leva sulla sua storica capacità di coproduzione e su modelli ampiamente sperimentati per cogenerare valore e conoscenza.
Forse noi partecipanti a quell’edizione del Workshop non eravamo in grado di leggere con tale chiarezza un fenomeno nel quale ci trovavamo completamente immersi, ma i suoi organizzatori qualche indizio lo avevano certamente scovato. Con i tre interventi di apertura, Giancarlo Provasi (Una nuova “grande trasformazione”?), Carlo Borzaga (È l’anno dell’impresa sociale) e Flaviano Zandonai (L’anno dell’impresa sociale nei dati del nuovo Rapporto Iris Network) andarono dritti al punto, senza nascondersi o giocare di rimessa: dopo il fallimento di un modello welfarista keynesiano che non era riuscito a rispondere a bisogni sociali in continua emersione e alla domanda di redistribuzione della ricchezza e dopo anni di fiducia cieca in un mercato che ci aveva condotto dentro una delle più profonde crisi europee (di cui paghiamo il conto ancora oggi), istituzioni internazionali, governi e policy makers iniziavano a comprendere il bisogno di mobilitare risorse per rivitalizzare lo spazio della reciprocità.
Erano gli stessi anni in cui le parole condivisione, collaborazione e cooperazione stavano entrando prepotentemente nel lessico economico della sharing economy. Contemporaneamente l’impresa sociale italiana nel suo complesso e complessità – cioè fuori da sterili disquisizioni tassonomiche su cooperazione, associazionismo, fondazioni, profit… – contava già un nutrito gruppo di oltre 150 mila imprese (12570 Cooperative sociali, 80868 Organizzazioni non profit market, 61776 Imprese for profit operative nei settori della lege 118/05).
Una grande rivoluzione non era all’ordine del giorno (me ne rammarico oggi come allora, ma le sconfitte vanno riconosciute!), ma si aveva la sensazione di poter costruire una forma di capitalismo, e non più solo una nicchia autoreferenziale, in grado di incorporare l’elemento della cogenerazione di valore. Non c’erano più scuse! Nelle nostre esperienze avevamo incorporati quei modelli di condivisione e cooperazione che ci potevano abilitare a giocarcela a viso aperto con i sistemi competitivi e proprietari del neoliberismo senza dover rinunciare per questo al nostro mutualismo intrinseco.
Una tale consuetudine però da sola non era sufficiente, era necessario rileggere quella storia specifica alla luce del presente e all’interno di un quadro di senso complessivo, di un nuovo e contemporaneo progetto sociale (e come tale politico ed economico). In quell’intuizione ritrovo oggi l’intelligenza degli organizzatori di condurre quell’edizione del Workshop lungo in fil rouge del design dei servizi e delle opzioni, bene alimentato da una “sporca dozzina” di designer invitati all’uopo. Bisogna ammetterlo, con il senno del poi è facile riconoscerne l’utilità. Ma fu solo nei successivi sette anni che l’impresa sociale italiana, a differenza di molte altre nel mondo, riuscì a rafforzare i propri storici modelli cooperativi e gettare così le basi per favorire la nascita di imprese che avessero realmente nello sharing il loro principio di regolazione, traghettando l’innovazione sociale verso una nuova imprenditorialità sociale, vista come opportunità per generare processi di cambiamento organizzativo all’interno delle imprese, tutte.Perfetto corollario del Workshop le tante sessioni dedicate ai temi delle nuove tecnologie, dell’impatto sociale, del valore condiviso e della cultura. Il chi, il cosa, il come e il perchè erano tutti lì davanti ai nostri occhi. Al quando avremmo risposto poco dopo, alcuni individualmente e altri collettivamente.
Il successo di quell’edizione non si capì tanto dai numeri (le sale erano tutte piene degli anni precedenti) quanto dall’entusiasmo che traspariva dai dialoghi tra noi partecipanti. Si accendevano continuamente lampadine, crescevano suggestioni, ci si lanciava proposte, si immaginavano prospettive, ci presentavamo reciprocamente persone. La vitalità era tale che in molti abbiamo pensato che quel format di Workshop che avevamo conosciuto non era più del tutto in grado di contenere la vis creativa che era stato capace di generare. Forse è anche per questo che dall’anno successivo gli organizzatori cambiarono i confini e la spazialità del format storico.
Una conversazione twitter registrata verso la fine della due giorni di Riva del Garda spiega bene ancora oggi quell’aria.
@mauribusacca sono le persone che lo animano che fanno la differenza! Grazie a tutti quelli che stanno partecipando #wis14
— Iris Network (@Iris_Network) 19 Settembre 2014
Era proprio andata così!
In anni in cui il discorso sull’impresa sociale era sviluppato separatamente e autonomamente (e anche autoreferenzialmente) da mondo dell’impresa, della politica e della ricerca, Iris Network al WIS (Workshop sull’impresa sociale) continuava a rompere quelle distanze. Tutti i vari conduttori, promotori e facilitatori delle varie sessioni plenarie e parallele e anche molti dei partecipanti erano figure ibride che indossavano più giacche (se non tutte e tre) e che riuscivano quindi a proporre una complessità di analisi e di progetto che non avrebbero potuto sviluppare se dotati di uno zoom ad ottica fissa. L’attitudine allo zooming fu una delle caratteristiche più interessanti di quel Workshop. Ma la caratteristica che più mi colpì fu l’alto grado di autorialità di quell’edizione. In un’epoca storica in cui in tanti, oggi sappiamo scioccamente, ci battevamo contro l’autorialità e per un progetto diffuso, Iris Network ebbe il coraggio di andare controcorrente. Lo fece curando l’organizzazione e i contenuti del workshop e lo fece di nuovo cocostruendolo con persone i cui percorsi professionali e imprenditoriali ne evidenziavano il piglio inventivo e l’autorevolezza. Lo fece comprendendo, o almeno così credo e comunque anche se gli fosse riuscito per caso il risultato non cambierebbe, che per costruire un nuovo orizzonte di senso per l’impresa sociale era necessario rafforzare e diffondere la capacità autoriale, non contrastarla e tantomeno attribuirla a pochi (pre)scelti, per sviluppare un processo collettivo capace di generare impatti sul reale. Fu così che ricerca, prassi e visione si congiunsero in una due giorni molto densa (e addensante) dalla quale penso tornammo tutti a casa con tante idee per la testa e iniziammo a costruire una nostra storia, un’altra…
Oggi ci stiamo ponendo in molti delle domande che ricordano quelle di allora. Sono certamente diverse ma perseguono delle strategie coerenti che ritengo si siano pienamente configurate in quegli anni. Comprenderne la genesi, l’origine e l’operatività potrebbe aiutarci e capire se e come rispondere all’ennesima ondata di cambiamento sociale.
[Qui il blog personale di Maurizio Busacca]